giovedì 11 ottobre 2012

Racconti di viaggio: Uganda, nel cuore dell'Africa.

Racconti di viaggio: Uganda, nel cuore dell'Africa.





L'Uganda è un Paese dimenticato da molti anni e oggi tutto da riscoprire, paradiso incontaminato e porta aperta verso L'Africa selvaggia.





Ci siamo, domani all'alba si parte.
Sembra impossibile ma il grande giorno è arrivato.
Mai il suono della sveglia è stato il ben venuto come oggi; inizia l'agitazione e l'attesa, poi, finalmente, si decolla.
Il profumo dell'Africa si è già impadronito di me, dei miei polmoni, dei miei abiti, della mia pelle.
Kampala è la tipica città africana piena di vita, di rumori, di macchine che si infilano da tutte le parti, dove i semafori sono pochissimi e sostituiti dagli immancabili clacson.
Ed eccoli, i marabù: sui tetti e nei giardini, come sentinelle impassibili, qusti bizzarri uccelli giganti si aggirano tra i rifiuti svolgenti un ruolo ecologico importantissimo.
E' mattina. Saliamo su una barca veloce che scivola per un'ora tra le isole del lago Vittoria.
L'isola di Ngamba è un santuario per la protezione dei scimpanzé orfani e quelli che venino sequestrati in dogana, a qualche delinquente che pensava di portarsi un pezzo d'Africa nel suo appartamento a Milano o New York; ancora peggiore è la sorte degli scimpanzé trovati incatenati e usati nei circhi locali o come animali da compagnia sin tanto che non diventano troppo grossi per non poterli più trattare come cagnolini e non si esiti a imprigionarli e incatenarli.
I più fortunati vengono scoperti e portati qui.





La riserva appartiene, come quelle del Kenya, Tanzania e Repubblica democratica del Congo, alla fondazione di Jane Goodall, la donna che ha fatto conoscere gli scimpanzé in tutto il mondo, quella che ha scoperto che anche questi animali usano gli utensili gettando sgomento nel mondo scientifico perché, come disse il famoso paleontrapologo Louis Leakey, "Ora dobbiamo ridefinire l'uomo, ridefinire gli utensili o accettare gli scimpanzé come esseri umani".
Ma al di là di tutte le prove scientifiche, basta guardargli negli occhi, e l'1,6 per cento di dna che ci separa svanisce.
Riprendiamo la strada, finalmente raggiungiamo il Kibale National Park.
Scendo dalla jeep e sono già pronta, ho tutto quello che mi serve per inoltrarmi nella foresta alla ricerca degli scimpanzé.
Siamo fortunatissimi, siamo soli con la guida, lungo la strada sono circondata da farfalle che al mio passaggio disegnano nuvole di colore.






Il sentiero diventa sempre più stretto, siamo senza machete e progrediamo a fatica, il sottobosco è fittissimo e, man mano che avanziamo, cresce in me l'agitazione.
Il primo nido notturno è un tuffo al cuore: ci siamo, li sentiamo, urla e rumore di rami spezzati ci fanno capire che sono lì, a pochi passi, nascosti alla vista solo dal folto della vegetazione.
Il nostro primo scimpanzé ci accoglie silenzioso facendoci la pipì in tsta; non importa, continuano ad avanzare e ci accorgiamo che stiamo camminando su su un tappeto di frutti simili alle nostre albicocche: sono la ghiottoneria degli scimpanzé, che, sui rami sopra di noi, mangiano con gusto questi frutti, con le mani li aprono a metà e addentano la parte più dolce, quella intorno al nocciolo, per poi lasciare cadere il resto.

E' tutto un tonfo, non sappiamo più dove guardare, il profumo dolciastro dei frutti in decomposizione ci stordisce, è troppo bello per essere vero!.









E' sera, siamo arrivati al Queen Elizabeth National Park, passiamo il gate e come sempre, malgrado la luce se ne stia andando, mi alzo in piedi sul sedile della jeep, quasi a catapultarmi nell'immensità.
Respiro a pieni polmoni l'aria di sole e di savana, un ippopotamo dietro una curva ci dà il benvenuto.
Siamo al Mweya Safari Lodge.
E' bellissimo, il lago Edward da una parte e il canale Karinga dall'altra.
Bande di manguste si aggirano incuranti degli uomini, il loro sguardo è oltre, spariscono con la rapidità con cui sono comparse.
I gechi sfidano la forza di gravità, consumano silenziosi la loro cena, le aquile pescatrici con il loro lamento si gettano nel canale per riemergere con un pesce tra gli artigli.
Siamo seduti nella veranda della nostra camera godendoci un po' di relax e a pochi metri da noi avanza inginocchiata e silenziosa una famiglia di facoceri intenta a brucare l'erbetta fresca.
Si fermano davanti a noi e la macchina fotografica diventa incandescente.
E' l'alba, progediamo lentamente, fermandoci a ogni istante, e ben presto scorgiamo il primo gruppo di elefanti che pigramente sta risalendo dal canale; animali in continuo movimento attraverso il Q.E.N.P alla ricerca di acqua, cibo e ombra.
Scorgiamo i leoni che si crogiolano nella loro pigrizia senza perde d'occhio i cuccioli impegnati in agguati immaginari.











