martedì 16 ottobre 2012

Racconti di viaggio: Papua, viaggio indietro nel tempo.

Dove? Cosa? Come? ... questa è la prima domanda che ti senti di fare quando parli della Papua.
E' già difficile immaginarla, figuriamoci raggiungerla!
Una terra magica rimasta intatta nei secoli...





Viaggiare insegna che tutti gli uomini sono uguali; viaggiare insegna che tutti gli uomini sono diversi.
Ed è quello che mi è successo andando a Papua anzi, vi dirò di più, è come se con un ipotetica macchina del tempo andassimo indietro fino a un passato, ma così remoto da perdere qualsiasi traccia di inquinamento di civiltà industriale.
Visiterò villaggi, conoscerò gente con usi e costumi totalmente diversi dai nostri, ma non per questo meno "importanti" dei nostri.
Il viaggio ha inizio a Port Moresby, unica traccia di realtà occidentale resa tale dalla presenza di Australiani.
Già dal primo momento l'impatto è molto duro.
I tratti somatici dei locali ci fanno rivedere i nostri progenitori; piedi e pianta larga rigorosamente nudi mi accompagneranno per tutto il tempo, su ogni strada, sentiero, ruscello, albero, dandomi dimostrazione di adattamento, abilità e resistenza.
Dicevo Port Moresby, un contrasto di architettura, le baracche a palafitta si contrappongono a palazzi governativi: i pochi ricchi generalmente australiani, ai locali che come dono di natura hanno la povertà.
Lungo l'unica strada che costeggia il mare, mercatini improvvisati si alternano alle discariche che senza nessuna differenza, vengono prese d'assalto.










Mi inoltro tra la folla che incuriosita mi circonda: sono meravigliati dal mio aspetto, sono incuriositi dalle mie reflex; i bambini guardano e s'atterriscono dopo lo scatto col flash.
L'atmosfera è impregnata dall'odore acre del mercato; tranci di pesce e di carne avvolti da nuvole di mosche sono esposti alla mercè di tutti.
Colori e odori convivono in un simbiotico legame, rendendo l'ambiente già carico di "calura appicicaticcia" ancor più invivibile.
Qua e là delle chiazze rosse mi desta preoccupazione, ma ci rendo conto che la mia perplessità è infondata.
Tutti indistintamente masticano una poltiglia ricavata dalla noce di "betel" che, unita alla polvere di "laim", funge da rigeneratore energetico ed aiuta a sopportare la grande calura equatoriale e la sofferenza che essa comporta, ma soprattutto allontana lo stimolo della fame che non manca mai.







A conti fatti, il "betel nat" non è altro che un allucinogeno che aiuta a vivere i papua in quelle condizioni proibitive, e che sicuramente non risolve i problemi di denutrizione e povertà.
Ma dicevo, siamo solo all'inizio.
Mi fermo per qualche giorno nella tranquilla Loloata Island, godendomi le calde acque della laguna, per poi ripartire alla volta di Tari, il cuore della Papua.
L'alba ancestrale mi avvolge, rendendomi pertecipe delle tinte calde di giorno ed uno scenario incredibile si presenta davanti agli occhi.
Volo verso le terre alte ed appena giungo allo pseudo aeroporto, con pista rigorosamente in terra battuta, una moltitudine di locali attorno ad una rete metallica, attende incuriosita.
Ma, attende cosa?..."il grande uccello bianco" (è quello che ho saputo dopo).
L'impatto con la realtà dei Tari è violento; in un primo momento ho pensato che tutti facessero parte di un gruppo folcloristico d'accoglienza ma sono in troppi e man mano che mi avvicino, capisco che sono così normalmente "svestiti".
E' incredibile, gli abiti sono fatti di foglie e fibre vegetali; la loro folta capigliatura è abbellita dalle piume coloratissime degli uccelli del paradiso e qua e là sparsi per tutto il corpo tatuaggi e cicatrici, queste ultime risultato di dure battaglie, ancora oggi combattute fra i clan dei villaggi.
I rossi e gli ocra esaltano la durezza del volto dei guerrieri, che con atteggiamento fiero esibiscono archi, frecce ed asce di pietra.







Mi sposto lungo il sentiero che lascia la traccia di se sul profilo impervio delle colline.
Ed è un continuo sali e scendi.
Paesaggi mozzafiato mi si presentano davanti agli occhi: vedo spuntare dalle terre alte donne, gravide di nuova vita ed altre ancora con bambini attaccati al seno, sgonfio di latte.
Dalla fittissima foresta si materializza un uomo barbuto e colorato ed appena mi vede fugge via...Forse avrà avuto paura? io si! Avrà pensato di aver visto lo spirito di un suo antenato?.
Macchè, è corso al villaggio per annunciare il mio arrivo...ed è subito festa! mi crederanno appena rientro in Italia? mah! e chissenefrega!
Mi accolgono incuriosito, mi sfiorano con lo sguardo e con il fiato; negli occhi dei piccoli vedo paura mista ad imbarazzo, alcuni di loro si allontanano, altri intimiditi accennano un sorriso.





