giovedì 4 ottobre 2012

Luoghi: Kangaroo Island, Australia.

Kangaroo Island: Il tropico del canguro.





Un viaggio alla scoperta della Kangoroo Island, un'isola con venti riserve naturali, spiagge deserte, dune altissime, foreste e labirinti di rocce dove si fanno incontri ravvicinati con koala, pinguini, marsupiali e otarie.
Dormendo nei fari e in dimore storiche, pescando aragoste e facendo surf nel mare color cobalto.
A mezzora di volo la vivacissima Adelaide, ricca di musei e gallerie, è la base di partenza per la Borossa Valley: un angolo verde di Mitteleuropa dove i discendenti dei pionieri producono i vini più pregiati del Pacifico.





Secondo la rivista francese l'Express, è uno dei ultimi paradisi non perduti della terra.
Un'oasi di natura felice, con una ventina di parchi protetti, foreste, spiagge bianchissime e scogliere su cui, però da anni puntano gli occhi le immobiliari di tutto il mondo, nella speranza di colonizzare il paradiso.
Poi, però, è arrivato l'annuncio che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai 4000 abitanti di Kangaroo Island, al largo della costa meridionale australiana; sull'isola, per ora, non si può costruire nemmeno un cottage in più.
L'isola dei canguri è quindi da scoprire subito, se si vogliono fare incontri ravvicinati con un esercito di marsupiali, otarie, foche neozelandesi, koala e ornitorinchi.
Per passeggiare lungo spiagge deserte tra dune di sabbia bianchissima e mare blu indaco.
Per dormire in bed & breakfast storici o nel cottage dei guardiani del faro.
Dopo il relax marino sull'isola si torna sulla terraferma, per inoltrarsi tra le fattorie della Barossa Valley, dove si produce il miglior vino locale, sostando qualche giorno ad Adelaide, una delle più vivaci città australiane.







Nel 1802, quando i primi occidentali, il capitano inglese Matthew Flinders e i suoi uomini, sbarcarono, Kangaroo Island era disabitata da millenni.
A parte i canguri, che si muovevano senza timore intorno ai marinai.
Quasi due secoli dopo Kangaroo Island, la terza isola dell'Australia per estensione, dopo la Tasmania e Melville Island, ospita un'infinità di canguri, wallaby, opossum, e altri animali ormai rarissimi.
Questo perché l'isola si è staccata dal continente circa 10 mila anni fa ed è rimasta disabitata per gli ultimi duemila: così piante e animali estinti in altri parti del mondo qui continuano a vivere al riparo da parassiti ed inquinamento.
Proprio per le sue caratteristiche, negli anni venti, Kangaroo Island fu scelta per istituire il primo parco nazionale dell'Australia e oggi il 70 per cento della superficie è area protetta.
Eppure solo uno stretto braccio di mare lungo 16 chilometri la separa dal resto del continente: una traversata di poco più di un'ora o un volo di trenta minuti dalla città di Adelaide.







Arrivare sull'isola, soprattutto dopo l'imbrunire, è emozionante: ai bordi della strada, delimitata dai profili argentei degli alberi, brillano tanti puntini rossi in continuo movimento che a un tratto si materializzano davanti alla luce dei fari.
Un cangurino alle prime armi saltella dietro la madre, opossum dalle folte code e altre creature notturne sbucano all'improvviso dai cespugli per cimentarsi nell'attività più rischiosa dell'isola: raggiungere l'altro capo della strada.
Chi si mette al volante lungo i 1600 chilometri tra strade e piste dell'isola è avvertito: qui la precedenza spetta sempre agli animali.





