sabato 17 novembre 2012

Alpinismo in lutto. E' morto Patrick Edlinger, il "biondo" che danzava sulla roccia.


E’ morto venerdì 16 novembre 2012 all’età di 52 anni il francese Patrick Edlinger, uno dei pionieri ed assoluti miti dell’arrampicata sportiva.





Sembra assolutamente impossibile, ma la notizia è stata confermata dal giornale francese Le Dauphine che scrive che venerdì 16 novembre all'età di 52 anni e per motivi ancora da chiarire, è morto Patrick Edlinger. Inutile dire che questa notizia ha scosso profondamente il mondo dell'arrampicata sportiva che vedeva in Patrick uno dei grandi di questo sport.
Nato il 15 giugno 1960, Patrick ha iniziato ad arrampicare all'età di 13 anni e sin dall'inizio era chiaro che l'arrampicata sarebbe stata la sua vita, la sua raison d’être. Dopo aver salito tutte le vie difficili della zona di provenienza, il giovane francese non c'ha pensato due volte, ha abbandonato gli studi ed ha raggiunto il sud della Francia in auto-stop, dove ad attenderlo c'era quel famoso, infinito mare di calcare ed uno sport ancora tutto da inventare.
E’ infatti nella falesie di Buoux nel Luberon dove Patrick ha iniziato a lasciare il suo segno indelebile, salendo numerose vie slegate fino al 7a (come l'espostissima Pilier des Fourmis), riuscendo già trent'anni fa a salire per primo un 7b a-vista (Captain crochet) e poi, in quel magico 1982, sempre a Buoux, riuscendo a salire a vista il primo 7c al mondo, La polka des ringards. Risultati straordinari, ripetuti anche in altre falesie d'eccezione come il Cimai (ricordiamo l'audace free solo del 8a di Orange Mécanique nel 1989) ed ovviamente anche il Verdon che per lui poi è diventato la seconda casa.



In quegli anni d’albori Edlinger ha partecipato a numerose gare d'arrampicata, ed è sua la vittoria nelle famose prime gara ufficiale dell’arrampicata sportiva, Sport Roccia a Bardonecchia ed Arco nel 1985 e 1986. Grazie a questo suo immenso talento Patrick è riuscito ad aprire e ripetere vie sportive d'avanguardia, tra cui spicca Les Specialistes nel Verdon. Una via per la quale aveva proposto il primo grado di 8c e che nonostante gli anni è rimasta una via di assoluto riferimento, un linea di pellegrinaggio per tutti i più forti del mondo. Anche se i tempi forse non erano ancora sufficientemente maturi per questo enorme passo avanti (la via fu velocemente sgradata a 8b+), poco dopo Patrick ha ripetuto l’incredibile tetto orizzontale di Le Plafond (anche conosciuta come Maginot Line) nella falesia di Volx (trovando un tallonaggio che ha "addolcito" la via da 8c a 8b+) e Azincourt, mostruosa via-boulder di biditi da 8c a Buoux.



Ma a parte questi pur sempre importanti dettagli, Patrick verrà ricordato per un altro suo contributo davvero immisurabile: la valorizzazione di una delle più belle falesie al mondo, Ceuse. Verso la fine degli anni '80 questa fascia di perfetto calcare solcata dalla famosa cascata ha letteralmente stregato l’arrampicatore, tanto che per alcuni stagioni era diventata il suo "giardino nascosto" dove ha imposto uno stile d'apertura, molto severo ma completamente leale, che ha fatto scuola rendendo l'arrampicata sportiva molto di più che un semplice gesto atletico.
Sì, l'arrampicata di Patrick era la ricerca di una bellezza innata applicata al gesto tecnico, spesso descritta come un balletto verticale e a pensarci bene "Le blond" era destinato sin dall'inizio ad essere molto più che una semplice rock star della falesia.
I suoi ruoli nei film "La Vie Au Bout Des Doigts (La vita in punta di dita) e poi l'indimenticabile Opéra Vertical, entrambi del regista Jean-Paul Janssen, l'hanno reso famoso non soltanto in tutta la Francia ma anche oltre alpe, e questi classici del cinema verticale sono stati seguiti da una serie di altre pellicole e libri che hanno istruito e alimentato i sogni di interi generazioni.
Sogni. Forse è questa la chiave di lettura della leggenda chiamata Edlinger. Sin da giovane Patrick ha saputo vivere i suoi sogni e forse anche per questo era, per noi che abbiamo iniziato ad arrampicare cercando di imitare le sue gesta, una Leggenda assoluta. Una di quelli con la L maiuscola, come il suo grande amico e compagno di mille avventure, l'altro Patrick del verticale, Patrick Berhault. E a noi piace ricordare Edlinger come l'avevamo incontrato quel giorno a Trento tre anni fa, quando ci ha voluto palare di questo suo amico prematuramente scomparso, di Ceuse, di quei anni rocamboleschi e della sua arrampicata. Un vero sogno.