Sono trascorsi parecchi lustri dall'ultima volta dell'ospite bianco...molti di loro non erano ancora nati. Ma dove sono?
L'entusiasmo è tanto e gli uomini vanitosi ed impeccabili, si preparano per la danza.
A me degli uomini non è che interessa molto la loro vanità ma in questo frangente è meglio non farsi domande ed osservare.
La mia reflex per il momento rimane nella borsa e il mio parlare con i gesti è meglio controllarlo. Guardo e osservo. Per il momento, appunto.
I colori sgargianti danno vita a figure fiere; gli ori ricavati dal grasso dei maiali e cosparsi per tutto il corpo mettono in evidenza le fasce muscolari esaltandole ancor più.
Mi chiedo: chi ha detto che la vanità è solo donna? Anche i bambini, da grandi Huli Men, si truccano e si preparano il corredo per la grande festa.
E le donne? Le donne sono spettatrici da sempre, ed in disparte guardano timidamente i loro uomini danzare.
I ritmi tribali si fanno sempre più incalzanti e nella loro ripetuta monotonia si fondono coi canti, riecheggiando nella valle.









Tutto è un tripudio di colori, tutto una movenza di corpi che traboccanti di sudore rendono ancor più la loro statuaria bellezza.
Ed il tempo fermo trascorre anche qui in modo inesorabile, la notte arriva presto portando con sé il calore del fuoco.
Il fuoco che riscalda la frescura dell'aria, il fuoco che ridà forme e sfumature, il fuoco che in un abbraccio corale riporta intorno a se tutto il clan.
Ed il bagliore della fiamma riscopre sul volto dei guerrieri, i solchi di una vita dura, non per gli anni trascorsi, ma per la loro combattuta esistenza.
La vita, dicevo, combattuta giornalmente per lottare contro la fame, per combattere e sopravvivere con malaria, dengue, tubercolosi e non per ultimo difendere il villaggio dalle interminabili faide, parte integrante del loro patrimonio genetico, tramandante nel corso dei secoli da padre in figlio.
I motivi scatenanti sono generalmente due: i maiali ed i bambini.
I maiali, il bene più assoluto e prezioso, oltre a garantire carne e suppellettili sono moneta di scambio per qualsiasi "acquisto" o affare che dir si voglia.
Con i maiali si comprano le mogli, di conseguenza più maiali si hanno più è elevata la possibilità di avere donne, con cui poter generare figli.
Al secondo posto in senso assoluto ci sono i bambini, anche perché, senza maiali non è possibile avere mogli e di conseguenza bambini.
L'anima, evanescente soffio di vita, l'anima, strumento di immortalità, è nell'anima la forza che aiuta a lottare e sopravvivere.
Ed i grandi guerrieri conoscono bene queste verità, per questi motivi e per riaverla, uccidono i piccoli innocenti.
Ma tutto ciò fa parte di una cultura, per noi orrenda, ma per il popolo dei Papua è parte integrante della loro morale e delle loro regole tribali, regole che da buoni ospiti è meglio rispettare...





La mia prossima meta si sposta lungo il sentiero che mi riconduce verso Tari.
Riappaiono i volti che avevo lasciato qualche tempo prima, sempre incuriositi dal mio aspetto, sempre con il fiato e lo sguardo che mi tocca.
Le nebbie delle Terre Alte rendono l'aria mattutina ancor più grave e umida, e le figure eteree compaiono e scompaiono come se cancellate dall'acqua.
Riappare ancora il "grande uccello bianco" e questa volta il viaggio è avanti nel tempo...










Scoperto il luogo esatto in cui fu ucciso Giulio Cesare.



Giulio Cesare fu assassinato a Torre Argentina, nella parte inferiore in quella che allora era la Curia di Pompeo, frequente luogo di passaggio di turisti e romani. 
I ricercatori del Centro de Ciencias Humanas y Sociales (Csic) hanno scoperto il punto esatto in cui, nelle Idi di Marzo del 44 a.C., Cesare e' stato assassinato nella congiura guidata dal figliastro Bruto. La storia ci ha tramandato che Giulio Cesare fu pugnalato nella Curia di Pompeo, a Roma, nell'attuale area archeologica di largo di Torre Argentina, mentre presiedeva una riunione di senatori. 
Solo che fino a oggi non si conosceva il punto esatto dell'omicidio.
I ricercatori dei Csic, guidati dallo storico Antonio Monterroso, hanno trovato una lastra di cemento di tre metri di larghezza per due di altezza che indicava il punto esatto in cui sedeva Giulio Cesare quando fu assassinato. 
E' una lastra voluta da Ottaviano Augusto per ricordare il padre adottivo e condannare il suo assassinio. 
La scoperta conferma che il generale fu pugnalato al centro della parte inferiore della Curia di Pompeo, mentre presiedeva, seduto su una sedia, la riunione del Senato. 





