domenica 25 novembre 2012

Africa Australe: Sudafrica, Hluhluwe-Umfolozi, regno dei rinoceronti.




Ex terreno di caccia reale dei regnanti zulù, la riserva di Umfolozi è la prima in Africa per istituzione: nacque nel 1898 per salvare un rinoceronte bianco, portato sull'orlo dell'estinzione dall'incontrollata caccia da trofeo.
E' una storia di successo: grazie alla gestione del Natal Parks Board ( il dipartimento parchi, oggi ufficialmente ribattezzato "Ezemvelo KZN Wildlife" ma noto come KwaZulu-Natal Wildlife), la specie si è riprodotta consentendo l'esportazione di oltre tremila esemplari verso altri parchi, e ad altri paesi africani.
E' qui oggi la più grande concentrazione al mondo di rinoceronti: oltre 350 rinoceronti neri (Diceros bicornis) e 1.800 rinoceronti bianchi (Ceratotherioumsimum).
In questo parco è stato anche introdotto e messo a punto (dal veterano della conservazione sudafricana, Ian Player) il concetto di Wilderness Trail, escursione a piedi che può durare due o più giorni, come strumento di educazione ambientale e frizione piena ma rispettosa del parco: a questo è dedicato un terzo della riserva.









Dopo l'unione con la vicina riserva di Hluhluwe mediante l'acquisizione di un corridoio di terra, il complesso, attraversato dal fiume Umfolozi, protegge 96.000 ettari di savana, tra valli e colline dove le praterie si alternano a zone di foresta più densa.
Al centro che ospita il museo illustrante il lavoro di cattura, traslocazione a gestione dei rinoceronti da parte del personale dei parchi sudafricani (riconosciuto come il più esperto in materia), si tiene ogni anno la maggior asta di fauna selvatica (esemplari vivi), dove si sono registrate cifre record per i rinoceronti (60.000 euro per il nero, 45.000 euro per il bianco).
Da molti anni il dipartimento sviluppa anche progetti in collaborazione con le comunità indigene limitrofe ai parchi per favorire una loro condivisione dei profitti derivanti dall'esoterismo e dal prelievo controllato di alcune risorse.






sabato 24 novembre 2012

Oceania: Sandy Island, l'isola che non c'è.





Come può sparire nel nulla un'intera isola? Il problema sta in ciò che mostrano le carte geografiche, o Google Earth, e la realtà dei fatti.
L' isola di cui stiamo parlando è Sandy island (per alcuni anche Sable Island), e dovrebbe trovarsi tra l'Australia e la Nuova Caledonia. 
E' segnalata su Google Earth/Maps, su tutti gli atlanti geografici disponibili, e da numerose carte marittime; ma quando i ricercatori dell'imbarcazione Southern Surveyor si sono recati alle coordinate indicate per l'isola, nessun affioramento di terra è stato avvistato.
"Volevamo controllare la sua esistenza perché le carte di navigazione della nave mostravano acque profonde 1.400 metri in quell'area, acque molto profonde" spiega Maria Seton, membro del progetto e ricercatrice della University of Sidney.
Seton e il suo team hanno si sono imbarcati a bordo del vascello Southern Surveyor una missione scientifica della durata di 25 giorni, con l'obiettivo di mappare alcuni frammenti del continente australiano distaccatisi dalla terraferma circa 100 milioni di anni fa, durante la formazione del Mare di Tasmania.
Durante la missione, la strumentazione di bordo ha mappato oltre 14.000 km quadrati di fondale marino, raccogliendo 197 campioni di roccia e arrivando a recuperare un campione di calcare a ben 3 km di profondità. Ma di Sable Island nessuna traccia, sopra o sotto la superficie del mare.