I kilometri e le ore scorrono veloci.
In barca risaliamo il canale Kazinga sino al lago George, un ranger del parco ci accompagna, mandrie di elefanti scesi ad abbeverarsi popolano le rive, bufali e ippopotami ricoprono l'acqua, aironi, aquile, pellicani, cormorani e molti altri uccelli si alzano in volo al nostro passaggio.
Un altro giorno, un'altra emozione, ancora loro, gli scimpanzé.
Siamo nel Kyambura Gorge e, dopo un breve breafing con i ranger, partiamo alla loro ricerca.
Siamo così concentrati sugli scimpanzé che non apprezziamo la presenza di tutte le altre scimmie che guardano curiose.
Ci imbattiamo in un enorme albero caduto che il caso ha trasformato in ponte naturale.
Un senso di inquietudine mi assale.
Come prevedevo, il ranger ci dice che dobbiamo attraversarlo.
Ci guardiamo tutti, senza sapere cosa dire, eccitati dall'idea di fare un'esperienza degna di Indiana Jones, ma impauriti pensando all'eventualità di cadere nell'acqua sottostante che scorre veloce, anche se in fondo la paura più che per me è per il mio binocolo e la mia macchina fotografica.









I ranger, con la disinvoltura data dalla quotidiana esperienza, passano sull'altra sponda velocemente.
Quando arriva il mio turno tutto si blocca, il mio procedere è così lento che sembro ferma, ma ce la faccio, il richiamo degli scimpanzé è troppo forte.
Purtroppo il tempo in Africa passa così velocemente che è già ora di risalire il sentiero.
Ripartiamo e, lungo una strada di un rosso africano, con buche africane, attraversiamo villaggi sperduti dove il tempo è scandito da movimenti antichi.
Ancora un giorno e potrò incontrare i gorilla.
Desidero questo momento da sempre, e ora che il mio sogno si sta realizzando, ho il terrore che succeda qualcosa.
Gli ibis ci danno la sveglia. Arriviamo al confine con il Rwanda che la dogana è ancora chiusa; aspettiamo, arriva il funzionario ugandese, ci controlla i passaporti e ci lascia passare: siamo nella terra di nessuno, quella compresa tra le due sbarre che separano due stati. La sbarra si alza.
Rwanda, il paese delle mille colline.











Due parole si rincorrono nella mia mente: Hutu e Tutsi, una lingua, una religione, un popolo che l'arroganza e la malvagità di noi occidentali ha condannato al genocidio.
Sento su di me una cappa di dolore inespresso, che mi toglie il fiato; scruto il volto delle persone che incontro per cercar di capire...ma non ci riesco.
Dappertutto ci sono cartelli che invitano alla riconciliazione, si cerca di ricostruire la dignità di un popolo, parlo a lungo di questo con un rwandese, ma non trovo risposte alle mie domande.
Il lucido pavimento bianco dell'atrio del Gorilla Nest ci accoglie.
Guardo i miei scarponi ricoperti di fango, cerco di pulirli come posso ma è un'impresa disperata. Decido così di toglierli, sotto gli occhi divertiti del personale del lodge.
Pioviggina, le cime dei vulcani Karisimbi, Bisoke, Sabyniyo, Gahinga e Muhabura sono circondate da strati di nubi.
Le guide del Parc des Volcanos ci accolgono sorridenti, si vede che amano il proprio lavoro.
In Rwanda tutti i gorilla sono controllati a vista da ranger armati che dall'alba al tramonto li sorvegliano dal pericolo dei bracconieri.
Si, perché può sembrare impossibile, ma esistono ancora i bracconieri.
Si formano i gruppi, tutti abbiamo negli occhi la stesa eccitazione e la consapevolezza che stiamo per condividere un momento importante.
Con la macchina ci avviciniamo al punto d'incontro con la scorta armata.
Il sentiero fangoso da subito si inerpica ripido, si procede di buon passo, gocce di sudore mi scendono negli occhi, percepisco che l'acqua prigioniera nel mio corpo piano piano lo abbandona.
La foresta che attraversiamo è bellissima, fitta, inaccessibile, ricca di vita e di umidità.
Ma ecco i gorilla!








