sabato 6 ottobre 2012

Pianeta scimmia: Dian Fossey e i gorilla di montagna.

Pianeta scimmia: Dian Fossey.





Le intrusioni umane assillavano la ricercatrice Dian Fossey, una contempotarea della Goodall che lavorava tra i Monti Virunga, nell'Africa Centrale.
Al pari della Goodall, la Fossey, una terapista di professione, che si occupava di bambini, non aveva alcuna esperienza precedente di lavoro sul campo.
Dian Fossey desiderava lavorare con gli animali, e fu Louis Leakey a offrirgliene la possibilità.
Volendo avviare uno studio prolungato sui gorilla, i più grossi primati, Leakey si diede subito da fare per assicurarle il supporto da parte della Society e, alla fine, riuscì anche a organizzarle un periodo di studio a Cambridge per ottenere il dottorato.
Nel 1967, la Fossey installò il suo accampamento su un freddo e nebbioso vulcano nella Repubblica Democratica del Congo.






Pochi mesi dopo, tuttavia, a causa di disordini politici fu costretta a spostarsi al di la del confine, in Rwanda, e a ricominciare da capo tra le ampie radure paludose del Parco Nazionale dei Vulcani, che divenne la sua casa per i successivi diciott'anni.
Lì fondò il centro di ricerche Karisoke, le cui capanne di lamiera continuamente battuta dalla pioggia avrebbero attirato studenti, scienziati e all'aumentare della fama della Fossey, troupe cinematografiche e giornalisti di tutto il mondo.
Le meticolose e dettagliate osservazioni ricavate in tanti anni di studio dalla Fossey avrebbero fruttato una conoscenza accurata e approfondita sui gorilla di montagna, una specie più numerosa e perfino più riservata di quella dei gorilla di pianura.
La Fossey considerava i gorilla "le creature più diffamate della Terra" e lottò per mostrare al mondo un vegetariano gentile e intelligente, totalmente diverso dal King Kong senza cervello che si batteva il petto rappresentato sugli schermi.
Prima del lavoro della Fossey, una tra le cause della scarsità di informazioni accurate su questi esseri risiedeva nella loro innata timidezza.
A Karisoke, questa ritrosia si univa a un giustificato timore verso i bracconieri.
Per far abituare i gorilla alla sua presenza, la Fossey rifiutò "le istruzioni dei testi...cioè: sedersi e osservare".
Al contrario, ebbe successo cominciando ad agire esattamente come i gorilla, quando si trovava in loro presenza, ripulendosi e grattandosi, sgranocchiando sedano selvatico, battendosi il petto e ruttando rumorosamente.
Raffinò anche i suoi vocalizzi, imparando da alcuni piccoli gorilla in cattività portati al suo campo.





Non appena i gorilla cominciarono a rilassarsi intorno a lei, la Fossey si diede da fare a tracciarne gli alberi genealogici, e arrivò a contare oltre duecento individui in quasi tre dozzine di gruppi "fluidi", ognuno dei quali era tenuto insieme da un maschio dal dorso argentato.
I gruppi rappresentavano comunità molto complesse, caratterizzate da ordinamenti instabili, trasferimenti da un gruppo all'altro, profondi legami affettivi e, occasionalmente, brutalità e infanticidi.
Eppure la Fossey ebbe modo di osservare spesso maschi adulti molto affettuosi e premurosi verso i più giovani, come quando vide, addirittura, un esemplare solleticare un compagno con un fiore.
I gorilla, imparò tragicamente la Fossey, combattono con ferocia per proteggere i membri della loro comunità.
Un solo tentativo di catturare un loro piccolo per uno zoo o per un parco può significare la morte di molti altri.





Alla vigilia del 1977, il gorilla chiamato dalla Fossey "il mio caro Digit" cercò di resistere a sei cacciatori e ai loro cani, in cui si era imbattuto con il suo gruppo mentre gli uomini ispezionavano le trappole che avevano allestito per catturare le antilopi.
Tredici esemplari del gruppo fuggirono, ma l'arrabbiatissimo Digit fu ferito mortalmente nella lotta.
In una scena finale di crudeltà spaventosa, gli assassini amputarono la testa e le mani di Digit, per i collezionisti di curiosità. ( li chiamo così...o anche collezionisti del cazzo! ).
"Da quel momento in avanti", scrisse più tardi la Fossey, "mi ritirai a vivere in una parte isolata di me stessa".
Digit tuttavia fu solo una delle molte vittime dei cacciatori: molti altri gorilla morirono a causa dell'infettarsi delle ferite provocate da trappole per antilopi.
Nel 1981, la popolazione dei gorilla di montagna del Virunga era scesa ad appena 239 individui.