La si può trovare su Google Earth e su altre mappe, per cui siamo andati a controllare, ma non c'era nessuna isola. Eravamo davvero allibiti, è una cosa decisamente bizzarra. 
Come ha fatto ad apparire sulle mappe? Semplicemente non lo sappiamo, ma abbiamo in programma di scoprirlo".
Su alcune mappe online, come Google Maps, Yahoo! Maps e Bing Maps, l'isola appare spesso come una chiazza nera con tanto di segnaposto, e sparisce misteriosamente man mano che si procede a colpi di zoom, come hanno segnalato alcuni utenti di Twitter. Se invece cercate su Google "Sable Island" o "Sandy Island", i risultati della ricerca vi porteranno ad altre isole, la prima in Canada, la seconda nei Caraibi.
Le ragioni della comparsa sulle mappe di ques'isola fantasma non sono ancora chiare. Secondo Mike Prince, direttore del servizio di cartografia dell' Australian Hydrographic Service, è possibile che dato che le carte geografiche si basano spesso su rapporti individuali, alcuni dati siano troppo datati o possano contenere errori.
Alcuni cartografi tendono ad includere oggetti "fantasma", come strade o località inesistenti, per impedire che altri possano copiare le loro mappe: la presenza in una mappa di una particolare strada inesistente sarebbe come una firma del cartografo che ha prodotto il documento.
Ma non sembra il caso di Sandy Island, visto che questa pratica non sembra essere mai stata usata nelle carte nautiche, strumenti particolarmente importanti per una navigazione sicura. E' probabile, quindi, che possa trattarsi di un errore umano che si è trascinato per decadi da un atlante all'altro, fino a fare la sua comparsa anche sulle mappe digitali di oggi.
E' possibile, tuttavia, che l'isola sia effettivamente esistita in passato, e che sia sprofondata sotto il livello del mare a causa di un evento geologico di grossa portata.







Kenya personaggi: Jeff Koinange, Kenya's chief reporter.





Per tutti i corrispondenti in Africa, Jeff Koinange rappresenta senz’altro una sorta di guida: per oltre vent’anni questo giornalista ha testimoniato la storia del continente
Che si tratti di un servizio sulla carestia in Niger o di una trasmissione sulla guerra civile in Congo, Koinange è sempre in prima linea. 
Come spiega colui che riferisce sull’Africa al mondo intero, "la scarica di adrenalina più forte arriva quando sono in viaggio verso una storia".
Anche se Koinange ha studiato alla New York University, lavorato alla Pan Am e trascorso un periodo alla CNN, il suo terreno di gioco è l’Africa. 
"Solo noi possiamo raccontare le nostre vicende", dichiara solennemente. "Sono tornato qui perché i notiziari non parlavano abbastanza del nostro continente".
Non tutte le storie delle sue avventure sono buone, Koinange ha perso due membri della sua squadra mentre era inviato in Sierra Leone nel 1999, ma fra i suoi maggiori successi c’è stato il salvataggio di 600 donne stuprate in Congo.
"Appena diffusa la notizia gli aiuti internazionali sono arrivati subito!".
Più “guerriero della comunicazione” che giornalista indipendente, dichiara: "Questo lavoro è una vocazione, ma certo non esiste avvenimento per cui valga la pena di morire". 
Si dice d’accordo sul fatto che "questa è una nuova era per l’Africa" e ci incoraggia a"non mollare mai, perché la tua bravura si misura solo sulla tua ultima storia".




Darfur: Una polveriera pronta a riesplodere.

Un genocidio dimenticato.
"Nessuno ne parla ma l'emergenza umanitaria non è mai finita".





Gli accordi di pace di Doha avevano acceso la speranza per milioni di profughi in Darfur (Sudan).
In molti si sono illusi che il cessate il fuoco avrebbe attenuato le sofferenze degli oltre 1,8 milioni di profughi: a meno di un anno da quegli accordi, le violenze sono riprese.
Nella sola settimana tra il 4 e il 10 novembre 13 persone sono state massacrate nel villaggio di Fasher; 107 sono state infettate da un'epidemia di febbre gialla dovuta allo stop imposto dalle autorità nigeriane alla fornitura dei vaccini; un convoglio Onu è stato attaccato e due diplomatici sono stati uccisi vicino a Nyala, capitale della regione.










A lanciare l'allarme, l'Italians for Darfur Onlus, una delle poche organizzazioni umanitarie in Sudan, dopo l'espulsione di 13 Ong accusate di Khartum di "aver inventato le notizie fornite alla corte penale internazionale de l'Aja" che aveva spiccato un mandato di arresto nei confronti dell'attuale presidente Bashir per crimini contro l'umanità.
Oggi, se le autorità di Khartum e Onu non riusciranno a trovare un accordo, e a riprendere la distribuzione di viveri e generi di prima necessità agli sfollati, la situazione non potrà che tornare a esplodere.





Italia: Cominciano le demolizioni di costruzioni abusive nella Valle dei Templi.