Il sudore, la fatica e la stanchezza svaniscono di colpo, non si ha più né sete né fame, lo spettacolo del silverback che avanza pacifico tra i rami toglie il fiato.
I gorilla sono dappertutto, divisi in piccoli gruppi, le femmine cullano i loro piccoli tra braccia possenti eppure il gesto è delicato.
Ci guardano, i cuccioli ci sfidano, alcuni simulano attacchi e il rumore della nocche sul petto fa una certa impressione.
Quello che mi colpisce non è quello che fanno, ma come lo fanno.
Giocano, si rincorrono, si grattano, si siedono come noi.
A un certo punto siamo tutti così concentrati su un gruppo di giovani e non ci accorgiamo che una mamma con il suo piccolo cammina tra di noi, appoggia delicatamente la sua mano sulla spalla di un ragazzi australiano chinato per fotografare, quasi a chiedere il permesso; il ragazzo si gira, pensa che sia uno di noi, il tempo si ferma...Poi, mamma con il cucciolo passa oltre e, ignara del regalo che ci ha fatto, raggiunge il suo gruppo.
Anche questa volta non andrò a visitare la tomba di Dian Fossey e di Digit: so che lei non approverebbe tutti questi turisti che violano le sue montagne e i suoi gorilla.





Tutta l'umanità ha un debito di riconoscenza nei suoi confronti, è grazie a lei se oggi questi primati sopravvivono.
lasciamo il Rwanda e rientriamo in Uganda.
Il momento tanto temuto è arrivato, è il momento dei saluti, degli abbracci e delle promesse.
Non ci sono parole per descrivere cosa provo ogni volta che lascio l'Uganda: è un pugno nello spomaco che mi toglie il respiro, è un magone che nasce dal cuore e sale sino agli occhi, sono lacrime di gratitudine e di disperazione che non riesco a trattenere.
So che tornerò ma in quel momento so solo che sto partendo.




Video: I viaggi di Scientia Antiquitatis.
Uganda-Rwanda










Le grandi scoperte: Howard Carter, tomba Tutankhamon. 1922.



Uno degli uomini più importanti per lo studio dell'Antico Egitto è stato l’archeologo britannico Howard Carter.
Lo studioso ebbe un ruolo fondamentale nella scoperta della tomba del faraone Tutankhamon in Egitto negli anni Venti del secolo scorso.
Howard Carter nacque a Londra il 9 maggio del 1874 da Martha Joyce Sands e da Samuel Carter, un artista particolarmente dotato che incoraggiò il figlio a seguire le proprie orme.
Howard Carter dimostrò di avere un talento particolare per il disegno e a 17 anni divenne assistente dell’egittologo Percy Newberry, partecipando a una sua spedizione nella necropoli di Beni Hasan risalente al Medio Regno dell’Egitto (il periodo tra il 1987 e il 1780 avanti Cristo).
Tra i vari incarichi affidati a Carter, c’era quello di ricopiare e catalogare le decorazioni e i geroglifici all’interno delle tombe, lavoro che svolse con grande attenzione innovando anche alcuni sistemi per ricopiare i motivi decorativi.




Dopo aver lavorato in altre zone dell’Egitto con altri archeologi, nel 1899 Carter fu nominato ispettore capo del Consiglio supremo delle antichità dal ministero della Cultura egiziano e coordinò diversi scavi a Luxor.
Nel 1905 diede le proprie dimissioni e tre anni dopo entrò in contatto con George Herbert, quinto conte di Carnarvon, che gli diede molte risorse economiche per finanziare nuovi scavi archeologici.
Carter concentrò i propri lavori nella valle dei Re, l’area che si trova vicino Luxor e che per quasi cinque secoli fu utilizzata dagli antichi egizi per le sepolture dei loro sovrani.
I primi anni furono poco fruttuosi e le ricerche si interruppero a causa della Prima guerra mondiale, per poi riprendere con maggiore continuità nel 1917.
Lord Carnarvon stava spendendo molto denaro, ma non riteneva soddisfacenti i risultati ottenuti dal suo archeologo e nel 1922 decise di dare un ultimo finanziamento a Carter affinché gli trovasse una particolare tomba.