giovedì 15 novembre 2012

Luoghi: Marocco, Marrakech.





Suggestivo, incantato, ricco di testimonianze di splendori passati, avvolto in ritmi di vita antichi, il Marocco offre al moderno viaggiatore una possibilità ormai difficile da trovare altrove: quella di sognare.
Eterna come le nevi delle cime più alte, imponente come le montagne dell'Atlante, radicata nella storia come le palme della sua terra, Marrakech è il tocco finale ad un quadro di bellezza immutabile.
I più grandi Re se la sono contesa, nobili dinastie vi si sono avvicendate, saggi, artigiani, architetti, pittori, scultori di ogni epoca vi hanno costruito palazzi principeschi, moschee, giardini.
Berberi e Arabi vi si riuniscono, nomadi e popolazioni montane vi convergono, l'artigianato fiorisce, è il paradiso dei mercanti.
E poi palazzi, alberghi, ristoranti e souk.






Marrakech si sveglia, come tutte le mattine da 800 anni, con le stesse inflessioni cantilenanti, il richiamo del muezzin echeggia dall'alto di 70 metri della Koutoubia, il faro spirituale di Marrakech.
La folla si accalca verso la moschea Ben Youssef, addossata alla mèdersa, uno dei più straordinari monumenti di Marrakech, gigantesca e superba scuola coranica fondata dal sultano amerindie Abou el-Hassan nel 1331.
Il sole illumina Marrakech.
I suoi raggi rischiarono il marmo rosa delle fontane, invadono le corti acciottolate, fanno scintillare le magnifiche decorazioni, riscaldano i turchesi, i verdi, i bianchi dei mosaici, si perdono negli stucchi del Palazzo della Bahia e di Dar Si Said, oggi museo che racchiude la quintessenza delle arti del Marocco.






Il sole tramonta su Marrakech.
In un cielo fiammeggiante contro il quale si stagliano le nevi eterne dell'Atlante, il padiglione della Menara rispecchia le sue proporzioni perfette nelle acque immobili del lago.
Fuori dal tempo.
Al Souk del rame dove con un'espressione grave e concentrata ed un'abilità atavica, gli orafi martellano il metallo.
O forse al Souk Laghzal riservato alla lana.
A el Btana, quelli delle pelli di montone. Oppure al Souk Zarbia, all'asta dei tappeti e dei caftani.
Decisamente un'altra dimensione. Dove il profumo di zafferano, cumino, pepe nero, zenzero, verbena, chiodi di garofano, fiori d'arancio incantano le narici.