Attualmente i resti dell'edificio si trovano nell'area archeologica di Torre Argentina, nel pieno centro storico della capitale romana. 
Le conclusioni dei ricercatori del Csic sono arrivate grazie alle analisi di uno scanner con laser tridimensionale e non contraddicono le fonti classiche. 
La storia, infatti, riporta che dopo l'assassinio di Giulio Cesare la Curia di Pompeo fu chiusa e trasformata in una specie di memoria dello scomparso conquistatore della Gallia. 
"E' affascinante", ha commentato Monterroso, "che migliaia di persone prendano l'autobus tutti i giorni a poca distanza dal posto in cui Giulio Cesare e' stato pugnalato 2056 anni fa o che vadano addirittura a teatro, dato che il Teatro Argentina, il principale della capitale, e' molto vicino". 
Il progetto che ha permesso la storica scoperta conta sul sostegno della Sovrintentenza dei Beni Culturali di Roma, del Piano Nazionale di Ricerca e Sviluppo 2008-11 del Ministero dell'Economia e della Escuela Espanola de Historia y Arqueologi'a del Csic en Roma.








domenica 14 ottobre 2012

Le grandi spedizioni: Robert Peary al Polo Nord.




Nel 1891 Gardiner Greene Hubbard, il primo presidente della National Geographic Society, attraversando a grandi passi il palco davanti ai membri riuniti dell'istituzione, consegnò la bandiera a stelle e strisce all'ambizioso Robert E. Peary, dicendogli: "prendi questa bandiera e inastala nel posto più a Nord che riuscirai a raggiungere!".
Ed è esattamente quello che Peary fece.
Durante i quattro anni che seguirono, condusse due importanti spedizioni in Groenlandia settentrionale, battezzando la regione "Terra di Peary".
Aveva già provato, nel 1886, ad attraversare la calotta di ghiaccio della Groenlandia settentrionale nel punto di maggior ampiezza, percorrendo meno di 200 chilometri nel corso di quella che in seguito lui stesso definì una "ricognizione".
"Non era nella sua natura tollerare un fallimento", scrisse lo storico Pierre Berton, "In tutte le sue imprese nell'Artico, Peary riuscì sempre a riportare qualche trofeo, reale o immaginario, che avrebbe conferito alla sua spedizione un'aura di successo".
La Groenlandia rappresentava solo il preludio, poiché la vera meta di Peary era la conquista del Polo Nord, la passione che lo aveva sempre posseduto.
"Ricorda, Madre", scrisse Peary a casa dopo il primo viaggio al Nord, "io devo diventare famoso".





Tornato in Groenlandia nel 1898, spingendosi sempre più a nord, perse otto dita dei piedi per congelamento.
In seguito, nel 1906, al suo quarto tentativo, giunse a 280 chilometri dal Polo, il punto più settentrionale mai toccato dall'uomo.
Nel dicembre di quell'anno, a Washington, gli fu assegnata dal presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt la prima Hubbard Medal della Society.
"Il vero esploratore", spiegò Peary al folto pubblico, "compie il suo lavoro non nella speranza di ricevere ricompense e onori, ma perché ciò che ha intrapreso fa parte del suo stesso essere e va portato a termine per amore del risultato...".
Poco più di due anni dopo, mentre agli inizi del 1909 Shackleton abbandonava la speranza di raggiungere il Polo Sud e si ritirava, Peary era di nuovo in marcia verso il Polo Nord.
Stabilì il campo base a Cape Columbia, sulla punta più settentrionale dell'isola di Ellesmere, e cominciò ad avanzare.
Sfinì gli uomini del gruppo di supporto, che dovettero trasportare il grosso del carico, in modo da lasciare freschi ed in forma gli esploratori del gruppo finale, i conquistatori del Polo.