In Soprintendenza parlano di “svolta sociale”: stavolta infatti, per abbattere 18 edifici abusivi costruiti da anni nella zona A della Valle dei Templi (vincolo di inedificabilità assoluto), non sono dovute intervenire le ruspe dell’esercito come undici anni fa. 
Lo hanno fatto gli stessi proprietari a tre anni dagli “esposti esecutivi di demolizione” emessi dalla Soprintendenza di Agrigento. Recentissimi i segni del cambiamento contro la piaga dell’abusivismo edilizio che ha devasto per decenni l’area archeologica. 
A fine ottobre la clamorosa svolta. Le ruspe hanno abbattuto un intero immobile e cancellato l’ampliamento di un fabbricato proprio a ridosso dei templi e la Soprintendenza ha in corso altre due procedure per demolire, con i soldi dei proprietari e non più dello Stato, altri edifici non ancora completati.
L’abusivismo dilagante che ha compromesso la Valle dei Templi è storia antica. 
Iniziò con il decreto Gui-Mancini varato dopo la frana del 1968 che causò il crollo di alcuni palazzoni abusivi della “nuova Agrigento”, la città illegale costruita “senza cemento e su colline di sabbia”. La legge stabiliva il vincolo di inedificabilità per una vasta parte dei terreni intorno alla zona archeologica, la cosiddetta zona A, e dettava le regole per l’esproprio di altri ettari occupati o recintati illegalmente. 
Da allora la legge è stata sistematicamente violata e nella Valle dei Templi, a ridosso dei monumenti, si è continuato a costruire tra silenzi, negligenze, complicità.





venerdì 23 novembre 2012

Racconti di viaggio: Atiu, un sogno nell'Oceano.

Henry Kan è un giovane pescatore e fin da bambino ha l'abitudine di camminare scalzo.
"Ecco le mie scarpe" dice ridendo e mostra i suoi grandi piedi nudi.





Sono arrivato da poco qui ad Atiu, piccola e sperduta isola polinesiana delle Cook meridionali.
Il pomeriggio è sereno ed Henry ci propone, tanto per farci entrare subito nell'atmosfera più autentica dell'isola un'escursione alla "Anatakiki cave", una delle maggiori attrattive locali.
Per arrivare c'è da fare un bel tratto di giungla lungo un sentiero che attraversa il "maketea", la grande distesa di corallo fossilizzato.
Strano fenomeno geologico questo, tipico di poche isole polinesiane di origine vulcanica dove, all'incirca 100.000 anni fa, la barriera corallina ha subito un rialzamento rispetto al livello del mare, invadendo una vasta fascia dell'interno, sulla quale è poi cresciuta la vegetazione.
Questo frastagliamento, selvaggio ambiente naturale è squarciato a volte da anfratti e caverne ("cave") di straordinaria bellezza.















Quella di Anatakiki è la più famosa per il suo scenario incantato di stalattiti e stalagmite che scendono dal soffitto insieme alle lunghe liane nate spontaneamente dalla roccia.
In questo luogo, reso ancora più misterioso dal forte effetto di eco-vivere nidifica uno degli uccelli più rari dei Mari del Sud, il kopeka, caratteristico per il suo canto secco e ritmato molto simile al battito di una bacchetta.
Al ritorno della grotta è ormai quasi buio.
Ai margini della foresta ci accoglie una capanna appena illuminata dove alcuni uomini, seduti in circolo, sono impegnati in un antico e curioso rito, il "tumunu".
Il proprietario della casa è al centro del gruppo e porge a turno, ad ognuno dei convenuti, un piccolo bicchiere di noce di cocco contenente "bush beer" una bevanda prodotta artigianalmente dal sapore a metà strada tra il vino e la birra.









Di tanto in tanto il "giro" si interrompe per un'orazione o per dar modo ai nuovi arrivati di presentarsi.
L'atmosfera di questo luogo è intensa e lascia dentro un ricordo molto forte.
La serata qui non offre grandi svaghi.
L'Atiu Hotel è l'unico resort dell'isola, posto al centro di un parco curatissimo e silenzioso proprio ai confini della foresta, nel quale sono immersi i quattro chalets che compongono la struttura.
Roger e Kura Malcon, i proprietari, accolgono i pochi ospiti con garbo e cortesia facendo trovare loro, nella stanza, un gran cesto di frutta fresca dell'isola quale segno di benvenuto.
La cena, a base di pesce, vegetali e frutta, viene servita in una bellissima "are", la grande capanna in legno tipica della tradizione di queste isole, con le pareti decorate in fibre vegetali ed il tetto ricoperto di foglie di palma.