La Fossey si dedicò con sempre maggior impegno a liberare Karisoke dai cacciatori di antilopi e dai mandriani, il cui bestiame rovinava inesorabilmente l'habitat dei gorilla nella foresta pluviale, ogni giorno più esiguo.
I suoi collaboratori arrivarono a rimuovere fino a 2000 trappole in un solo anno, il 1984, liberando molti gorilla rimasti bloccati.
Per la fine dell'anno seguente, poco prima di morire, la Fossey ebbe la soddisfazione di vedere le trappole illegali quai completamente eliminate, anche se nella zona si aggiravano diversi bracconieri: Questi però cacciando con l'arco, risparmiavano i gorilla.
La Fossey perseguì i cacciatori di frodo in prima persona.
Le tattiche non la interessavano: la sopravvivenza dei gorilla di montagna, esposti al rischio di estinzione, rappresentava tutto per lei.






Nel dicembre del 1985, un ignoto assassino, l'omicidio è tuttora insoluto, penetrò nella baracca della Fossey e le inferse sei colpi mortali al capo con un machete.
La ricercatrice fu sepolta tra le tombe dei gorilla assassinati come lei: una sessantina di persone scalò le pendici del vulcano e affrontò la foresta per partecipare al suo funerale.
Nel 1989, anno in cui venne effettuato l'ultimo censimento, il numero dei gorilla di montagna era salito a 310 individui.









venerdì 5 ottobre 2012

Racconti di viaggio: Patagonia, uomini e puma.

Patagonia: uomini e puma.
La storia della difficile convivenza tra i colonizzatori di questa terra estrema e il felino simbolo della Patagonia.
Per recinti e fucili rischiano l'estinzione anche "pudù" e "Huemules", mentre le balene della penisola di Valdes sono ormai "monumenti naturali" intoccabili.




A destra c'è solo l'erba e vento, a sinistra pure; davanti e dietro è lo stesso, a perdita d'occhio.
Poi d'improvviso ecco una casa di legno niente male in arnese, con un'insegna: "La Leona".
E' un caffè sperduto nel sud est della provincia di Santa Cruz: insomma nella pampa profonda, dove telefoni ed elettricità non sono mai arrivati.
L'estancia più vicina (la Silesia) è 16 kilometri più a nord, il villaggio meno lontano ( Charles Fuhr) 84 in direzione sud.
Quel caffè isolato dal mondo è gestito da una trentenne che vive laggiù tutta sola : si chiama Irma Westerlung ed è finlandese.
ora non pensate che "La Leona" sia riferito a Irma, donna coraggiosa e solitaria come i leones, cioè i puma che vivono sulle Ande.
Se il caffè si chiama così è in onore di un puma vero: una femmina che nel lontano 1916 s'imbattè da quelle parti in un esploratore dal nome leggendario, Perito Moreno, e lo aggredì.
Nel confronto l'animale perse la vita ma guadagnò fama eterna: prima che al caffè, quel nome fu dato a un vicino fiume, che taglia pigramente la steppa e va a gettarsi nel  Lago Argentino, proprio come un celebre ghiacciaio che ( ironia della sorte) si chiama Perito Moreno.




Ogni tanto qualche puma passa ancora nei pressi del caffè di Irma: "Io non ne ho mai visti, ma un allevatore ha trovato delle orme non lontano da qui", racconta lei.
Incontri simili sono comunque rari, perchè i leones non sono stupidi: hanno imparato in fretta che dall'uomo è meglio stare alla larga; così preferiscono cacciare nei fitti boschi andini, rifugio degli huemules, i tipici cervi patagonici, o nelle steppe più remote, che pullulano di guanachi, cugini selvatici dei lama.
Cervi e guanachi sono prede più facili dei bovini, dunque non vale la pena di rischiare la vita avvicinandosi alle estancias.
Ma questo vale solo d'estate, d'inverno, quando cade la neve e la caccia diventa difficile, i leones attaccano anche le mandrie, dice Tonci Kusanovic, allevatore di ascendenza croata che dirige La Angostura, un'estancia sul Rio Chico, 180 kilometri a nord del Rio Leona.
Tonci apre una vecchia stalla e indica una trave da cui prende una pelle di puma.
Ma il Leon non è una specie protetta?, "si, però se un esemplare uccide 40 capi di bestiame può essere eliminato", si autoassolve.