Il 1° aprile l'ultima squadra di supporto terminò il suo compito e tornò indietro, lasciando Peary, il conducente della slitta Mattew Henson, quattro Eschimesi e quaranta cani a coprire i 215 chilometri, che li avrebbero portati a raggiungere il Polo, a quanto si dice, il 6 aprile del 1909.
"Finalmente il Polo", esultò Peary, "Il premio di tre secoli di tentativi, il mio sogno di ventitré anni. Mio finalmente...".
Dopo un trentina di ore trascorse a scattare fotografie e a rilevare dati, la squadra cominciò a ritirarsi verso sud e raggiunse Cape Columbia in 16 giorni.
L'8 settembre Peary telegrafò al presidente degli Stati Uniti, William Howard Taft: "Ho l'onore di mettere il Polo Nord a vostra disposizione".
"Grazie per la vostra generosa offerta", rispose il presidente, "Non so ancora che cosa potrò farmene. Mi congratulo sinceramente per il conseguimento, dopo sforzi immensi, di quello che era l'obiettivo della vostra spedizione...".
Il ragazzino di campagna della Pennsylvania, cresciuto senza padre al Bowdoin College e vissuto con una madre che lo adorva, il giovane che preferiva nascondersi nei boschi piuttosto che partecipare alle attività sportive e che più tradì avrebbe sposato la figlia di uno studioso della Smithsonian Istitution, ora, a cinquant'anni, si era guadagnato un posto nel Pantheon insieme a Colombo e Magellano.
"Non sono egoista, madre", scrisse un giorno, "voglio raggiungere la fama adesso, in modo che possa goderne anche tu".





Ma un uomo può farsi accecare, talvolta, dalla sua stessa fiera ambizione e, nei decenni seguenti una serie di incoerenze e discrepanze nella storia di Peary portò la gente a chiedersi, dapprima in sordina e poi apertamente, se davvero egli avesse raggiunto il Polo Nord.
La Society ingaggiò Wally Herbert, un veterano con un'esperienza di spedizioni polari più che decennale, per condurre indagini sulle affermazioni di Peary.
negli archivi di N.G. trovò alcune pagine bianche nel diario di Peary.
Le parole "Mio finalmente" non erano state scritte nelle pagine del diario, bensì su un foglio a parte, come se fossero state aggiunte in un secondo momento.
In effetti, come Herbert notò nel numero di settembre del 1988, sugli appunti di Peary prendeva per le successive annotazioni sul suo diario "non esisteva alcuna traccia delle attività svolte durante le trenta ore passate nelle vicinanze del Polo".
Herbert continuava: "Il punto centrale, cioè se Peary abbia raggiunto o no il Polo Nord e se, dunque, abbia affermato il vero sembra chiaro.
Ma non mi azzarderei a un semplice sì o no, poiché la storia dell'ultima spedizione di Peary mette in luce un conflitto molto più intimo e un eroe molto più umano di quanto non sia pensato finora.
Nonostante tutto, resta, e sempre resterà, la tragica incertezza circa le conquiste di Robert E. Peary.
Al di là delle domande che tuttora circondano le presunte imprese di Peary, Herbert ancora lo considera ammirevole nella sua determinazione e nel suo coraggio, concludendo che "egli riuscì ad estendere i confini della resistenza umana".







Africa nera: Cameroun. Chefferie del Grassland.

"Come un bambino: mia madre è il mio capo, mio padre il capo di mia madre e il re il capo di mio padre".
( Proverbio Bamileke, Cameroun ).






Il termine chefferie, solitamente tradotto in italiano con "dominio", indica nella letteratura antropologica una sorta di livello intermedio fra le società acefale e quelle statuali.
Si tratta di una nozione che presenta qualche ambiguità in quanto i "capi" in Africa sono stato spesso una creazione coloniale, un tramite fra l'amministrazione europea e le popolazioni locali.
Similmente oggi, con l'avvento del multipartitismo in molti stati africani, i "capi tradizionali" sono serviti come efficaci collettori di voti.
Le stesse difficoltà rincontrate dagli stati postcoloniali nel creare una forte identità nazionale, d'altronde, ha contribuito a un rilancio delle autorità e delle appartenenze locali.
Negli altopiani del Cameroun occidentale a partire dal XV secolo, si è formato un mosaico di piccoli regni ( Bamun, Bamileke, Tikar ), quasi un centinaio, risultanti dalla sovrapposizione di popolazioni già presenti in zona con altre provenienti da aree vicine.





Si tratta dunque di strutture politiche che non hanno una base etnica omogenea ma che trovano la loro unità nel riconoscimento del potere politico e religioso del sovrano ( fo ).
Presso i Bamileke il fo amministra la terra distribuendola fra le diverse famiglie; pur non essendo una figura divina ha un potere sacrale che gli deriva dall'antenato fondatore: da lui dipende la fecondità della terra e delle donne e quindi la prosecuzione della vita e il benessere della comunità.





La figura del re è sacra in quanto il suo corpo è un grande contenitore di forza vitale, che stà nel sangue ricevuto dagli antenati, nella saliva e nello sperma.
A questo alludono anche molti degli emblemi del potere, che sono appunto "contenitori", come la pipa e il corno per il vino di palma.
Il corno si trasmette di re in re e contiene la forza di tutti quelli che vi hanno bevuto lasciandovi la loro saliva e le loro parole (quando si parla su si un corno si può dire solo la verità).