Howard Carter intensificò le proprie ricerche e il 4 novembre del 1922 trovò, insieme con i suoi collaboratori, i gradini che portavano alla tomba di Tutankhamon.
Ventidue giorni dopo, Carter aprì una piccola breccia in presenza di Lord Carnarvon nella via di accesso alla tomba, scoprendo che non era stata depredata e che il corredo funebre del faraone era sostanzialmente intatto.
La tomba era conservata perfettamente e divenne una delle più importanti scoperte archeologiche realizzate nella valle dei Re. In quei momenti, Carter non sapeva ancora con certezza di essere nella tomba di Tutankhamon e non immaginava ancora del tutto quanto fosse ben conservata e ricca di reperti.
In quell’occasione ci fu un celebre scambio di battute con il suo finanziatore, che gli chiese se vedesse qualcosa di particolare ricevendo da Carter come risposta: “Sì, cose magnifiche”.
Effettuata la scoperta, iniziò un intenso lavoro di catalogazione dei manufatti trovati all’interno dell’anticamera della tomba.
A fine febbraio del 1923, la ricerca si spostò in un’altra stanza dove avvenne l’importante ritrovamento del sarcofago di Tutankhamon. La notizia fu ripresa dai giornali di tutto il mondo e contribuì a rafforzare l’interesse verso l’antico Egitto da parte dell’opinione pubblica occidentale.
Dopo nove anni di ricerche, Carter decise di ritirarsi e iniziò una nuova carriera come consulente e agente per alcuni musei.




Morì a Londra il 2 marzo del 1939 all’età di 64 anni a causa di un linfoma. 
Secondo gli storici, la sua morte a così tanti anni di distanza dalla scoperta della tomba nella valle dei Re sarebbe la prova schiacciante dell’inesistenza della cosiddetta “Maledizione di Tutankhamon”, che avrebbe colpito tutto coloro che parteciparono alla spedizione archeologica.
Solamente Lord Carnarvon morì pochi mesi dopo la scoperta della tomba, ma a causa di una ferita mal curata dovuta a una puntura d’insetto.
La maledizione fu una sorta di trovata promozionale dell’epoca, dovuta anche al fatto che circolavano poche informazioni ufficiali per la stampa sull’andamento degli scavi nella valle dei Re. 
In media, i principali artefici della scoperta archeologica morirono a oltre 24 anni di distanza dall’apertura della tomba di Tutankhamon.




mercoledì 10 ottobre 2012

Sahara: Mauritania, la gente di Tichit.




Fondata intorno al 1150 d.C., un tempo Tichit aveva una popolazione stimata fra i seimila e i centomila abitanti.
Oggi il numero degli abitanti è sceso a circa cinquecento, dal momento che ogni anno sempre più famiglie se ne vanno e sempre più case vengono ricoperte dalla sabbia.
Tuttavia sono ancora visibili le divisioni etniche che racchiudono la complessità etnica della Mauritania.
Il gruppo più grande ed economicamente più attivo, che si definisce Masena, è concentrato nel lato sud della città, verso il moderno quartiere amministrativo.
Sono probabilmente discendenti delle popolazioni nere che vivevano in tutto il Sahara in epoche precedenti e più prospere, e che vennero spinte verso sud in oasi come quelle di Tichit e Oualata dall'espansione del deserto e dai Berberi.
Le ricche famiglie Masena avevano schiavi, noti come Abid o Ould Bella, e la maggior parte di questi decisero di mantenere il proprio tradizionale modo di vita anche dopo che vennero formalmente liberati, nel 1982, lavorando sei giorni alla settimana nei giardini o nelle case dei padroni in cambio del necessario per vivere.
Oggi gli Abid formano un gruppo separato a Tichit e vivono nel ghetto a est della città.
Molti si sono mescolati in qualche misura con i Mauri arabi di Tichit, il cui status di schiavi neri liberati si è affermato da più tempo e che continuano a godere di una posizione sociale superiore grazie alla loro religiosità e ai rapporti che intrattengono da lungo tempo con i Mauri Bidan.





I Mauri Bidan di Tichit sono chiamati Chorfa, titolo che indica la loro pretesa discendenza dal profeta Maometto.
Berberi arabizzati stabilitisi da queste parti nel IX secolo, i Chorfa erano originariamente parte del gruppo di popoli parlanti berbero chiamato Zenaga.
Sono concentrati nella parte nord di Tichit, intorno alla moschea dl XIV secolo.
L'ultimo gruppo è quello dei Rehian, beduini arabi nomadi che attraversano la città per vendere carne o per partecipare alla raccolta dei datteri.
Spostano le loro tende anche di 200 chilometri lungo la scarpata per seguire il bestiame al pascolo.
Nonostante questa complessità etno-linguistica, secondo i censimenti effettuati a Tichit, il 99% della popolazione è Maura, cioè parla Hassaniya, a causa forse della convinzione che dichiarare la propria appartenenza a qualsiasi altro gruppo etnico venga considerato politicamente sospetto.





Le Grandi scoperte: Il ritrovamento di un Neanderthal a Madrid potrebbe chiarire il mistero della loro estinzione.