Chissà se il puma della trave era veramente un serial killer o se ha pagato le imprese di una intera tribù di congeneri...
Le storie di uomini e puma che la provincia di Santa Cruz può narrare sono molte.
E tutte dicono la stessa verità: far convivere la fauna selvatica con l'uomo bianco è difficile.
Due secoli fa il problema non esisteva, perchè in Patagonia vivevano solo popolazioni indigene che con la natura locale avevano un rapporto diverso rispetto a quelli dei coloni arrivati dal Nord.
Certo: anche loro cacciavano, ma con armi meno micidiali dei fucili; e soprattutto non avevano mandrie da difendere, nè usavano tagliare la steppa con reti di filo spinato per ricavarne terre private, vietate a puma, volpi e guanachi.
Se la fauna in Patagonia abbia sofferto  più per i fucili, i recinti di confine o la concorrenza alimentare del bestiame domestico, è tutto da vedere; certamente è colpa delle armi da fuoco se gli huemules, un tempo numerosi, oggi sono a rischio di estinzione.




Idem dicasi dei pudù, cervi nani che sopravvivono solo in qualche area protetta.
Intendiamoci, di sicuro i guanachi non sono nelle condizioni drammatiche dei pudu e degli huemules: viaggiando in auto in Patagonia se ne vedono a centinaia, dalle valli cilene alle coste dell'Atlantico.
Ma è indubbio che le grandi ganaderìas ( allevamenti allo stato brado ) abbiano fatalmente sottratto spazio ai "lama selvatici".
E ciò  ha avuto effetti a catena, compreso il fatto che i puma attacchino il bestiame.
Infatti il filo spinato può fermare i grandi erbivori ma non i leones, che una volta entrati nei latifondi cacciano ciò che trovano.
E in mancanza di guanachi, ripiegano sulle mucche.
Finora questa rivoluzione ambientale ha fatto poche vittime: ufficialmente l'elenco degli animali estinti negli ultimi 200 anni comprende solo un coleottero acquatico in Cile e una lucertola in Argentina.
Molte di più sono però le specie che potrebbero finire male nel prossimo futuro: l'Iucn, l'Istituto scentifico che sta alle spalle del Wwf, ritiene a rischio più o meno grave 311 tra animali e vegetali in Cile e 407 in Argentina.
E c'è chi è ancora più pessimista: la Foundacion Vida Silvestre, un club protezionista di Buenos Aires, afferma che le specie in pericolo in Argentina non sono 407 ma 779.





Consola poco sapere che questi dati non si riferiscono alla sola Patagonia ma all'intero territorio dei due Paesi.
Eppure nonostante questo quadro preoccupante, la Patagonia resta ( in tandem con la Terra del Fuoco ) una delle più grandi riserve faunistiche della Terra.
E' logico: qui, l'invasione umana è arrivata tardi, quindi la natura è rimasta integra più a lungo; inoltre l'estrema varietà di habitat ha spinto la fauna a evolversi per mille strade diverse.
Morale: in Patagonia vivono nutrie, colibrì e armadilli come in tutto il Sudamerica, ma anche marsupiali come in Australia ( l'opossum cileno è il  monito de monte, lontani parenti dei canguri ma piccoli come ghiri ) e un'armata di canidi selvatici variegata come in Africa.
Questa biodiversità raggiunge punte estreme tra gli uccelli.
In ogni habitat la Patagonia conta, oltre a rappresentanti generici, anche autentici primatisti: qui vivono per esempio l'uccello nuotatore, il rapace e il volatore d'alto mare più grandi del mondo, cioè il pinguino imperatore, il condor e l'albatro reale, signori di ambienti diversissimi fra di loro, come le terre sub polari, le Ande e gli oceani.







