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Scientia Antiquitatis
lunedì 26 novembre 2012
Gran Bretagna: Trovato il più grande tesoro degli antichi anglosassoni.
E' rimasto sepolto per 1.400 anni fino a quando, quest’estate, un disoccupato con la passione del metal detector vi si è imbattuto: il più grande tesoro di epoca anglosassone mai rinvenuto è stato trovato nel centro dell’Inghilterra, in quello che allora era il regno di Mercia.
Terry Herbert, questo il nome del 55enne che occupa il tempo libero perlustrando le campagne inglesi e che per caso ha scovato il prezioso bottino, ha portato alla luce oltre 1.500 artefatti militari, contenenti circa 5 chili d’oro e 2,5 chili d’argento.
La scoperta è di grandissimo valore archeologico ed è stata fatta a luglio, ma è stata resa nota soltanto oggi.
Il tesoro è ora custodito al Birmingham Museum and Art Gallery e alcuni pezzi andranno in mostra da domani fino al 13 ottobre.
Secondo gli archeologi si tratterebbe di un bottino di guerra di un qualche sovrano anglosassone, ma per determinarne l’esatta origine sarà necessario almeno un anno.
L'autorità locale dello Staffordshire, il museo di Birmingham e il Pottery Museum and Art Gallery stanno pensando di acquistare la collezione di manufatti, già battezzata 'the Staffordshire Hoard’, cioè il tesoro dello Staffordshire, e per Herbert e il suo amico contadino, sulla cui proprietà è stato rinvenuto il prezioso bottino, l’acquisto potrebbe rappresentare la fine delle ristrettezze economiche: secondo le leggi britanniche infatti, i tesori appartengono a chi li trova e la metà del ricavo della loro vendita viene per consuetudine data al proprietario del terreno.
Sul mercato odierno, 5 chili d’oro valgono oltre100mila sterline, ma nel caso di tesori antichi come questo, il valore è decisamente più alto: nel 2007 il British Museum ha speso 125mila sterline per acquistare un pomo e un’elsa decorata di spada risalenti al 650 d.C., ovvero allo stesso periodo del tesoro dello Staffordshire.
Herbert, che da 18 anni ha l’hobby del metal detecting e che ha fatto la sua scoperta con uno strumento vecchio di 14 anni, sospetta che il suo ritrovamento abbia addirittura del sovrannaturale. «C'èquesta frase che ripeto a volte: gli spiriti di ieri mi guidino dove appaiono le monete. Quel giorno avevo sostituito la parola monete con la parola oro.
Non so perché l’ho fatto, ma credo che qualcuno mi stesse ascoltando e mi abbia guidato. Forse doveva succedere».
Secondo Michael Lewis del British Museum, alcuni degli oggetti rinvenuti da Herbert sono talmente unici da rendere quasi impossibile assegnare loro un valore.
Clima: Spettacolare tromba marina a Sud di Sydney.
Nella tranquilla zona del New South Wales in Australia, la mattinata di ieri è stata caratterizzata da uno degli eventi più spettacolari di madre natura: un enorme tromba marina seguita da lampi, grandine e fortissimo vento.
L'evento ha avuto origine da una nube temporalesca ben sviluppata, un sistema multicellulare venuto a formarsi dopo che masse d'aria particolarmente fredde in quota hanno raggiunto aria caldo-umida proveniente da NE e dopo essersi scontrata con il vasto anticiclone semi-permanente del deserto australiano.
Nelle prime ore della giornata si sono verificati in zona molti temporali, tanto che il centro meteorologico nazionale australiano ha segnalato la straordinaria caduta di oltre 24.000 lampi su tutto il paese.
Poi diverse ore dopo l'alba, lungo le acque del Batemans Bay, a 140 miglia a Sud di Sidney, un enorme tromba marina si fa largo tra le nubi scure e minacciose, catturando l'attenzione dei molti presenti sulle spiagge e lungo le strade costiere (a breve inizierà la stagione estiva e sono in atto le ultime incursioni fresche da Sud tardo-primaverili).
L'imbuto ha raggiunto un diametro al suolo di oltre 80 metri mentre alla basse della nube potrebbe aver superato i 130 metri di estensione, è durata ben 12 minuti e non si è avvicinata più di troppo alle coste, permettendo una "sicura" osservazione nei pressi dell'imbuto, quasi di natura supercellulare. Sulla zona c'erano temperature di oltre 33°C.