Il re Ngnie Kamba di Bandjoun ( 1934-2003 ), Bamileke ( Cameroun )

Al centro: Il trono reale Kuo Fo presenta due personaggi maschili come schienale; si tratta forse dei guardiani e protettori del re.
Il gesto della mano che sorregge il gomito dell'altro braccio, la cui mano a sua volta sostiene il mento, è il saluto  che in segno di rispetto si rivolge al re.
Sulla sinistra e al centro, le zucche ricoperte di perline di vetro sono fra gli oggetti più sacri: alludono al re e alla sua fecondità e sono simbolicamente associate all'acqua.
Quella che il fo versa dalle zucche "senza fondo" è un'acqua che non finisce mai e che assicura l'arrivo delle piogge da cui dipende la fertilità dei campi.
Con la loro presenza le zucche sacre delimitano lo spazio rituale.
In basso: ai piedi del re una pelle di leopardo e una zanna di elefante che sono emblemi del potere reale.
Al fo si attribuisce anche il potere di trasformarsi in una pantera, in elefante, in bufalo o in un boa.
Quindi, in modo simile ad altri re africani, la sua figura possiede un lato terribile e oscuro: come tutto ciò che è sacro, il re allo stesso tempo benefico e pericoloso.
La costruzione sullo sfondo ( nemo ) è il luogo in cui il re si riunisce con il consiglio dei nove ( mkamvu' u ), l'organo politico-religioso composto dai difendenti dei compagni del primo re di Bandjoun ( un cacciatore venuto di nord ) e dei capi locali sottomessi.







2012 Fine del mondo?. I Maya non l'hanno mai detto.



Per Alfredo Barrera, dell'istituto Nazionale messicano di Antropologia e storia, i Maya non si sono mai lontanamente sognati che il mondo finirà nel 2012.
Questa dichiarazione è supportata da diversi dati oggettivi tratti da uno studio attento e archeologico dei vari manufatti che i Maya ci han lasciato.
"Ci sono molti monumenti Maya che descrivono eventi che si svolgeranno in un futuro prossimo o remoto rispetto al 2012", ha dichiarato.
"Ad esempio il re di Palenque (K'inich Hanaab Pakal) riteneva che sarebbe tornato sulla terra un paio di migliaia di anni da oggi".
Il ritenere che il mondo finirà nel 2012 è un concetto totalmente estraneo alla cultura Maya, mentre questo tipo di visioni apocalittiche sono tipiche del pensiero degli "europei occidentali", intrisi del pensiero cattolico e del "mille e non più mille".
Una fine del mondo "escatologica" simile a quella che si legge nell'apocalisse di San Giovanni è sconosciuta ai popoli del centro-america.







giovedì 11 ottobre 2012

Racconti di viaggio: Uganda, nel cuore dell'Africa.

Racconti di viaggio: Uganda, nel cuore dell'Africa.





L'Uganda è un Paese dimenticato da molti anni e oggi tutto da riscoprire, paradiso incontaminato e porta aperta verso L'Africa selvaggia.





Ci siamo, domani all'alba si parte.
Sembra impossibile ma il grande giorno è arrivato.
Mai il suono della sveglia è stato il ben venuto come oggi; inizia l'agitazione e l'attesa, poi, finalmente, si decolla.
Il profumo dell'Africa si è già impadronito di me, dei miei polmoni, dei miei abiti, della mia pelle.
Kampala è la tipica città africana piena di vita, di rumori, di macchine che si infilano da tutte le parti, dove i semafori sono pochissimi e sostituiti dagli immancabili clacson.
Ed eccoli, i marabù: sui tetti e nei giardini, come sentinelle impassibili, qusti bizzarri uccelli giganti si aggirano tra i rifiuti svolgenti un ruolo ecologico importantissimo.
E' mattina. Saliamo su una barca veloce che scivola per un'ora tra le isole del lago Vittoria.
L'isola di Ngamba è un santuario per la protezione dei scimpanzé orfani e quelli che venino sequestrati in dogana, a qualche delinquente che pensava di portarsi un pezzo d'Africa nel suo appartamento a Milano o New York; ancora peggiore è la sorte degli scimpanzé trovati incatenati e usati nei circhi locali o come animali da compagnia sin tanto che non diventano troppo grossi per non poterli più trattare come cagnolini e non si esiti a imprigionarli e incatenarli.
I più fortunati vengono scoperti e portati qui.