Punto Tombo ricorda quanto sia vicina L'Antartide, che dei pinguini è la patria d'eccellenza: fra la Terra del Fuoco e la Penisola di Palmer, avamposto del continente di ghiaccio, corrono solo mille kilometri.
Per questo motivo, quando l'inverno antartico rende inabitabili le latitudini estreme, gli animali si spostano verso nord.
Attenzione particolare meritano le balene, che nelle acque argentine hanno il loro "palazzo d'inverno" preferito: dei 7000 esemplari che la franca australe conta nel mondo, 2500 incrociano stagionalmente al largo della Penisola di Valdes, dove si riproducono e sono diventate da tempo una redditizia attrazione turistica.
Tutti protetti, tutti monumenti anche se si tratta di ben strani monumenti, che si spostano di continuo.




Il puma invece non è ( ancora ) incluso tra i "monumenti": gli allevatori lo odiano, i montanari andini lo temono: quindi la tutela assoluta del predatore riuscirebbe impopolare.
"Eppure da noi il leon non attacca mai l'uomo: i rarissimi incontri si risolvono sempre con la fuga dell'animale" giura Adrian Falcone, guardia del Parco Los Glaciares, una delle poche aree-rifugio dove il felino può tuttora cacciare in pace.
Chissà, forse un giorno uomini e puma  riusciranno a convivere: come del resto fanno già le acque del Rio Leona e del ghiacciaio Perito Moreno, che si mescolano nello stesso lago.





Trovato un piccolo dinosauro con zanne da vampiro.


Un dinosauro minuscolo, ma con zanne acuminate degne di un vampiro, con le quali divorava... solo piante, probabilmente.
Questo almeno è ciò che emerge dalla ricerca sui resti fossili di Pegomastax africanus, un eterodontosauro ("rettile dai denti diversi") lungo circa 60 centimetri vissuto attorno a 200 milioni di anni fa.
Heterodontosaurus era un genere cui appartenevano varie specie di piccoli dinosauri dai denti acuminati che "trotterellavano fra le zampe di altre creature più grandi all'alba dell'era dei dinosauri", dice l'autore della scoperta Paul Sereno, explorer-in-residence della National Geographic Society.




Coperto da aculei simili a quelli dell'istrice e munito di un bel becco da pappagallo, P. africanus probabilmente aveva l'aspetto di un "bizzarro uccellino", dice Sereno, paleontologo della University of Chicago.
La sua dentatura, ipotizza Sereno, somigliava molto a quella di un pecari o di uno iemosco acquatico, moderni mammiferi erbivori che usano i denti acuminati per difesa o per nutrirsi.
La specie, aggiunge lo studioso, viveva lungo le sponde alberate dei fiumi dell'Africa del sud all'epoca in cui il supercontinente Pangaea stava iniziando a separarsi fra masse terrestri settentrionali e meridionali.
Sereno ha identificato la nuova specie mentre preparava uno studio comprensivo sugli eterodonti grazie a fossili custoditi fin dagli anni Sessanta presso la Harvard University.
Per scoprire quale funzione avessero i denti affilati del dinosauro, Sereno ha riassemblato la mascella e la dentatura di P. africanus.
Poi ha messo a confronto la sua ricostruzione con le stesse ossa di dinosauri carnivori e di erbivori moderni dai denti acuminati. 

Ha scoperto così una maggior corrispondenza di questa caratteristica di P. africanus con quelle degli attuali mammiferi, un'evidenza confermata dall'analisi al microscopio dei segni di erosione.
Il ricercatore ipotizza anche nello studio, pubblicato sulla rivista ZooKeys, che i molari superiori e inferiori dell'animale funzionassero come delle "forbici auto-affilanti" per tagliare parti di piante.
Un piccolo dinosauro molto avanzato
Trovare una nuova specie di eterodontosauro "non è una notizia sensazionale", dice Hans-Dieter Sues, paleontologo del National Museum of Natural History di Washington, D.C.
"Ciò che rende veramente importante il contributo di Sereno è il suo studio esaustivo di questi piccoli dinosauri".
In particolare, Sues (che non ha preso parte allo studio) si dice colpito da come Sereno "sia riuscito a capire come masticassero il cibo, il che contribuisce a spiegare la loro particolare dentatura".
Non solo; secondo Sereno, la sofisticata struttura mandibolare di P. africanus era molto avanzata: caratteristiche simili si sarebbero evolute solo milioni di anni dopo nei mammiferi.
Se questo dinosauro grande come un gatto fosse vissuto oggi "sarebbe stato un grazioso animaletto da avere per casa", scherza Sereno; "certo, bisognava insegnargli a non mordicchiare".