 


Il Lozoya River Valley, nella catena montuosa di Madrid del Guadarrama, potrebbe essere facilmente chiamata "Valle Neanderthal", dice il paleontologo Juan Luis Arsuaga.
"E 'protetta da due catene di montagne, è ricca di fauna, è un luogo privilegiato dal punto di vista ambientale, ed è ideale per il Neanderthal, dato che ha fornito un ottimo terreno di caccia."
Questo non è solo una ipotesi: gli scienziati che lavorano sul posto a Pinilla del Valle, han trovato già nove denti di Neanderthal, resti di falò e migliaia di fossili di animali, tra cui alcuni da uri enormi (l'antenato dei bovini, ciascuna della lunghezza di due tori), rinoceronti e daini.
L'uomo di Neanderthal è una specie umana che è ben conosciuta ma sconosciuta allo stesso tempo. E 'ben nota, perché numerose vestigia sono stata trovata dal momento in cui hanno vissuto in Europa, tra 200.000 e 30.000 anni fa.
Ma è anche misteriosa a causa dei molti problemi irrisolti che continuano a saltar fuori, tra cui, in primo luogo: perché si sono estinti quando la nostra specie attuale ha fatto la sua comparsa sul continente?
Nessuno sa per certo se l'uomo di Neanderthal è stato in grado di parlare, o se hanno condiviso territorio con l'Homo sapiens, o se entrambe le specie si sono ignorate fino a quando uno, la nostra, ha proliferato, mentre l'altro si è perso per sempre ... Gli scienziati responsabili dei siti a Pinilla del Valle potrebbe fornire contributi significativi a trovare le risposte a queste ed altre domande sulla vita dei Neanderthal.
"Ci sono circa 15 siti in Spagna: nella Cordigliera Cantabrica, lungo la costa del Mediterraneo orientale o in Andalusia, ma nessuna è stato trovata in una pianura spagnola, dove non ci sono formazioni calcaree e grotte non adeguate per preservare i resti umani per migliaia di anni" aggiunge Arsuaga.
Ma Pinilla del Valle è un eccezione alla regola.






"Non c'è calcare qui E 'stato come un tappo di pietra in cui il Neanderthal presumibilmente si rifugiò per preparare la caccia, alle imbarcazioni i loro strumenti, a mangiare ... Non è che hanno vissuto dentro, nel senso di una casa.; vagavano nei campi, e questo è probabilmente più simile a un campo base per rifugiarsi quando ne avevano bisogno. "
È chiaro che il Neanderthal preso cura di loro morti in qualche modo
"Il sito, che ha un grande potenziale, si estende per circa 150 metri e stiamo lavorando in tre aree: la grotta di Camino, il rifugio di Navalmaillo e la grotta di Des-Cubierta, che coprono tre periodi di tempo diversi", spiega Enrique Baquedano, direttore del Museo Archeologico Regionale di Madrid.
Era al piano di Des-Cubierta che un Neanderthal deve aver messo il cadavere di un bambino di età compresa tra due anni e mezzo a tre anni di età. Hanno messo due lastre di pietra e un corno di bisonte sulla parte superiore.
Baquedano spiega che hanno trovato alcuni dei denti del bambino, lo chiamano una bambina, anche se non hanno alcuna prova scientifica del suo sesso, così come un pezzo di carbone che si è stato scoperto solo pochi giorni fa e che consentirà una datazione precisa.
"Sepolture complete, con una struttura chiara che permette ai ricercatori di ricostruire i comportamenti, è una cosa molto rara in qualsiasi parte del mondo", dice Arsuaga, che è anche co-direttore degli scavi nel sito principale preistorico di Atapuerca.
Migliaia di strumenti di pietra sono già stati trovati. "La migliore pietra per scolpire è la selce, ma non c'era in questo territorio, così hanno dovuto accontentarsi di quello che avevano a portata di mano.
Così hanno adattato la loro tecnica al quarzo.
" E peggiore della selce, ma funziona e rappresenta un adattamento mirabile tecnologico . "
E per quanto riguarda la caccia? "Hanno usato le lance di legno temperate con il fuocoe punte di quarzo."
"Qui, in questa valle così pieno di luoghi ricchi, siamo in grado di scoprire un sacco di cose sui Neanderthal, le loro vite e le loro morti, il loro clima, la loro tecnologia e la loro economia", conclude l'archeologo.
"E 'solo una questione di tempo."




martedì 9 ottobre 2012

Egitto: Erotismo e seduzione.

"Con i suoi capelli, lancia contro di me le sue reti; con i suoi occhi, mi fa prigioniero; con i suoi ornamenti, si fa padrona di me".
( Inizio delle parole d'incantesimo ).