Video: Video amatoriale dell'evento.
Poi diverse ore dopo l'alba, lungo le acque del Batemans Bay, a 140 miglia a Sud di Sidney, un enorme tromba marina si fa largo tra le nubi scure e minacciose, catturando l'attenzione dei molti presenti sulle spiagge e lungo le strade costiere (a breve inizierà la stagione estiva e sono in atto le ultime incursioni fresche da Sud tardo-primaverili).
L'imbuto ha raggiunto un diametro al suolo di oltre 80 metri mentre alla basse della nube potrebbe aver superato i 130 metri di estensione, è durata ben 12 minuti e non si è avvicinata più di troppo alle coste, permettendo una "sicura" osservazione nei pressi dell'imbuto, quasi di natura supercellulare. Sulla zona c'erano temperature di oltre 33°C.
Video: Video amatoriale dell'evento.
Svelato il mistero del "Canto delle dune", il suono emesso dal deserto.
Sin dall'antichità studiosi ed esploratori erano rimasti incantati dai suoni che talvolta emanavano dalle dune del deserto.
Il vento li diffondeva e nessuno ne riusciva ad individuare la vera origine.
Nel corso dei secoli in molti hanno tentato di trovare una spiegazione scientifica al fenomeno ma l'unica certezza a cui si era giunti era quella che tali suoni si generassero soltanto in presenza del vento e che probabilmente fosse proprio questo a causarli.
Ma in che modo, ancora nessuno era riuscito a spiegarlo.
Come poteva il vento che spirava tra le dune fare sì che queste cantassero?
Il canto delle dune, un suono basso simile a un gemito o a un ronzio, è stato per secoli oggetto di interesse.
Ha affascinato Marco Polo durante i suoi viaggi e ha incuriosito Charles Darwin: nei suoi racconti di viaggio in Cile ha scritto che i cittadini della valle di Copiapó avevano soprannominato una collina di sabbia «El Bramador» per i gemiti che emetteva quando la sabbia scorreva lungo il pendio.
Ma solo a partire dalla fine del XIX secolo sono state realizzate osservazioni scientifiche, che hanno fatto luce sulla voce del deserto: in primo luogo, non tutte le dune cantano, ma tutte quelle che lo fanno sono composte da sabbia asciutta e ben ordinata.
E in secondo luogo, il suono è generato spontaneamente quando la sabbia scivola verso il basso su un fianco della duna, a causa dell’azione del vento o del calpestio.
Inoltre, mentre alcune dune hanno la capacità di emettere un suono fino a 110 decibel, a una frequenza ben definita, altre invece intonano più note contemporaneamente.
Lo rivela uno studio, condotto sia sul campo sia in laboratorio, dai ricercatori dell'Università Paris Diderot e pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters.
Per capire a cosa sia dovuta questa differenza, il fisico Simon Dagois-Bohy ha registrato «in presa diretta» il canto di due dune: una vicino Tarfaya, città portuale nel sud-ovest del Marocco, e una nella città costiera di Al-Askharah nel sud-est dell'Oman.
In Marocco, la sabbia canta in sol diesis, costantemente a 105 hertz circa.
La duna dell'Oman, invece, «canta molto bene, ma è impossibile identificare una singola frequenza»: genera infatti una cacofonia, emettendo più suoni in ogni possibile frequenza tra 90 e 150 hertz, ovvero dal fa diesis al re.
A quanto pare, il suono emesso, o meglio le caratteristiche spettrali molto diverse dipendono dalla dimensione dei granelli di sabbia.
Una duna composta da granelli polidispersi produce uno spettro acustico molto ampio e rumoroso, mentre una duna di grani più omogenei produce una frequenza ben definita. La duna dell’Oman è formata infatti da granelli il cui diametro varia dai 150 ai 310 micron (milionesimi di metro): una gamma molto più ampia rispetto alle controparti marocchine, dalle dimensioni di 150-170 micron.
Anche dalla verifica in laboratorio è emerso che è la loro dimensione a determinare la frequenza delle note. In laboratorio i ricercatori hanno ricreato, infatti, mini-valanghe in miniatura, con 50 chili di sabbia raccolti dalla duna del Marocco e 150 chili dalla duna di Al-Askharah, e ne hanno registrato il suono.