Africa Australe: Namibia, acconciature Himba.

Africa Australe:  Namibia, acconciature Himba.




Bisogna spingersi su a Nord, nella spettacolare e isolata regione del Kaokoland, per poter incontrare gli Himba, magnifica popolazione nomade che vive in comunità isolate nelle valli remote.
Gli Himba si spostano seguendo la scarsa pioggia, alla ricerca di foraggio per il loro bestiame:più precisamente, questo compito è demandato agli uomini, mentre alle donne è affidata la cura del villaggio.
Ogni insediamento Himba (onganda) è composto da più capanne (ondjuwo) edificate con rami e rivestite di terra impastata e lisciata con orina animale, disposte attorno ad un kraal centrale.

Le tribù sono organizzate in clan con linea gerarchica femminile (omaanda), ed a capo di ogni onganda c'è una matriarca.


 
 

La struttura sociale è estremamente complessa: ogni bambino Himba appartiene sia ad un clan patrilineare (oruzu) che ad uno matrilineare (eanda): ogni clan discende da un antenato comune, il cui mito è all'origine del clan stesso, ed ha i propri tabù, che riguardano il divieto di mangiare la carne di un determinato animale o la proibizione per le donne mestruate di mungere le vacche.
Grande importanza nella cultura Himba riveste la cura dei capelli e l'acconciatura.

I giovani maschi portano i capelli rasati con un solo ciuffo in mezzo alla testa: il ciuffo viene lasciato crescere con l'età e viene pettinato all'indietro in un'unica treccia (ondatu): raggiunta l'età del matrimonio (a circa 25 anni), i capelli vengono divisi in due trecce (ozondatu).
Quando poi il giovane si sposa deve sempre nascondere i capelli con un berretto (ozondumbu) che si può togliere solo quando dorme ed in caso di lutto.




Le giovani, invece, si fanno crescere i capelli che pettinano in due trecce rivolte in avanti, finchè, con la pubertà, possono sciogliere i capelli in tante trecce: da questo momento, possono avere rapporti sessuali. I capelli ed il corpo delle donne vengono spalmati di grasso e di ocra ed altre erbe aromatiche.
Le acconciature delle donne sono molto particolari e indicano lo stato sociale: come detto, le due trecce sono riservate alle giovani, mentre le trecce cosparse di grasso ed ocra sono delle donne mature: la donna sposata aggiunge in testa un ciuffo di pelle di antilope (omarembe) che rivolta quando è vedova, e porta una conchiglia (ozohumba) fra i seni, proveniente dai mari dell'Angola e considerato un simbolo di fertilità.
In particolare, questa straordinaria collana a doppio contrappeso dorsale (non ha equivalenti nel continente africano) attira lo sguardo del visitatore e può essere considerata l'icona del popolo Himba e, per estensione, della Namibia.




Le acconciature costituiscono spesso delle complesse architetture ottenute modellando i propri capelli con l'ausilio di pettini, burro, olio, terra, polvere di legno di cam.
Talvolta l'acconciatura è sostenuta da impalcatute di legno, bambù o intrecci di vimini.
All'effetto complessivo può concorrere anche l'applicazione di vari elementi decorativi come campanelle, conchiglie, semi o gioielli in ambra, argento, oro e avorio.




Diversamente da quanto avviene oggi nelle città africane, in passato il parucchiere non costituiva una professione a sè stante perchè l'affidare la propria testa a un estraneo comportava gravi rischi per la propria incolumità, il pericolo di malefici: l'agire sui capelli di qualcuno può servire ad impossessarsi della sua persona.
Per questo motivo si riccorreva a parenti stretti e amici fidati.




giovedì 4 ottobre 2012

Egitto: Religione e scienza. Amon.

Egitto: Religione e scienza, Amon.






La storia religiosa che ha condotto Amon a diventare la divinità suprema del pantheon egiziano risale molto indietro nel tempo.
In origine, infatti, Amon era una divinità guerriera venerata nell'area tebana, nell'Alto Egitto, ed elevata a divinità principale della regione quando, durante il I periodo Intermedio, la dinastia locale iniziò a confrontarsi con gli altri potentati in cui era diviso all'epoca il Paese.
Quando la casata tebana riuscì ad imporsi, Amon divenne il dio tutelare della regalità e, non a caso, alcuni faraoni della XII dinastia iniziarono a portare il nome di Amenemhat ("Amon è alla testa"), composto con il nome del dio.
Il ruolo di Amon si accrebbe quando la XVIII dinastia spostò la capitale del paese a Tebe, sua sede culturale originaria.
Le prerogative già acquisite in passato dal dio vennero amplificate fino a porsi al di sopra di tutte le altre divinità, mentre il suo tempio e il suo clero si avviarono a diventare la più potente e grande istituzione religiosa che mai l'Egitto avesse conosciuto.