La quiete è assoluta, il luogo rilassante, l'ideale per una notte di riposo.
Ma l'aspetto più coinvolgente di Atiu si scopre con il giorno.
Quando con l'aria frizzante ed il cielo limpido, è bello prendere uno scooter o una bicicletta e perdersi lungo le stradine in terra battuta che tagliano l'interno dell'isola o la percorrono tutto in torno.
E lasciarsi andare ai profumi intensi delle piante e dei fiori che spuntano ovunque: frangipani, bouganville, tiarè, vaniglia, sandalo, passione...
La sensazione è quella di essere capitati per caso nel giardino dell'Eden, un luogo remoto ed intatto dove esiste solo la natura e niente altro.
All'interno palmeti fruscianti ed altissimi alberi di cocco, le piantagioni di ananas, caffè e taro (un tubero che cresce a queste latitudini ed ha un sapore simile a quello delle nostre patate).
Lungo la costa, estremamente varia e frastagliata, innumerevoli sono le spiagge di sabbia bianca, da cercare con pazienza.
La più bella (per me) è forse quella di Onoroa dove si trovano spesso bellissime conchiglie e sassi colorati.
Ma assolutamente da non perdere sono anche Tongaroro e Orovaru, dove sbarcò James Cook.











Gli arenili sono sempre incastonati tra il verde della vegetazione lussureggiante e la barriera corallina, vicinissima alla riva.
Per un rapporto più intenso con il mare c'è anche la possibilità di partecipare ad una battuta di pesca, fuori dal "reef", in oceano aperto.
Teina è la persona più adatta alla quale affidarsi per una simile esperienza che consente anche, partendo dall'unico porticciolo di Taunganui Harbour, di circumnavigare l'isola scoprendone caratteristiche e tratti insoliti dal mare.
Atiu conta appena un migliaio di abitanti che vivono in pochi villaggi sparsi sulle alture.
Gente semplice, cordiale, che saluta sempre sorridendo.
Amano molto la musica e, passando accanto alle loro casette basse di colori pastello, è facile sentire il suono dell'ukalele, antico strumento a doppie corde originario delle isole Hawai, che ricorda il banjo e qui si impara a suonare da bambini.









Accanto alle case è frequente che ci siano delle tombe, tenute sempre in ordine e piene di fiori.
E' l'usanza di queste isole perché in qualche modo i defunti possono restare sempre vicini.
E' difficile lasciare un posto come Atiu, così piccolo ma così ricco di angoli da scoprire, così lontano dalla nostra realtà quotidiana eppure tanto vicino alle cose che sogniamo.
Alla partenza, nel minuscolo aeroporto, appena una striscia di terra tra il mare e la foresta, si raccoglie sempre una piccola moltitudine per un saluto a chi viene e a chi va.
C'è un rito che si ripete, semplice e toccante ogni volta: il dono di una ghirlanda di fiori profumati da conservare intorno al collo ed un breve canto"Kia Ora", siate sempre i benvenuti...







World music: Rokia Traorè, una luminosa spada di speranza.

La cantante del Mali è artista di alto livello, che affronta temi sociali, come la libertà, la discriminazione, e anche il sentimento, con canzoni raffinatissime fra tradizione e nuove sonorità.




"Dobbiamo chiedere e offrire il perdono, tutti contate su di me, fatemi dimenticare che sbagliare è umano, così dice "Yaafa N'Ma", una bellissima canzone di Rokia Traorè, la cantante e compositrice maliana.
Nella sua musica c'è un senso di delicatezza generale che rende ancora più potente l'affermazione che la dignità umana deve essere un'esperienza condivisa oppure non sarà durevole.
"Forse lo penso perché sono alta solo un metro e sessanta e peso 48 chili", sorride incantevole, "ma devo credere in questo concetto altrimenti sento che perderei il mio tempo".
Ne sviluppa una visione musicale che si estrinseca anche in testi molto forti, collegati alla realtà sociale africana, spesso costretta a coniugare l'eredità tribale con le spinte "modernistiche" e le distorsioni di entrambe.
"Io sono molto critica nei confronti della tradizione quando è interpretata in maniera utilitaristica per conservare privilegi, ad esempio quelli degli uomini sulle donne.
La tradizione deve essere una sorte di custodia dei valori fondamentali su cui si basa la società, poi questa si evolve, cambiano le abitudini e le esigenze e bisogna reinventarsi un atteggiamento corretto verso queste mutazioni. E' un fatto culturale".