Dove si ammucchiano sacchi di mandorle, noccioline, fave, cesti di datteri, tonnellate di olive mentre sui banchi degli speziali stanno allineati vasi di henné, ghassoul, fiale di estratto di rose, glossino, menta, khol, pezzi d'ambra, muschio...E' il souk di Marrakech.
Oltre i bastioni ocra, il ritmo cambia come cambiano i colori.
Brusio di vento le foglie, cinguettio di uccelli, profumo inebriante di gelsomino e caprifoglio, fragranza intensa dei celebri rosai di Marrakech dove la natura è un rifugio di pace, bellezza e raccoglimento, grata all'uomo che la disseta dal 1106 grazie ad un sistema ingegnoso di canalizzazioni, pozzi e sfruttamento delle sorgenti: 1300 ettari di verde, 180.000 palme, questa è la celebre "Palmerie de Marrakech".
Più in là, dietro il Palazzo Reale, si stendono frutteti dell'Adgal dove si tengono feste sontuose.
Con l'avvicendarsi delle stagioni, gli alberi si coprono di frutti, belli e squisiti, aranci, fichi, melograni e olive.
Poi mi dirigo in Piazza Djemaa el Fna, il cuore della "Città Rossa"... e lì, è tutta un'altra storia...





mercoledì 14 novembre 2012

Sahara: Oasi e città carovaniere.

Troppo vasto è questo mare di pietra e di sabbia perché la sola mobilità possa spiegare la sopravvivenza dell'uomo.
Occorrevano delle isole, dei punti di approdo che l'uomo ha creato con il miracolo delle oasi.
Rarefatti al punto da coprire un millesimo della superficie sahariana, questi grumi di verde rappresentano non solo le uniche fonti di vita agricola nel deserto, ma anche i preziosi nodi del grande tessuto commerciale che per tanti secoli ha animato il vuoto tra le sponde mediterranee e l'Africa nera.





Se si riunissero le oasi del Sahara in un insieme unitario si totalizzerebbe nel complesso una superficie non più grande di una nostra regione.
Il rapporto tra superficie del Sahara e superficie di questo ipotetico "Sahara utile" sarebbe di uno a mille.
Ma le oasi si caratterizzano appunto per la loro frammentazione e il loro isolamento.
Sono piccole superfici scure che, a vederle dall'aereo, incutono sgomento a confronto delle grandi vastità circostanti.
Con esse le oasi non stabiliscono rapporti diretti e continui, come li stabiliscono ad esempio i centri delle regioni a popolamento continuo, dove la città e i paesi hanno nello spazio circostante il loro dintorno vitale.
Le oasi sono piccoli spazi che accolgono il centro abitato e il ristretto spazio verde che offre a esso le risorse agricole.
Fuori dall'ombra della palmeraie c'è il deserto, più o meno simile a dieci come a cento chilometri di distanza.







La geografia del Sahara è fatta pertanto di un tessuto puntiforme, la cui maglia si adegua alla distribuzione delle risorse idriche che gli uomini, a partire dai secoli lontani, sono riusciti a sfruttare creando centri di vita agricola e di popolamento.
Esse però non sono soltanto centri di vita: sono anche "approdi" nel grande mare del Sahara, che è percorso da traffici e piste che ne indicano la penetrabilità.
Non si può spiegare il Sahara, e neppure le oasi che ne indicano la vita, per quanto precaria e sparsa, se non si tiene conto di questi rapporti, di questa maglia che percorre il deserto sin da epoche remotissime.
Le oasi si sono infatti costituite e hanno preso sviluppo proporzionalmente non solo alle loro risorse idriche, ma anche, se non soprattutto, alla loro funzione di approdi, di scali, di nodi della rete di traffici e comunicazioni del Sahara.
Ci sono le oasi che sfruttano l'acqua di scolo dei fiumi provenienti da zone piovose: è il caso delle oasi marocchine che utilizzano l'acqua dei fiumi Ziz e Draa alimentati dalle nevi dell'Atlante: successione di oasi resa possibile dall'abbondante apporto d'acqua dei fiumi che poi si perde nel Sahara dopo aver permesso la vita delle oasi.