Il clero di Amon assimilò inoltre elementi solari di origine eliopolitana, in modo da poter conferire al dio anche un carattere cosmico e demiurgico, secondo la tradizione tracciata già dalle altre grandi divinità nazionali.
Emerse così la figura sincretistica di Amon-Ra, re di tutti gli dei, sorgente stessa della regalità e della potenza guerriera del faraone, sposo della dea Mut e padre del giovane dio Knonsu, con i quali formava la Triade tebana.





Statua di Amon che protegge Tutankhamon, XVIII dinastia, granito nero, h 220 cm, Parigi, Musèe du Louvre.


Questa splendida statua di granito nero raffigura il dio Amon-Ra assiso sul trono e con le mani poste sulle spalle di una piccola statua antistante, in segno di protezione.
Il volto è giovanile e comunica freschezza e serenità.
La statua di Tutankhamon è priva della testa, ma siamo ugualmente in grado di identificarla grazie alle iscrizioni geroglifiche, su di essa incise, che restituiscono il nome.




Il dio Amon viene spesso raffigurato come un ariete, animale a lui sacro.
Sembra che il dio abbia acquistato questa iconografia quando il suo culto si propagò in Nubia.
Amon è raffigurato nella forma di un ariete che protegge tra le sua zampe Amenhotep III.
La tipologia della statua è quella intesa a raffigurare la divinità che accorda il suo favore e la sua protezione al faraone.
Si possono rintracciare i prodromi di questa modalità di rappresentazione nella celebre statua di Chefren, per giungere alle statue dell'epoca di Nectanebo II, che raffigurano l'Horo pa Bik ("il falcone") che protegge il faraone tra le sue zampe.
E' verosimile che questa statua sia stata realizzata per il tempio di Amenhotep III fece edificare in Nubia, a Soleb, e che solo in tempi successivi sia stata portata a Tebe.






Luoghi: Kangaroo Island, Australia.

Kangaroo Island: Il tropico del canguro.





Un viaggio alla scoperta della Kangoroo Island, un'isola con venti riserve naturali, spiagge deserte, dune altissime, foreste e labirinti di rocce dove si fanno incontri ravvicinati con koala, pinguini, marsupiali e otarie.
Dormendo nei fari e in dimore storiche, pescando aragoste e facendo surf nel mare color cobalto.
A mezzora di volo la vivacissima Adelaide, ricca di musei e gallerie, è la base di partenza per la Borossa Valley: un angolo verde di Mitteleuropa dove i discendenti dei pionieri producono i vini più pregiati del Pacifico.





Secondo la rivista francese l'Express, è uno dei ultimi paradisi non perduti della terra.
Un'oasi di natura felice, con una ventina di parchi protetti, foreste, spiagge bianchissime e scogliere su cui, però da anni puntano gli occhi le immobiliari di tutto il mondo, nella speranza di colonizzare il paradiso.
Poi, però, è arrivato l'annuncio che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai 4000 abitanti di Kangaroo Island, al largo della costa meridionale australiana; sull'isola, per ora, non si può costruire nemmeno un cottage in più.
L'isola dei canguri è quindi da scoprire subito, se si vogliono fare incontri ravvicinati con un esercito di marsupiali, otarie, foche neozelandesi, koala e ornitorinchi.
Per passeggiare lungo spiagge deserte tra dune di sabbia bianchissima e mare blu indaco.
Per dormire in bed & breakfast storici o nel cottage dei guardiani del faro.
Dopo il relax marino sull'isola si torna sulla terraferma, per inoltrarsi tra le fattorie della Barossa Valley, dove si produce il miglior vino locale, sostando qualche giorno ad Adelaide, una delle più vivaci città australiane.