Tra i piaceri della vita gli Egiziani comprendevano naturalmente il buon cibo, la musica e l'amore.
I banchetti raffigurati nelle decorazioni tombali sono popolati da uomini e donne vestiti di abiti di tessuti fini, quasi trasparenti, adorni di sontuose parures e recanti sul capo parrucche folte e ricciute, talora sormontate da coni profumati.
L'abbigliamento e il trucco costituivano un indubitabile fattore di attrazione erotica, e in particolare le parrucche femminili rivestivano un ruolo importante nel gioco della seduzione.
La sensualità pervade molti racconti di argomento mitologico, nell'interno anche di ribadire in modo rituale il potere fecondatore e rigenerativo di molte divinità, quali Amon, Min; Hathor e Iside.
In tale prospettiva va interpretato anche l'uso di introdurre nelle tombe bamboline in forma di donne nude, con attributi sessuali marcati; queste "concubine del defunto" avevano il preciso scopo di risvegliarne la virilità e la forza generatrice.
Tuttavia e immagini di argomento esplicitamente sessuale e osceno sono relativamente poche, limitate a un ambiente popolare e forse di destinazione apotropaica.
Non mancano però velati riferimenti all'intimità della coppia nelle raffigurazioni di feste, di caccia o di musica, accennati dalla sola presenza di dettagli, con valenze erotiche, quali i fiori di loto, i frutti della mandragola, i papaveri, gli strumenti musicali suonati dalle dame o i gioielli tipici del culto della dea dell'amore Hathor.







Scena di banchetto, dalla tomba di Nebamon a Tebe Ovest, XVIII dinastia, intonaco dipinto, h 76 cm, Londra, British Museum.


Uomini e donne si presentano vestiti di stoffe fini, hanno parrucche decorate da diademi floreali e profumate con coni di unguento ed esibiscono ricche parures.
Le feste e i banchetti erano occasioni mondane durante le quali le famiglie dell'alta società intrattenevano rapporti di amicizia; naturalmente, rappresentavano anche il momento adatto per esibire in pubblico i simboli del proprio status sociale: bellezza, ricchezza e potere.
Numerosi dettagli pervadono le scene di banchetto di un'atmosfera sensuale: gli abiti sono in genere succinti e pressoché trasparenti, mentre il trucco, le parrucche e i gioielli esaltano la femminilità e l'attrazione.



Scena dal Papiro Erotico, da Deir-el-Medina, XIX-XX dinastia. h 21 cm, Torino, Fondazione Museo Antichità Egizie.


Le raffigurazioni oscene sono piuttosto rare nell'arte egiziana, ma non mancano tuttavia scene di esplicito argomento erotico e sensuale.
Questi esempi, normalmente relegati nell'ambito dell'arte popolare, avevano un valore propiziatorio della fecondità.
Le ragazze portano sulla parrucca un fiore di loto, simbolo di rinascita e piacere, e sono vestite soltanto di una cintura.
Il papiro conservato a Torino ha piuttosto un carattere di satira e di caricatura iperbolica della realtà, che si nota in particolare nelle dimensioni esagerate dei falli a dai volti quasi felini degli uomini.




Natura: Lupo (Canis lupus).







Come la volpe, il lupo (canis lupus) possiede cinque dita negli arti inferiori, quarantadue denti e un muso allungato. 
Con il cane domestico, lo sciacallo, il coyote, ecc., il lupo costituisce il genere Canis, caratterizzato, rispetto alle volpi, da fronte più saliente, coda relativamente meno lunga e muso meno aguzzo. 
Il lupo misura da m. 1 a m.1,40 di lunghezza, più 30, 40 centimetri di coda. 
Il peso varia fra 30 e 80 chilogrammi e l'altezza al garrese può raggiungere il metro, però generalmente non supera i 75-80 centimetri. 
La coda è diritta e tenuta penzoloni. 
Gli orecchi appuntiti sono eretti, le pupille rotonde, il collo è robusto.
I possenti denti ferini presentano la forma tipica; i canini non sono molto lunghi, ma solidamente impiantati nelle mascelle; gli incisivi appaiono ben sviluppati. 
Il pelo varia molto sia nella qualità sia nel colore, a seconda delle regioni in cui vive l'animale. 
Il lupo matesino è grigio fulvo, misto a peli neri, più chiaro nella parte inferiore del corpo. 
Durante l'estate il mantello acquista riflessi rossi, che volgono al giallo in inverno. 
La conformazione del lupo, caratterizzata dal treno posteriore sfuggente e dalla forma speciale della gabbia toracica, gli conferisce la caratteristica andatura e lo rende atto alla corsa. 
Come nelle volpi, esiste all'attacco della coda del lupo una ghiandola odorifera, la cui secrezione e particolarmente intensa all'epoca della riproduzione. 