La sabbia della penisola dell’Oman è per natura più rumorosa, ma setacciando solo i granelli dal diametro tra i 200 e 250 micron, anche questa sabbia ha emesso un tono ben definito: una sola nota a circa 90 hertz.
«Questo suggerisce che la granulometria è un fattore importante nel determinare il canto delle dune», spiega Dagois-Bohy.
«La frequenza del suono», aggiunge, «non dipende dalla dimensione o dalla forma della duna, né dalle vibrazioni negli strati di sabbia sottostanti provocati dal movimento della sabbia in superficie, ma dal diametro dei singoli granelli».
Che, in base alla dimensione e al modo in cui scivolano sulla superficie, possono dare origine a uno spettro acustico ampio e rumoroso oppure a frequenze specifiche e ben definite.
Il suono infatti è prodotto dal moto sincronizzato dei singoli granelli.
Le dune formate da granuli di dimensioni diverse producono una gamma più ampia di note contemporaneamente, perché diversa è la velocità alla quale i diversi granelli scivolano verso il basso durante una valanga.
Se la duna invece è formata da granelli della stessa dimensione, i flussi di sabbia si muovono a velocità più sincrone, e il suono si restringe a tonalità specifiche.
«Ancora non è chiaro come il movimento dei flussi di sabbia si traduca in suoni simili alle note musicali», sottolinea Dagois-Bohy. «Un’ipotesi è che i granelli di sabbia che scorrono sincronizzati vibrino all'unisono.
E le migliaia di vibrazioni spingono l'aria come la membrana di un altoparlante».
Oman: Un incontro con i pescatori.
Dei pescatori bisognerebbe poter dire molto di più.
Basterebbe accamparsi, in una zona dove lavorano per fare amicizia.
La maggior parte dei pescatori sono di origine indiana, vengono dall'India o dal Bangladesh.
I padroncini dei furgoni sono in genere degli Omaniti.
La differenza la si può notare dai tratti del viso e dell'abbigliamento.
Si nota soprattutto dalla parlata inglese. Gli Omaniti anziani non hanno imparato l'inglese a scuola, perché allora le scuole non c'erano.
Gli indiani parlano un inglese certe volte molto corrente, molto fluido.
Si riconoscono subito le donne indiane, perché vestono i sari, poi non hanno bisogno di velarsi.
I pescatori di questa zona pescano con barche di plastica, lunghe e piatte spinte da motori fuoribordo di fabbricazione giapponese.
Barche, motori e pick up acquistati con facilitazioni e concessioni del Governo.
La pesca fa parte di una delle entrate notevoli dell'economia locale.
Escono a prendere sardine, tornano con queste barche stracolme di sardine, le rovesciano in grossi cestino che a loro volta sono poi travasati entro le celle frigorifere che stanno sopra i pick up.
Pronti a partire verso i mercati. Poi passano a sistemare le reti nelle quali sono rimaste impigliate sia le sarde che altre prede più piccole.
Puliscono le loro reti e le sbattono verso l'alto. I pesci nel sole hanno bagliori d'argento.
I pescatori sembrano personaggi biblici, tutti hanno grandi barbe, turbanti avvolti alla testa, fazzoletti da testa che qualche volta scivolano un po' da una parte.
Le tuniche sono girate intorno alla vita, per essere un pochino più corte, sopra il ginocchio.
Vanno e vengono scalzi, parlando a voce alta, sembrano anche particolarmente allegri.
Vedere un gruppo di turisti è per loro certamente una novità, però continuano a fare il lavoro che stavano facendo, poi nello steso tempo scambiano qualche parola.
Domandano come va, offrono del pesce per pura cortesia, chiedono anche se qualcuno vuole uscire in barca con loro, per andare a ritirare altre reti.
Avendo tempo varrebbe la pena pure se le barche, così cariche, sembrano molto precarie.
I pescatori stanno al gioco, sono contenti di essere fotografati, qualcuno chiede addirittura di provare a fare foto.
Molto rapidamente imparano ad usare il tele, lo zoom ed a fare foto.
I gabbiani volano dappertutto, sopra a queste reti a queste sarde che sono state pescate.
Vorrebbero precipitarsi su questo ben di dio, rimpinzarsi e mangiare per tutti gli anni a venire.