La riserva appartiene, come quelle del Kenya, Tanzania e Repubblica democratica del Congo, alla fondazione di Jane Goodall, la donna che ha fatto conoscere gli scimpanzé in tutto il mondo, quella che ha scoperto che anche questi animali usano gli utensili gettando sgomento nel mondo scientifico perché, come disse il famoso paleontrapologo Louis Leakey, "Ora dobbiamo ridefinire l'uomo, ridefinire gli utensili o accettare gli scimpanzé come esseri umani".
Ma al di là di tutte le prove scientifiche, basta guardargli negli occhi, e l'1,6 per cento di dna che ci separa svanisce.
Riprendiamo la strada, finalmente raggiungiamo il Kibale National Park.
Scendo dalla jeep e sono già pronta, ho tutto quello che mi serve per inoltrarmi nella foresta alla ricerca degli scimpanzé.
Siamo fortunatissimi, siamo soli con la guida, lungo la strada sono circondata da farfalle che al mio passaggio disegnano nuvole di colore.






Il sentiero diventa sempre più stretto, siamo senza machete e progrediamo a fatica, il sottobosco è fittissimo e, man mano che avanziamo, cresce in me l'agitazione.
Il primo nido notturno è un tuffo al cuore: ci siamo, li sentiamo, urla e rumore di rami spezzati ci fanno capire che sono lì, a pochi passi, nascosti alla vista solo dal folto della vegetazione.
Il nostro primo scimpanzé ci accoglie silenzioso facendoci la pipì in tsta; non importa, continuano ad avanzare e ci accorgiamo che stiamo camminando su su un tappeto di frutti simili alle nostre albicocche: sono la ghiottoneria degli scimpanzé, che, sui rami sopra di noi, mangiano con gusto questi frutti, con le mani li aprono a metà e addentano la parte più dolce, quella intorno al nocciolo, per poi lasciare cadere il resto.

E' tutto un tonfo, non sappiamo più dove guardare, il profumo dolciastro dei frutti in decomposizione ci stordisce, è troppo bello per essere vero!.









E' sera, siamo arrivati al Queen Elizabeth National Park, passiamo il gate e come sempre, malgrado la luce se ne stia andando, mi alzo in piedi sul sedile della jeep, quasi a catapultarmi nell'immensità.
Respiro a pieni polmoni l'aria di sole e di savana, un ippopotamo dietro una curva ci dà il benvenuto.
Siamo al Mweya Safari Lodge.
E' bellissimo, il lago Edward da una parte e il canale Karinga dall'altra.
Bande di manguste si aggirano incuranti degli uomini, il loro sguardo è oltre, spariscono con la rapidità con cui sono comparse.
I gechi sfidano la forza di gravità, consumano silenziosi la loro cena, le aquile pescatrici con il loro lamento si gettano nel canale per riemergere con un pesce tra gli artigli.
Siamo seduti nella veranda della nostra camera godendoci un po' di relax e a pochi metri da noi avanza inginocchiata e silenziosa una famiglia di facoceri intenta a brucare l'erbetta fresca.
Si fermano davanti a noi e la macchina fotografica diventa incandescente.
E' l'alba, progediamo lentamente, fermandoci a ogni istante, e ben presto scorgiamo il primo gruppo di elefanti che pigramente sta risalendo dal canale; animali in continuo movimento attraverso il Q.E.N.P alla ricerca di acqua, cibo e ombra.
Scorgiamo i leoni che si crogiolano nella loro pigrizia senza perde d'occhio i cuccioli impegnati in agguati immaginari.











I kilometri e le ore scorrono veloci.
In barca risaliamo il canale Kazinga sino al lago George, un ranger del parco ci accompagna, mandrie di elefanti scesi ad abbeverarsi popolano le rive, bufali e ippopotami ricoprono l'acqua, aironi, aquile, pellicani, cormorani e molti altri uccelli si alzano in volo al nostro passaggio.
Un altro giorno, un'altra emozione, ancora loro, gli scimpanzé.
Siamo nel Kyambura Gorge e, dopo un breve breafing con i ranger, partiamo alla loro ricerca.
Siamo così concentrati sugli scimpanzé che non apprezziamo la presenza di tutte le altre scimmie che guardano curiose.
Ci imbattiamo in un enorme albero caduto che il caso ha trasformato in ponte naturale.
Un senso di inquietudine mi assale.
Come prevedevo, il ranger ci dice che dobbiamo attraversarlo.
Ci guardiamo tutti, senza sapere cosa dire, eccitati dall'idea di fare un'esperienza degna di Indiana Jones, ma impauriti pensando all'eventualità di cadere nell'acqua sottostante che scorre veloce, anche se in fondo la paura più che per me è per il mio binocolo e la mia macchina fotografica.