Nel 1802, quando i primi occidentali, il capitano inglese Matthew Flinders e i suoi uomini, sbarcarono, Kangaroo Island era disabitata da millenni.
A parte i canguri, che si muovevano senza timore intorno ai marinai.
Quasi due secoli dopo Kangaroo Island, la terza isola dell'Australia per estensione, dopo la Tasmania e Melville Island, ospita un'infinità di canguri, wallaby, opossum, e altri animali ormai rarissimi.
Questo perché l'isola si è staccata dal continente circa 10 mila anni fa ed è rimasta disabitata per gli ultimi duemila: così piante e animali estinti in altri parti del mondo qui continuano a vivere al riparo da parassiti ed inquinamento.
Proprio per le sue caratteristiche, negli anni venti, Kangaroo Island fu scelta per istituire il primo parco nazionale dell'Australia e oggi il 70 per cento della superficie è area protetta.
Eppure solo uno stretto braccio di mare lungo 16 chilometri la separa dal resto del continente: una traversata di poco più di un'ora o un volo di trenta minuti dalla città di Adelaide.







Arrivare sull'isola, soprattutto dopo l'imbrunire, è emozionante: ai bordi della strada, delimitata dai profili argentei degli alberi, brillano tanti puntini rossi in continuo movimento che a un tratto si materializzano davanti alla luce dei fari.
Un cangurino alle prime armi saltella dietro la madre, opossum dalle folte code e altre creature notturne sbucano all'improvviso dai cespugli per cimentarsi nell'attività più rischiosa dell'isola: raggiungere l'altro capo della strada.
Chi si mette al volante lungo i 1600 chilometri tra strade e piste dell'isola è avvertito: qui la precedenza spetta sempre agli animali.





A qualche passo dal paese, la spiaggia di Penneshaw è una delle più sicure per nuotare, mentre il molo di Hog Bay è il preferito dei pescatori.
I Fairy Penguins, una varietà di piccoli pinguini che nidificano tra dune e scogli, è l'unica specie che vive e si riproduce in acque australiane, attendendo il calar del sole prima di ritornare in spiaggia e arrivare alla spicciolata a ogni ora della notte.
Puntualmente attesa da gruppetti di turisti scortati dalle guide, appostati tra il molo e l'insenatura di Christmas Cove.
Per fortuna l'uso dei flash che disturberebbe gli animali è vietatissimo.
A circa venti kilometri da Penneshaw, oltre la foce del Chapman River,  appare la lunga striscia di sabbia di Antechamber Bay, orlata da dune e punteggiata di zona d'ombra per pic nic.
Poco più a est, si erge il primo faro costruito nell'Australia del Sud, quello di Cape Willoughby, completato nel 1852.
Qui la costa si fa più selvaggia, scoscesa e impervia.
Dal faro un sentiero porta fino alla Windmill Beach, una spiaggia di ciottoli tondi e levigati dalla marea.







La strada principale che conduce a Kingscote è dominata dal profilo del monte Thisby che il capitano Flinders chiamò Prospect Hill.
Nelle giornate più limpide vale la pena di arrampicarsi per 512 gradini fino in cima.
E godersi la vista del monte Lofty, alle spalle di Adelaide e, verso l'interno dell'isola oltre Pelican Lagoon, di Pennington Bay amata dai surfisti più audaci che sfidano le sue correnti.
Da questa riva ci vogliono 5000 chilometri prima d'incontrare la terraferma: i ghiacci dell'Antartico.
American River, nell'omonima baia, si affaccia invece su un braccio interno di mare color cobalto orlato da una fitta vegetazione e solcato da pescherecci con le immancabili scie di pellicani al seguito del loro carico di granchi, salmoni, whiting, snook e garfish.
E' il pesce che figura tutti i giorni nel menù del Mattew Flinders Terraces Motel, un albergo di charme a terrazze, con miniappartamenti, vista a 180 gradi che spazia da Pelican Lagoon a Eastern Cove, terrazza panoramica e sauna all'aperto nel rigoglioso giardino.