Sembrano arrabbiati, gridano, si abbassano, ma nessuno si tuffa.
Solo dopo si scopre il motivo. C'è un gabbiano legato per una zampa ad un palo.
Cerca di volare, ma non riesce, sbatte le ali, grida a sua volta, avvisa che c'è un pericolo.
Il rumore è assordante, molto festoso, ma abbastanza ossessivo.
domenica 25 novembre 2012
Kenya: Fly 4 elephants ha bisogno di uno sponsor.
Una coppia coraggiosa contribuisce alla lotta del bracconaggio in Kenya.
Sono in cerca di uno sponsor o di un piccolo aiuto per il loro aereo.
Piccole donazioni per intervenire ed aiutare gli elefanti del Kenya.
Fly4elephants è stato incorporato per portare una componente molto necessaria anti-bracconaggio nei parchi nazionali del Kenya.
Hanno intenzione di raccogliere fondi per mantenere il 'Super Cub', il loro aereo, per contribuire positivamente alla Wildlife Kenya.
Fly4elephants è un'associazione senza scopo di lucro, fondata nel giugno 2012, che ha deciso di prendere posizione per l'elefante africano in via di estinzione.
Fly4elephants non adotta il programma dei "collari", né vuole avviare un altro programma di ricerca comportamentale come innumerevoli Ong già fanno, come suggerisce il nome, loro vogliono solo pattugliare lo spazio aereo su aree in cui il bracconaggio è drammaticamente aumentato.
Questo provoca un ostacolo per i bracconieri perché la visibilità dall'aria è molto meglio che sul terreno.
Fly4elephants quindi comunica il punto esatto dove si trovano i bracconieri.
Qualsiasi tipo di aiuto è altamente benvenuto e tutti i suggerimenti vengono presi in seria considerazione.
Tuttavia, apprezzano anche donazioni da vari sponsor .
Al fine di mantenere il pattugliamento in aria su una base costante hanno bisogno di carburante.
Un'ora nelle quantità d'aria a USD 250, quella piccola quantità di denaro può salvare fino a tre vite di elefanti.
Circa 450.000 elefanti attualmente vivono in Africa.
I numeri sono in calo dell'8% ogni anno a causa del bracconaggio.
Purtroppo il bracconaggio accade in ogni grande parco e riserva del Kenya, provocando la morte di questa specie, che è una pietra miliare di tutti noi.
Fotografia Naturalista: Scatti d'autore del Parco Nazionale del Gran sasso e Monti della Laga. Vincenzo Mazza e Alessio Graziani.
Giovedì 13 dicembre 2012 alle ore 19 vi sarà l’inaugurazione di una mostra fotografica sul Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.
Vincenzo Mazza e Alessio Graziani, gli autori delle immagini, fotografano il territorio del Parco da oltre tre anni, alla ricerca di luci ed atmosfere straordinarie realizzando una collezione unica di immagini di quei luoghi.
La mostra è composta da 22 pannelli “Fine Art” 60X90cm, (16 fotografie di Vincenzo Mazza e 6 di Alessio Graziani) che percorrono un racconto fotografico del territorio del Parco, sia nell’alternarsi delle stagioni sia dei luoghi: dalla Piana di Campo Imperatore ai boschi dei Monti della Laga, passando per il Lago di Campotosto e le rovine di Rocca Calascio.
Il giorno dell’inaugurazione, oltre alla possibilità di conoscere ed incontrare gli autori, sarà l’occasione per potere gustare una serie di prodotti tipici abruzzesi offerti dall’ Hotel Campo Imperatore, dall’Azienda Agricola Cataldi Madonna (pluripremiata con i 3 bicchieri Gambero Rosso), dall’ Azienda agricola Rossi Dino, dal Consorzio Canestrato Di Castel del Monte (presidio Slowfoo ) e dalla Macelleria De Paulis .
La mostra si terrò nell’area expo professionisti di uno dei negozi di fotografia più noti di Roma: Fotoforniture Sabatini, Via Germanico 168/A
La visione fotografica di Vincenzo Mazza.
"Che senso ha dedicarsi alla fotografia visto che oggi tutti hanno una macchina fotografica?". Questa domanda mi è stata fatta un pò di tempo fa, in occasione di una manifestazione di fotografia alla quale avevo partecipato.