I ranger, con la disinvoltura data dalla quotidiana esperienza, passano sull'altra sponda velocemente.
Quando arriva il mio turno tutto si blocca, il mio procedere è così lento che sembro ferma, ma ce la faccio, il richiamo degli scimpanzé è troppo forte.
Purtroppo il tempo in Africa passa così velocemente che è già ora di risalire il sentiero.
Ripartiamo e, lungo una strada di un rosso africano, con buche africane, attraversiamo villaggi sperduti dove il tempo è scandito da movimenti antichi.
Ancora un giorno e potrò incontrare i gorilla.
Desidero questo momento da sempre, e ora che il mio sogno si sta realizzando, ho il terrore che succeda qualcosa.
Gli ibis ci danno la sveglia. Arriviamo al confine con il Rwanda che la dogana è ancora chiusa; aspettiamo, arriva il funzionario ugandese, ci controlla i passaporti e ci lascia passare: siamo nella terra di nessuno, quella compresa tra le due sbarre che separano due stati. La sbarra si alza.
Rwanda, il paese delle mille colline.











Due parole si rincorrono nella mia mente: Hutu e Tutsi, una lingua, una religione, un popolo che l'arroganza e la malvagità di noi occidentali ha condannato al genocidio.
Sento su di me una cappa di dolore inespresso, che mi toglie il fiato; scruto il volto delle persone che incontro per cercar di capire...ma non ci riesco.
Dappertutto ci sono cartelli che invitano alla riconciliazione, si cerca di ricostruire la dignità di un popolo, parlo a lungo di questo con un rwandese, ma non trovo risposte alle mie domande.
Il lucido pavimento bianco dell'atrio del Gorilla Nest ci accoglie.
Guardo i miei scarponi ricoperti di fango, cerco di pulirli come posso ma è un'impresa disperata. Decido così di toglierli, sotto gli occhi divertiti del personale del lodge.
Pioviggina, le cime dei vulcani Karisimbi, Bisoke, Sabyniyo, Gahinga e Muhabura sono circondate da strati di nubi.
Le guide del Parc des Volcanos ci accolgono sorridenti, si vede che amano il proprio lavoro.
In Rwanda tutti i gorilla sono controllati a vista da ranger armati che dall'alba al tramonto li sorvegliano dal pericolo dei bracconieri.
Si, perché può sembrare impossibile, ma esistono ancora i bracconieri.
Si formano i gruppi, tutti abbiamo negli occhi la stesa eccitazione e la consapevolezza che stiamo per condividere un momento importante.
Con la macchina ci avviciniamo al punto d'incontro con la scorta armata.
Il sentiero fangoso da subito si inerpica ripido, si procede di buon passo, gocce di sudore mi scendono negli occhi, percepisco che l'acqua prigioniera nel mio corpo piano piano lo abbandona.
La foresta che attraversiamo è bellissima, fitta, inaccessibile, ricca di vita e di umidità.
Ma ecco i gorilla!








Il sudore, la fatica e la stanchezza svaniscono di colpo, non si ha più né sete né fame, lo spettacolo del silverback che avanza pacifico tra i rami toglie il fiato.
I gorilla sono dappertutto, divisi in piccoli gruppi, le femmine cullano i loro piccoli tra braccia possenti eppure il gesto è delicato.
Ci guardano, i cuccioli ci sfidano, alcuni simulano attacchi e il rumore della nocche sul petto fa una certa impressione.
Quello che mi colpisce non è quello che fanno, ma come lo fanno.
Giocano, si rincorrono, si grattano, si siedono come noi.
A un certo punto siamo tutti così concentrati su un gruppo di giovani e non ci accorgiamo che una mamma con il suo piccolo cammina tra di noi, appoggia delicatamente la sua mano sulla spalla di un ragazzi australiano chinato per fotografare, quasi a chiedere il permesso; il ragazzo si gira, pensa che sia uno di noi, il tempo si ferma...Poi, mamma con il cucciolo passa oltre e, ignara del regalo che ci ha fatto, raggiunge il suo gruppo.
Anche questa volta non andrò a visitare la tomba di Dian Fossey e di Digit: so che lei non approverebbe tutti questi turisti che violano le sue montagne e i suoi gorilla.





Tutta l'umanità ha un debito di riconoscenza nei suoi confronti, è grazie a lei se oggi questi primati sopravvivono.
lasciamo il Rwanda e rientriamo in Uganda.
Il momento tanto temuto è arrivato, è il momento dei saluti, degli abbracci e delle promesse.
Non ci sono parole per descrivere cosa provo ogni volta che lascio l'Uganda: è un pugno nello spomaco che mi toglie il respiro, è un magone che nasce dal cuore e sale sino agli occhi, sono lacrime di gratitudine e di disperazione che non riesco a trattenere.
So che tornerò ma in quel momento so solo che sto partendo.