Tutta la parte occidentale è occupata dal Flinders Chase National Park, un'immensa macchia di quasi 74.000 ettari, il primo tra i venti parchi naturali dell'isola e anche uno tra i più ampi dell'intero continente.
Qui crescono circa 400 tra le 700 piante endemiche dell'isola ( e 50 di orchidee ), vivono liberi wallaby e canguri, iguana, echidne ( animali molto simili agli istrici ), ornitorinchi, koala.
La zona di Rocky River è perfetta per gli incontri ravvicinati: i koala sono come sempre appollaiati sugli alberi; per avvistare l'ornitorinco si deve arrivare alla mattina presto o nel tardo pomeriggio.
Ma un incontro quasi assicurato è con i piccoli canguri e i tammar wallaby che vivono soltanto sull'isola, bestiole dagli occhi teneri e curiosi, che fanno capolino dal folto della vegetazione e si avvicinano con fiducia.
Attraverso l'apertura di Admiral Arch, un arco naturale di roccia vicino al faro di Cape de Couèdic, si possono osservare le foche da pelliccia neozelandesi divertirsi nelle pozze d'acqua, tra spruzzi di spuma.
E' scolpita nel vento e dall'acqua la spettacolare Remarkable Rocks, meta purtroppo anche di tutti i torpedoni.







Sulla punta di Cape Borda, una delle parti più remote dell'isola ( si raggiunge dalla Playford) sorge un faro squadrato con annesso un piccolo museo marittimo, che offre anche un'originale sistemazione.
E' il cottage dei guardiani, per sei persone, spartano ma suggestivo come quelli di Cape Willoughby, Rock River, Cape de Couèdic che si affittano tramite il National Park and Wildlife Service.
Passata  Scotts Cove che regala il miglior panorama sulle scogliere impervie ( le più alte dell'Australia meridionale ), parte uno stretto nastro di terra che s'inoltra nella vegetazione fitta.
Sei kilometri più avanti, un sentiero scende ripido per altri quattro fino alle Ravine di Casoras, una piccola insenatura tra pareti di roccia e caverne, dove si distinguono le scritte lasciate dall'esploratore Baudin e dal suo equipaggio.
Sempre che la popolazione di Fairy Penguin permetta agli umani di entrare nella loro dimora.
Benvenuti a Kangaroo Island, uno dei paradisi non ancora perduti.











Maya e Aztechi: Teste colossali.

Il documento più impressionante e intrigante del prestigio dei sovrani delle "capitali" dell'Area Metropolitana olmeca.




Le teste colossali sono senza dubbio i monumenti più conosciuti tra gli elementi architettonici collocati nei centri cerimoniali dell'Area Metropolitana della cultura olmeca.
Si suppone che raffigurino sovrani olmechi e con una certa enfasi si sottolinea che vanno considerati veri e propri ritratti; tuttavia, per quanto sia incontestabile che le testi colossali sono tutte diverse tra loro e che presentano certi tratti personalizzati, le evidenti stilizzazioni e le convergenze che la caratterizzano rendono improbabile questa tesi.
Sembra più ragionevole ritenerle delle rappresentazioni stilizzate dei sovrani olmechi, mitici o reali.
Recentemente, osservando da dietro l'orecchio destro della testa 7 ( e forse 1 e 2 ) di San Lorenzo sono rimasti i resti di una nicchia, si è pensato che originariamente fossero dei troni.
Contrasta con la somiglianza dei volti la diversità delle colorazioni dei caschi, che sembrano rinviare ai simboli della regalità.
In alcuni sembrano raffigurate tessere di ematite, in altri strisce di pelle, in altri artigli.
Furono scolpite  utilizzando rocce, soprattutto basalto, provenienti dalle montagne di Tuxtla, lontane decine di kilometri dai centri dove furono collocate.
Certamente il loro trasporto ( la più grande pesa 20 tonnellate ) fu possibile solo grazie al prestigio politico-religioso delle "capitali" dell'Area metropolitana.




L'attenzione dell'arte olmeca per la figura umana di solito non porta a soluzioni formali troppo lontane dagli stilemi di quello che potremmo definire un naturalismo idealizzato o, per dirla con Asturias, un realismo magico.
Questa tendenza è particolarmente evidente nelle teste colossali e porta, soprattutto in quelle di San Lorenzo, a una ricerca dell'armonia che arriva a inserire le teste colossali nel rettangolo costruito con la sezione aurea.




Occhi a mandorla e plica palpebrale marcata sono un tratto tipicamente mongolide.
Le commessure delle labbra tirate verso il basso, in questo caso in modo non troppo marcato, sono un altro degli stilemi tipici dell'arte olmeca.
Il naso camuso e le labbra carnose sono il risultato degli scultori olmechi e non di immaginari contatti con l'Africa.