E' una domanda che mi sono fatto anche da solo, innumerevoli volte. Ho risposto, e mi sono risposto, prendendo in prestito un concetto letto in un libro di Olivier Follmi: "Tutti hanno una fotocamera ma solamente io ho la mia visione, ed è quella che porto con me ogni giorno: Nessuno potrà averne una uguale".
Dopo anni di fotografia amatoriale ho iniziato a fotografare professionalmente, nel campo della fotografia di sport e cerimonia, nel 2003 agli albori dell’era digitale.
Affascinato inizialmente dalla sinergia tecnologica fra la produzione di immagini digitali e i software in grado di trattarle, ho affinato, nel corso tempo, la mia tecnica.
Negli ultimi anni la mia ricerca si è focalizzata sul paesaggio nel tentativo di cogliere aspetti unici e inusuali dello stesso.
Sono appassionato da tutto ciò che è naturale e/o distante dalla società nella quale vivo quotidianamente.
Mie immagini sono state pubblicate su importanti riviste nazionali e su periodici online internazionali.
Attualmente lavoro come formatore nel campo della fotografia e del video digitale presso diversi istituti privati (fra i quali l'Istituto Nazionale di Architettura di Roma).
Docente presso l'Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata di Roma. Ho svolto corsi di formazione e aggiornamento in società ed istituzioni quali il reparto multimediale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e la SOGEI (Information and Communication Technology del ministero dell'Economia).
La filosofia di scatto di Alessio Graziani
9 giugno 2004, giorno del mio 33° compleanno, con un misto di stupore e ammirazione, guardo una scatola, posta di fronte a me, che contiene due oggetti: una reflex Canon EOS 300X a pellicola ed il libro di Bryan Peterson 'Corso Avanzato di Fotografia'.
Guardo nel mirino e premo il pulsante di messa a fuoco, dalla nebbia si materializza un volto sorridente che mi guarda...
E' stato solamente con il tempo, però, e durante un viaggio in Sudafrica che ho compreso che la Natura sarebbe stato il mio soggetto.
Colpito dal fascino della Natura, spinto dalla curiosità e dalla voglia di provare emozioni ho intrapreso questo viaggio buona parte del quale è visibile in questo sito sotto forma di fotografie.
Aver scattato per parecchio tempo a pellicola, ha lasciato un imprinting ed un modus operandi indelebile nella mia mente.
Tutte le foto presenti su questo sito sono il frutto di un singolo scatto. Nonostante non siano strumenti perfetti, utilizzo praticamente sempre i filtri NDG, con l'obiettivo di ottenere il miglior RAW possibile direttamente in fase di scatto.
Il passaggio al digitale ha rappresentato, per me, l'enorme possibilità di poter prendere in mano tutto il processo di produzione di una foto, dallo scatto alla post-produzione e alla stampa.
Le valanghe più facili sull'Himalaya che sulle Alpi.
La probabilità di distacco è l'agata all'ampiezza dei pendii.
Le valanghe sull'Himalaya possono avvenire più facilmente che sulle Alpi: la differenza si deve a fenomeni di scala, vale a dire che all'aumentare dell'altezza della montagna aumentano anche le dimensioni del pendio e fenomeni di distacco del manto nevoso diventano piu' probabili che su un pendio più piccolo.
E' la tesi proposta da un ricercatore italiano dell'Università di Trento sulla rivista specializzata in alpinismo, Alp, per spiegare anche le cause della valanga 'anomala' avvenuta il 23 settembre scorso sul Manaslu e costata la vita a 13 alpinisti.
''Una situazione di sicurezza a 4.000 metri, ha spiegato Nicola Pugno, ordinario di scienza delle costruzioni all'Università di Trento e autore dello studio, potrebbe non esserlo a 8.000''. E' una delle conseguenze più immediate che derivano da un nuovo modello generale sulla propagazione di valanghe o frane, messo a punto nel tentativo di dare una risposta alla tragedia avvenuta sull'Himalaya il 23 settembre scorso.
Allora una valanga, definita 'anomala' da molti esperti, ha colpito il campo posto a 7.000 metri, causando ben 13 vittime tra le quali l'italiano Alberto Magliano.
''Si tratta di un modello completo, ha proseguito Pugno, che considera tutti gli elementi legati alla propagazione di una valanga, come attrito, frattura, adesione e coesione, mentre tipicamente se ne considerano solo alcuni''.