Video: I viaggi di Scientia Antiquitatis.
Uganda-Rwanda










Le grandi scoperte: Howard Carter, tomba Tutankhamon. 1922.



Uno degli uomini più importanti per lo studio dell'Antico Egitto è stato l’archeologo britannico Howard Carter.
Lo studioso ebbe un ruolo fondamentale nella scoperta della tomba del faraone Tutankhamon in Egitto negli anni Venti del secolo scorso.
Howard Carter nacque a Londra il 9 maggio del 1874 da Martha Joyce Sands e da Samuel Carter, un artista particolarmente dotato che incoraggiò il figlio a seguire le proprie orme.
Howard Carter dimostrò di avere un talento particolare per il disegno e a 17 anni divenne assistente dell’egittologo Percy Newberry, partecipando a una sua spedizione nella necropoli di Beni Hasan risalente al Medio Regno dell’Egitto (il periodo tra il 1987 e il 1780 avanti Cristo).
Tra i vari incarichi affidati a Carter, c’era quello di ricopiare e catalogare le decorazioni e i geroglifici all’interno delle tombe, lavoro che svolse con grande attenzione innovando anche alcuni sistemi per ricopiare i motivi decorativi.




Dopo aver lavorato in altre zone dell’Egitto con altri archeologi, nel 1899 Carter fu nominato ispettore capo del Consiglio supremo delle antichità dal ministero della Cultura egiziano e coordinò diversi scavi a Luxor.
Nel 1905 diede le proprie dimissioni e tre anni dopo entrò in contatto con George Herbert, quinto conte di Carnarvon, che gli diede molte risorse economiche per finanziare nuovi scavi archeologici.
Carter concentrò i propri lavori nella valle dei Re, l’area che si trova vicino Luxor e che per quasi cinque secoli fu utilizzata dagli antichi egizi per le sepolture dei loro sovrani.
I primi anni furono poco fruttuosi e le ricerche si interruppero a causa della Prima guerra mondiale, per poi riprendere con maggiore continuità nel 1917.
Lord Carnarvon stava spendendo molto denaro, ma non riteneva soddisfacenti i risultati ottenuti dal suo archeologo e nel 1922 decise di dare un ultimo finanziamento a Carter affinché gli trovasse una particolare tomba.



Howard Carter intensificò le proprie ricerche e il 4 novembre del 1922 trovò, insieme con i suoi collaboratori, i gradini che portavano alla tomba di Tutankhamon.
Ventidue giorni dopo, Carter aprì una piccola breccia in presenza di Lord Carnarvon nella via di accesso alla tomba, scoprendo che non era stata depredata e che il corredo funebre del faraone era sostanzialmente intatto.
La tomba era conservata perfettamente e divenne una delle più importanti scoperte archeologiche realizzate nella valle dei Re. In quei momenti, Carter non sapeva ancora con certezza di essere nella tomba di Tutankhamon e non immaginava ancora del tutto quanto fosse ben conservata e ricca di reperti.
In quell’occasione ci fu un celebre scambio di battute con il suo finanziatore, che gli chiese se vedesse qualcosa di particolare ricevendo da Carter come risposta: “Sì, cose magnifiche”.
Effettuata la scoperta, iniziò un intenso lavoro di catalogazione dei manufatti trovati all’interno dell’anticamera della tomba.
A fine febbraio del 1923, la ricerca si spostò in un’altra stanza dove avvenne l’importante ritrovamento del sarcofago di Tutankhamon. La notizia fu ripresa dai giornali di tutto il mondo e contribuì a rafforzare l’interesse verso l’antico Egitto da parte dell’opinione pubblica occidentale.
Dopo nove anni di ricerche, Carter decise di ritirarsi e iniziò una nuova carriera come consulente e agente per alcuni musei.




Morì a Londra il 2 marzo del 1939 all’età di 64 anni a causa di un linfoma. 
Secondo gli storici, la sua morte a così tanti anni di distanza dalla scoperta della tomba nella valle dei Re sarebbe la prova schiacciante dell’inesistenza della cosiddetta “Maledizione di Tutankhamon”, che avrebbe colpito tutto coloro che parteciparono alla spedizione archeologica.
Solamente Lord Carnarvon morì pochi mesi dopo la scoperta della tomba, ma a causa di una ferita mal curata dovuta a una puntura d’insetto.
La maledizione fu una sorta di trovata promozionale dell’epoca, dovuta anche al fatto che circolavano poche informazioni ufficiali per la stampa sull’andamento degli scavi nella valle dei Re. 
In media, i principali artefici della scoperta archeologica morirono a oltre 24 anni di distanza dall’apertura della tomba di Tutankhamon.