La tana deve essere situata vicino alle piste di caccia e, quando è possibile, costituire un buon punto di osservazione. 
Si tratta spesso di una vecchia tana di tasso o di volpe, o di una cavità ai piedi di un albero, tra grosse radici. 
Le femmine approntano sempre molte tane secondarie, che possono distare anche cinque chilometri dalla tana principale. 
In primavera e in estate, i lupi vivono generalmente soli o a coppie. 
In autunno la loro esistenza diviene familiare e, in inverno, si raggruppano in banchi più o meno numerosi. 
La vita del branco non è esente da rivalità e da lotte, ma i combattimenti non diventano mai cruenti; si tratta piuttosto di posizioni rituali: posizioni di minaccia, di sfida, di sottomissione, e così via, che hanno lo scopo di convalidare la posizione gerarchica di ogni individuo all'interno del branco. 
Quest'ultimo si scioglie alla fine dell'inverno, nel periodo degli amori. 
Sia che viva solitario o in coppia, sia che viva in branco, il lupo possiede un territorio di caccia che percorre in continuazione.
Tale territorio è costituito dalle piste degli altri animali, da sentieri o percorsi abbandonati e anche da strade, se sono poco frequentate. 






Il lupo non è un animale molto rapido. La sua velocità massima non supera i 50 km/h e non gli permette pertanto di ghermire in corsa le prede più veloci. 
In compenso ha una resistenza straordinaria. 
Caccia allora cercando di sfinire la preda, braccandola all'occorrenza anche nell'acqua, poiché è un buon nuotatore. 
Sono grandi mangiatori e sono in grado di consumare in un solo pasto sei kg di carne, la quale non deve necessariamente essere fresca: i lupi ricorrono sovente alle prede dei giorni precedenti. 
Hanno pertanto la tendenza, quando è possibile, di costituirsi delle riserve e di uccidere più animali di quanti ne possano mangiare. 
Benché preferiscano prede di grandi dimensioni, mangiano anche piccoli animali quali roditori, rettili, uccelli, pesci e persino larve ed insetti. 
Quando un lupo è solo o in coppia diventa prudente, paziente e molto più scaltro della volpe. 
Si conoscono numerosi casi di lupi che cacciano in coppia: uno dei due distrae il pastore e i cani, mentre l'altro sottrae una pecora isolata. 
La potenza delle mascelle e del treno anteriore permette al lupo di correre trasportando una pecora tra le fauci, ed è così resistente da percorrere alcune decine di chilometri. 






Il periodo degli amori dura da dicembre a febbraio. Dopo una gestazione di due mesi circa, in primavera, la lupa da alla luce da tre a sei lupacchiotti, eccezionalmente da otto a dieci. 
Il parto avviene nel folto di una macchia spinosa o di una foresta, in una specie di nido costruito con rametti ed erba secca, a cui la madre aggiunge il pelo strappato dal ventre per scoprire le mammelle. 
Questo nido è chiamato covo. 
I lupacchiotti nascono con gli occhi ancora chiusi e li aprono solo dopo una decina di giorni. 
Il loro sviluppo è dapprima lento, poi diviene molto rapido. 
Sono bestiole graziose, dagli occhi grandi e rotondi, ricoperte da uno spesso strato lanoso. 
La madre li svezza solo a due mesi. 

Per fare ciò, padre e madre iniziano con il rigurgitare della carne, per metà digerita e mescolata a saliva. 
Più tardi sospingono delle prede vive verso la tana, oppure le portano nelle fauci, al fine di insegnare ai piccoli a cacciare. 
I giovani lupi diventano adulti e atti alla riproduzione solo a tre anni, quando hanno già lasciato i genitori da lungo tempo. 
Teoricamente un lupo può vivere quanto un cane, cioè una quindicina di anni, ma ciò 

avviene molto raramente in natura.






lunedì 8 ottobre 2012

Australia: Survival per gli Aborigeni

In Australia vi sono circa 500 diversi popoli aborigeni, ciascuno con la propria identità linguistica e territoriale, e generalmente organizzati in clan distinti.
La loro terra è stata invasa a partire dalla fine del diciottesimo secolo, con conseguenze disastrose.



La terra è un elemento cruciale per gli Aborigeni, e intorno ad essa ruota tutta la loro esistenza materiale e spirituale. Prima della colonizzazione, la maggior parte degli Aborigeni abitava in comunità semi-stanziali lungo le coste, sostentandosi di agricoltura e dell’allevamento di pesci e animali.




Gli Aborigeni che popolavano invece il bush o il deserto dell’entroterra vivevano di caccia e di raccolta. 
Bruciavano le sterpaglie per favorire la crescita delle piante preferite dalle loro prede ed erano molto esperti nella ricerca dell’acqua.
Oggi, piú della metà degli Aborigeni risiede nelle città, spesso condizioni terribili nelle periferie più degradate. 
Molti lavorano come braccianti in quelle stesse fattorie che hanno occupato le loro terre ancestrali ma altri, soprattutto nella parte settentrionale del continente, rimangono radicati nelle loro terre e vivono ancora di caccia e raccolta.