Ci sono le oasi che si riforniscono dell'acqua di preziose sorgenti, come la grande oasi di Gadames, in Libia.
Altre che traggono l'acqua da pozzi, come le oasi dello Mzab.
Nel souf si ha un tipo d'oasi ancora diverso, in quanto utilizza una falda acquifera relativamente superficiale rintracciabile sotto la coltre sabbiosa: da ciò deriva quella spettacolare frammentazione di palmeti situati in piccole cavità ( ghout ), profonde circa 20 metri ognuna, sul fondo delle quali allignano poche decine di palme tutt'intorno riparate dall'invasione delle sabbie da opportune difese.
Allo sfruttamento di una ricca falda d'acqua che trae alimento dal massiccio del Tademait si deve anche l'oasi di In-Salah, formata da un grande palmeto che si allinea per qualche chilometro in rapporto alla stessa falda e che si dispone con gli orti e i palmeti in opposizione al vento ( l'aliseo ) che tende a colmare di sabbia le colture, anche qui difese da ripari fatti di rami di palme ( afregs ).







Sull'altro lato del Tademait le oasi di Timimoun appaiono come un delicato congegno che si regge grazie alle foggare, le lunghe gallerie sotterranee che attingono le acque da falde lontane e che la trasportano, con adeguata pendenza, cioè per scorrimento, sino all'oasi.
Le Foggare, scavate e tenute pazientemente in funzione dagli iklan specializzati, sono un prodigio della tecnica sahariana di adattamento all'ambiente desertico: esse tuttavia non rappresentano che la variante dei qanat avviati in epoche remote sull'altopiano iranico e poi diffusesi, attraverso il mondo arabo, sino al Sahara.







Maya e Aztechi: Messico, dopo 1500 anni entrano in una tomba di Palenque.





Un team di archeologi messicani è entrato in una tomba maya di Palenque di 1500 anni. La camera era stata scoperta nel 1999 ma, poiché il tempio era instabile, era stata ispezionata solo tramite una minuscola videocamera.  
La prima stanza non contiene un sarcofago, ma è decorato con pitture murali rosse.
Ci troviamo di fronte a uno dei pochi esempi di pitture murali funerarie scoperte a Palenque, motivo per cui questo lavoro è così importante”, ha commentato l’archeologo Arnoldo Gonzalez Cruz.









“La parte importante delle tombe di questa epoca – il primo periodo classico (400-550 d.C.), sono i dipinti. 

La pittura murale si trova su tre lati della stanza e mostra i Nove Signori dello Xibalba, il mondo ultraterreno. È simile alle pitture della tomba del re Pakal anche se questa tomba è più antica. 







È possibile che la tomba contenga i resti di K’uk Bahlam I, primo sovrano di Palenque e fondatore della dinastia che include anche Pakal. 

I primi reperti ritrovati sono stati undici vasi, piccoli gioielli e alcuni pezzi di giada.







martedì 13 novembre 2012

World Music: Bob Brozman, un uomo di mondo.


Il chitarrista americano da anni gira il pianeta alla ricerca delle radici della musica popolare e incrocia i suoi numerosi strumenti con quelli dei musicisti locali, dilettanti e professionisti. E il risultato è sempre emozionante.





Sono in tanti a spendere termini come musica etnica, world music, ricerca etnomusicologica, pochi ne parlano realmente con cognizione di causa.
Tra questi la figura di Bob Brozman spicca per coerenza, meticolosità e onestà intellettuale.
Il musicista di New York, che suona un'infinità di strumenti a corda, a partire dalla chitarra acustica per arrivare all' ukulele, charango, mandolini, chitarre resofoniche, doro e ibridi vari, come l'affascinante lap steel indiana, da anni gira il mondo per incontrare i musicisti locali e collaborare con loro.
Nel suo diario di viaggio vi sono annotazioni indiane, caraibiche, giapponesi, hawaiane, da America Latina, Polinesia, Cina, Grecia, Cuba, Sudafrica, Francia e, più recentemente, dalla Papua Nuova Guinea.
Qui, più precisamente in una località della Nuova Britannia chiamata Rabaul, costantemente minacciata e periodicamente distrutta dal vulcano locale, che erutta lava, lapilli e, soprattutto cenere, che ricopre i villaggi per anni, Brozman ha incontrato le stringband locali e con loro ha inciso un disco: Songs of the Volcano, che si rivela una testimonianza preziosissima dal punto di vista musicale e musicologico, che illustra l'abilità, il coraggio, l'ottimismo di queste popolazioni.