Nata il 26 gennaio 1974, dal diplomatico Mamadou Dianguina Traorè e da Oumou Traorè, moglie appartenente allo stesso clan, Rokia è la figlia di mezzo di sette fratelli.
Cresciuta sulle rive del fiume Niger, ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza traslocando tra l'Algeria, Arabia Saudita, Francia e Belgio, dove ottenne i suoi incarichi il padre.
Il suo principale sostenitore artistico è stato Ali Farka Tourè, il chitarrista e cantante del nord del Mali, che la premiò come African Discovery del 1997 a Radio France International.
Ha inciso tre album, tutti molto apprezzati dalla critica, l'ultimo dei quali Bowmboi ha ottenuto anche un buon successo in patria, anche se la cantante si spinge ai confini "del lecito" nella fusione di generi (la presenza del Kronos Quartet la dice lunga), pur sempre conservando un forte legame con la tradizione.




In particolare quella dei Griot (gli aedi dell'Africa occidentale):

Vai al redazionale di Scientia Antiquitatis sui Griot.

"I Griot rappresentano la nostra memoria storica e nutro un profondo rispetto nei loro confronti, anche se sono convinta che la tradizione vada arricchita con nuovi elementi".
La sua musica è, come scrisse "Bilboard" a proposito del secondo Cd Wanita, "una luminosa spada di speranza, soffice come una piuma ma reale come l'acciaio".
"Ho dei messaggi da trasmettere con la mia musica, ma spetta a chi gli ascolta trattenerli.
La mia idea-guida è che l'essenza della vita che tutti cerchiamo diventi realtà solo attraverso il rapporto con gli altri".



Video: Rokia Traorè, Zen.





Pakistan: Importante scoperta archeologica italiana.




Importante successo dell'archeologia italiana in Pakistan. 
E' stata scoperta una necropoli pre-Buddista nella zona di Udegram, nella valle dello Swat, nel nord-ovest del paese, risalente ad un periodo che va tra il 1.500 e il 500 a.C. 
Il ritrovamento del sito, avvenuto nell'ambito del programma “Act- Fieldschool” (Archeology, community, tourism), coordinato dalla missione archeologica italiana, diretta dal professor Luca Olivieri dell'IsIAO, ha visto la collaborazione del Dipartimento dei Beni culturali dell'Università di Padova, impegnato nello Swat (zona in cui l'Italia é presente fin dal 1954), alla ricerca delle tracce del passaggio delle truppe di Alessandro Magno durante la sua conquista dell'Asia e delle origini della lingua indoeuropea.
Finanziamento italiano.




Il progetto é finanziato con circa due milioni di euro dal programma di conversione del debito Italia-Pakistan nel quadro della Cooperazione italiana allo sviluppo. 
Gli scavi si concentrano in zone diverse, tra le quali Barikot, l'antica città di Bazira, conquistata da Alessandro Magno nel 327 a.C, e Udegram, nell'antichità chiamata Ora. 
Proprio in quest'ultima é stata rinvenuta l'antica necropoli: sono venute alla luce 23 tombe, alcune delle quali in ottimo stato di conservazione, con camere in pietra, vasi e altri oggetti, oltre a resti umani.




Restauro antica moschea.  
Al momento solo alcune sono state oggetto di uno scavo più approfondito, mentre le altre sono state messe in sicurezza per evitare il saccheggio. 
A detta degli esperti, il radiocarbonio data le tombe intorno al 1300-1200 a.C., proprio quando i filologi collocano la più antica presenza linguistica indoeuropea nel subcontinente indo-pakistano. 
Lo scavo permetterà di ricostruire nel dettaglio le usanze funebri dei popoli antichi dello Swat.Sempre a Udegram il progetto sta portando avanti il restauro di una delle moschee più antiche del Pakistan, costruita agli inizi dell'XI secolo dal conquistatore afghano Mahmud di Ghazni.