 

Gli Aborigeni sono stati derubati delle loro terre sin dai primi anni della colonizzazione britannica. Il principio giuridico che regolava la questione indigena nella legislazione inglese e, pertanto, anche in quella australiana, era quello della "terra nullius": un principio che definiva la terra australiana prima dell’arrivo dei Britannici come una terra vuota, una terra di nessuno che, pertanto, poteva essere legittimamente occupata dai coloni.




Il principio è rimasto legalmente in vigore fino al 1992 e, oggi, gli Aborigeni stanno ancora aspettando la restituzione della maggior parte delle loro terre.
Il furto e la distruzione dei territori ancestrali hanno avuto su di loro un impatto sociale e fisico devastante. 
Le prime invasioni portarono con sé epidemie che sterminarono migliaia di Aborigeni, mentre molti altri furono massacrati per mano dei coloni.
Nell’arco di un solo secolo dall’arrivo dei colonizzatori, la popolazione aborigena si ridusse da un numero presunto di almeno un milione di persone a soli 60.000 individui.
Nel corso del ventesimo secolo, allo sterminio diretto si è sostituita una politica brutale, volta a togliere i bambini aborigeni ai loro genitori, per affidarli alle famiglie dei bianchi o ai collegi dei missionari, con l’obiettivo di sradicare ogni traccia della loro cultura e della loro lingua.
La "generazione rubata", così come gli Aborigeni stessi la definiscono, rimane una ferita aperta nel cuore di tutto il popolo aborigeno.
Gli Aborigeni sono ancora oggi oggetto di razzismo e violenze, e molti di loro vivono in condizioni disumane. 
Di conseguenza, soffrono un tasso di suicidi e mortalità infantile molto superiori a quelli del resto della popolazione, e hanno un’aspettativa di vita molto più bassa; inoltre, il numero degli Aborigeni in carcere è altissimo.
Nonostante l’abolizione del principio razzista della "terra nullius" avvenuta nel 1992, il governo australiano continua a fare di tutto per ostacolare le rivendicazioni territoriali degli Aborigeni.
Ciò nonostante, alcune tribù come quella dei Martu dell’Australia occidentale, sono finalmente riuscite a farsi riconoscere i diritti di proprietà sulle loro terre.


 

Survival ha raccolto fondi per alcuni progetti che aiutano gli Aborigeni a lasciare le città per ritornare nelle loro terre. Sosteniamo inoltre le cause che gli Aborigeni portano nei tribunali e in parlamento per vedersi riconoscere i titoli di proprietà delle loro terre in virtù del "Native Title" (Titolo Nativo).
Survival ha anche dato il proprio sostegno alla campagna condotta dai Mirrar nei Territori del Nord contro l’apertura di una miniera di uranio sulla loro terra sacra: la campagna ha avuto successo e la compagnia mineraria ha per ora rinunciato al suo progetto.



 
 
 

India: Dalle origini ai Moghul, lingue.


"Io spiro come il vento, impossessandomi di tutti gli esseri. Con la mia grandezza ho varcato i confini del cielo e di questa terra"
( Rgvega, Autoelogio della Parola ).





A tutt'oggi sono 22 le lingue ufficialmente riconosciute nel Sub-continente, ma 24 sono quelle con oltre un milione di parlanti e più di duecento superano i 10.000.
La maggioranza delle lingue può essere suddivisa, in base all'origine, in due grandi gruppi:
quelle appartenenti al ramo indo-ario della famiglia indoeuropea, e quelle appartenenti alla famiglia gravidica.
Il primo gruppo comprende, storicamente, la lingua vedica, evolutasi poi nel sanscrito classico fissato dal grammarico Panini ( VI secolo a.C. ); e i pracriti, ovvero le lingue vernacolari dalle quali sarebbero derivate le lingue vernacolari dalle quali sarebbero derivate le lingue indù-arie odierne parlate nel Subcontinente.
Queste ultime sono: hindi, urdu ( lingua ufficiale nel Pakistan ), panjabi, bengali, gujarati, marathi, nepali e singalese.
Altre lingue indoiraniche sono  il pashto e il farsi ( persiano ) che fu lingua di corte e di cultura in epoca moghul.
La famiglia gravidica, di cui fanno parte il tamil e il telegù è presente nell'India meridionale e centro-meridionale, e riunisce circa un terzo dei parlanti del Subcontinente.
Sono inoltre presenti lingue appartenenti alle famiglie tibeto-birmane, sino-siamese e mundakhmer, in territori di limitata estensione.
Oggi le lingue ufficiali della Repubblica Indiana sono l'hindi e l'inglese.