Al cd è abbinato un dvd contenente un documentario sull'incontro del musicista americano con i cinque gruppi di Rabaul e dintorni e su come il disco è stato realizzato, in studi d'incisione "da campo", con attrezzature spesso artigianali.
Sia il disco, sia il documentario sono sorprendenti per le emozioni che regalano.

Ma come è nato il progetto?

"Da un idea della Macquarie University di Sydney, dove periodicamente tengo dei seminari.
Ho subito accettato l'invito, perché a 51 anni so bene che bisogna cogliere al volo certe occasioni e non sai se si ripresentano.
Ho una certa dimestichezza con i cosiddetti Paesi in via di sviluppo e la ricerca sulle stringband tradizionali, di cui avevo sentito parlare mi stimolava".

Immagino che l'ambiente fosse molto particolare, con questo vulcano incombente e lo strato di cenere che copre ogni cosa...

"Impressionante, la cenere è dappertutto, loro la tolgono e quella piove ogni giorno a tonnellate. Eppure hanno una determinazione, proveniente da una forte concezione dell'unità familiare, che ti fa andare avanti con il sorriso sulle labbra e la musica che li accompagna".





Le band locali suonano prevalentemente chitarre che sono state portate lì dai popoli colonizzatori?

"Si, i marinai spagnoli e portoghesi soprattutto hanno portato le chitarre in quelle terre.
La cosa curiosa, che si è verificata in moltissimi Paesi che ho visitato, è stata la modificazione dell'accordatura standard in accordatura aperta: infatti la logica vorrebbe che suonando le corde libere si ottenesse un accordo armonico, non quello dissonante della nostra accordatura standard che, quindi, è stata modificata".

Per noi occidentali la musica è una forma d'arte e di intrattenimento: per quelle popolazioni di origine prevalentemente aborigene che significato ha?

"Per loro, e per tutti i Paesi non industrializzati, la musica ha un'enorme importanza nella vita di ognuno: dalla nascita alla morte la musica accompagna i momenti salienti dell'esistenza.
Non solo: io non ricordo una sola notte senza essermi addormentato al canto di qualcuno nel villaggio e, alla mattina alle sette, la musica e il canto accompagnava il risveglio.
Così come gli uccelli non possono fare a meno di cantare, nemmeno loro riescono a stare senza musica. E' la natura".





Lei ha suonato assieme a queste cinque band e in qualche modo le ha "contaminate". 
Sente questa responsabilità?

"Certamente. Io adotto due modi di collaborare con i musicisti.
Se ho accanto a me un professionista, un virtuoso, è chiaro che il rapporto è paritario.
Nel caso delle stringband di Rabaul, invece, cerco di stare non uno, ma due passi indietro, mi limito ad accompagnare, magari ricamo qualcosa, niente di più.
Ho dato solo qualche indicazione, a volte, sulla velocità dei pezzi, che, rallentati, venivano valorizzati.
Anche se non è stato facile".


Video: Bob Brozman, Songs of the Volcano. Trailer.







Maya e Aztechi: Trovato nel sito archeologico di Plan de Ayutla un teatro Maya.




Gli archeologi dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia del Messico hanno portato alla luce un piccolo teatro Maya di 1.200 anni fa. “È diverso da tutti gli altri teatri che sono già stati studiati”, spiega l’archeologo Luis Alberto Martos López.
Trovato nel sito archeologico di Plan de Ayutla, il teatro non sembra essere stato un luogo di arte e cultura, ma piuttosto uno strumento politico dell’élite Maya per legittimare il suo potere.
Il teatro era circondato da edifici risalenti al 250 a.C. al 550 d.C.
“Era un teatro unico nel suo genere, dal momento che è stato trovato su una acropoli, 42 metri al di sopra delle altre piazze”, spiega López. “Lo spazio scenico era situato all’interno di un complesso di palazzi, il che lo rende diverso dagli altri che in genere si trovavano nelle piazze e servivano ad intrattenere la folla”. Questo teatro poteva infatti contenere 120 persone al massimo.