Per il ricercatore ''la cosa più interessante che emerge da questi dati è che le condizioni critiche per il distacco di una valanga possono variare di molte volte in base all'altezza della montagna''.
Ad esempio, una valanga a quota 8.000 metri può avvenire con precipitazioni quattro volte inferiori che a 4.000 metri.
Le valanghe sull'Himalaya possono avvenire più facilmente che sulle Alpi: la differenza si deve a fenomeni di scala, vale a dire che all'aumentare dell'altezza della montagna aumentano anche le dimensioni del pendio e fenomeni di distacco del manto nevoso diventano piu' probabili che su un pendio più piccolo.
E' la tesi proposta da un ricercatore italiano dell'Università di Trento sulla rivista specializzata in alpinismo, Alp, per spiegare anche le cause della valanga 'anomala' avvenuta il 23 settembre scorso sul Manaslu e costata la vita a 13 alpinisti.
''Una situazione di sicurezza a 4.000 metri, ha spiegato Nicola Pugno, ordinario di scienza delle costruzioni all'Università di Trento e autore dello studio, potrebbe non esserlo a 8.000''. E' una delle conseguenze più immediate che derivano da un nuovo modello generale sulla propagazione di valanghe o frane, messo a punto nel tentativo di dare una risposta alla tragedia avvenuta sull'Himalaya il 23 settembre scorso.
Allora una valanga, definita 'anomala' da molti esperti, ha colpito il campo posto a 7.000 metri, causando ben 13 vittime tra le quali l'italiano Alberto Magliano.
''Si tratta di un modello completo, ha proseguito Pugno, che considera tutti gli elementi legati alla propagazione di una valanga, come attrito, frattura, adesione e coesione, mentre tipicamente se ne considerano solo alcuni''.
Per il ricercatore ''la cosa più interessante che emerge da questi dati è che le condizioni critiche per il distacco di una valanga possono variare di molte volte in base all'altezza della montagna''.
Ad esempio, una valanga a quota 8.000 metri può avvenire con precipitazioni quattro volte inferiori che a 4.000 metri.
Africa Australe: Sudafrica, Hluhluwe-Umfolozi, regno dei rinoceronti.
Ex terreno di caccia reale dei regnanti zulù, la riserva di Umfolozi è la prima in Africa per istituzione: nacque nel 1898 per salvare un rinoceronte bianco, portato sull'orlo dell'estinzione dall'incontrollata caccia da trofeo.
E' una storia di successo: grazie alla gestione del Natal Parks Board ( il dipartimento parchi, oggi ufficialmente ribattezzato "Ezemvelo KZN Wildlife" ma noto come KwaZulu-Natal Wildlife), la specie si è riprodotta consentendo l'esportazione di oltre tremila esemplari verso altri parchi, e ad altri paesi africani.
E' qui oggi la più grande concentrazione al mondo di rinoceronti: oltre 350 rinoceronti neri (Diceros bicornis) e 1.800 rinoceronti bianchi (Ceratotherioumsimum).
In questo parco è stato anche introdotto e messo a punto (dal veterano della conservazione sudafricana, Ian Player) il concetto di Wilderness Trail, escursione a piedi che può durare due o più giorni, come strumento di educazione ambientale e frizione piena ma rispettosa del parco: a questo è dedicato un terzo della riserva.
Dopo l'unione con la vicina riserva di Hluhluwe mediante l'acquisizione di un corridoio di terra, il complesso, attraversato dal fiume Umfolozi, protegge 96.000 ettari di savana, tra valli e colline dove le praterie si alternano a zone di foresta più densa.
Al centro che ospita il museo illustrante il lavoro di cattura, traslocazione a gestione dei rinoceronti da parte del personale dei parchi sudafricani (riconosciuto come il più esperto in materia), si tiene ogni anno la maggior asta di fauna selvatica (esemplari vivi), dove si sono registrate cifre record per i rinoceronti (60.000 euro per il nero, 45.000 euro per il bianco).
Da molti anni il dipartimento sviluppa anche progetti in collaborazione con le comunità indigene limitrofe ai parchi per favorire una loro condivisione dei profitti derivanti dall'esoterismo e dal prelievo controllato di alcune risorse.
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