Profili: Francesco Di Vincenzo.





Francesco Di Vincenzo: classe 1970 nato e cresciuto in Sicilia a Messina dove,
nel 1989 comincia una brillante carriera che lo vede protagonista nel campo della moda come Store Manager per importanti gruppi a livello internazionale nella Messina "bene", tanto da essere definito uno dei piu' bravi consulenti Stilistici nella sua amata citta'.
Fuoristradista da sempre, ha abbracciato tutte le discipline ha livello di Moto Enduro/cross.
Correva l'anno 2006 quando intraprese per la sua prima volta un Raid in Tunisia, in maniera del tutto casuale, in quanto invitato da un suo vecchio amico di gioventù', che da poco aveva acquistato un fuoristrada nuovo, quella meravigliosa esperienza lo segno' molto, anche perche durante il viaggio il suo amico si ribaltò e rientrarono con molti danni al fuoristrada, che dire... tutte casualita' negative che avrebbero sconfortato chiunque.







Ma quella sensazione di liberta quella adrenalina che scorre dentro le  tue vene, gli scenari fantastici e quelle persone meravigliose, semplici che ti regalano sorrisi, l'accoglienza di quella popolazione, di quei paesaggi e passaggi mozzafiato, lo fecero innamorare davvero. Al suo rientro acquisto' immediatamente il suo primo Fuoristrada, da autodidatta, solo dalla base di ogni suo singolo viaggio aquisisce informazioni e contatti .
Alleste "Radio Patrol"come lui ama definirsi in maniera adeguata e quando arriva il momento giusto invia lettera di dimissioni per il gruppo che lui rappresentava ed ha nulla sono valsi i tentativi di riportarlo alla ragione, Francesco non e piu' lo stesso!scende in "Campo" dedicandosi anima e corpo ai Raid Africani e al Off-Road.  
Amante e rispettoso della Natura dei luoghi, e delle popolazioni che lo ospitano, conoscitore dei piu bei deserti del mondo e dei suoi Monti Peloritani/Nebrodi che lo hanno visto impegnato nelle operazioni "operative" di volontariato degli alluvioni che sconvolsero la provincia di Messina nel 2009 mettendo a disposizione della popolazione i suoi mezzi operativi e le sue capacita sviluppate sul campo di nozioni acquisite durante i "corsi per operatori e volontari" con un occhio  sempre attento  alla Protezione Civile, esperto di viaggi avventura e sicurezza , sviluppa tutta una serie di servizi che offre hai propi compagni di viaggio per effettuare raid in tutta "tranquillità", e' brillante ed intrapendente l'Africa lo contagia, lo cerca, lo chiama e' incontenibile. 








Nel 2011 stringe un accordo di partnerschip con azienda Leader nei Viaggi Avventura con cui collabora tutt'ora che lo vede impegnato in prima linea protagonista in quanto sfruttando la posizione geografica della Sicilia lo rendono sempre "Operativo" mette insieme una stretta rete di collegamenti tra le provincie di Catania, Messina e Barcellona P.G. come basi "operative" la sua citazione preferita quando gli dicono ma chi te' lo fa' fare? 
Lui risponde.."E' uno sporco lavoro...! Ma qualcuno dovra' pur farlo!  ed i suoi occhi brillano, conosce la sua Clara, anche lei Fuoristradista per passione amante dei viaggi e di Archeologia hanno 2 splendidi bambini, Santi e Andrea, alla quale trasmettono gia' sin da piccoli il rispetto assoluto per la natura, per  l'ambiente e la passione per i viaggi, decidono quindi di unire gli sforzi e aprire un nuovo club di fuoristrada nella loro Messina, innovativo, unico serbatoio dove convergono tutte le attivita inerenti alla passione per i Raid e l'Off-Road, allo studio e alla scoperta di deserti, dell'astronomia, il supporto di Clara e determinante ed insieme danno vita Al "Fuoristrada Deserto Viaggi"che agli inizi del 2013 verra ufficializzato!