A qualche passo dal paese, la spiaggia di Penneshaw è una delle più sicure per nuotare, mentre il molo di Hog Bay è il preferito dei pescatori.
I Fairy Penguins, una varietà di piccoli pinguini che nidificano tra dune e scogli, è l'unica specie che vive e si riproduce in acque australiane, attendendo il calar del sole prima di ritornare in spiaggia e arrivare alla spicciolata a ogni ora della notte.
Puntualmente attesa da gruppetti di turisti scortati dalle guide, appostati tra il molo e l'insenatura di Christmas Cove.
Per fortuna l'uso dei flash che disturberebbe gli animali è vietatissimo.
A circa venti kilometri da Penneshaw, oltre la foce del Chapman River,  appare la lunga striscia di sabbia di Antechamber Bay, orlata da dune e punteggiata di zona d'ombra per pic nic.
Poco più a est, si erge il primo faro costruito nell'Australia del Sud, quello di Cape Willoughby, completato nel 1852.
Qui la costa si fa più selvaggia, scoscesa e impervia.
Dal faro un sentiero porta fino alla Windmill Beach, una spiaggia di ciottoli tondi e levigati dalla marea.







La strada principale che conduce a Kingscote è dominata dal profilo del monte Thisby che il capitano Flinders chiamò Prospect Hill.
Nelle giornate più limpide vale la pena di arrampicarsi per 512 gradini fino in cima.
E godersi la vista del monte Lofty, alle spalle di Adelaide e, verso l'interno dell'isola oltre Pelican Lagoon, di Pennington Bay amata dai surfisti più audaci che sfidano le sue correnti.
Da questa riva ci vogliono 5000 chilometri prima d'incontrare la terraferma: i ghiacci dell'Antartico.
American River, nell'omonima baia, si affaccia invece su un braccio interno di mare color cobalto orlato da una fitta vegetazione e solcato da pescherecci con le immancabili scie di pellicani al seguito del loro carico di granchi, salmoni, whiting, snook e garfish.
E' il pesce che figura tutti i giorni nel menù del Mattew Flinders Terraces Motel, un albergo di charme a terrazze, con miniappartamenti, vista a 180 gradi che spazia da Pelican Lagoon a Eastern Cove, terrazza panoramica e sauna all'aperto nel rigoglioso giardino.






Tutta la parte occidentale è occupata dal Flinders Chase National Park, un'immensa macchia di quasi 74.000 ettari, il primo tra i venti parchi naturali dell'isola e anche uno tra i più ampi dell'intero continente.
Qui crescono circa 400 tra le 700 piante endemiche dell'isola ( e 50 di orchidee ), vivono liberi wallaby e canguri, iguana, echidne ( animali molto simili agli istrici ), ornitorinchi, koala.
La zona di Rocky River è perfetta per gli incontri ravvicinati: i koala sono come sempre appollaiati sugli alberi; per avvistare l'ornitorinco si deve arrivare alla mattina presto o nel tardo pomeriggio.
Ma un incontro quasi assicurato è con i piccoli canguri e i tammar wallaby che vivono soltanto sull'isola, bestiole dagli occhi teneri e curiosi, che fanno capolino dal folto della vegetazione e si avvicinano con fiducia.
Attraverso l'apertura di Admiral Arch, un arco naturale di roccia vicino al faro di Cape de Couèdic, si possono osservare le foche da pelliccia neozelandesi divertirsi nelle pozze d'acqua, tra spruzzi di spuma.
E' scolpita nel vento e dall'acqua la spettacolare Remarkable Rocks, meta purtroppo anche di tutti i torpedoni.







Sulla punta di Cape Borda, una delle parti più remote dell'isola ( si raggiunge dalla Playford) sorge un faro squadrato con annesso un piccolo museo marittimo, che offre anche un'originale sistemazione.
E' il cottage dei guardiani, per sei persone, spartano ma suggestivo come quelli di Cape Willoughby, Rock River, Cape de Couèdic che si affittano tramite il National Park and Wildlife Service.
Passata  Scotts Cove che regala il miglior panorama sulle scogliere impervie ( le più alte dell'Australia meridionale ), parte uno stretto nastro di terra che s'inoltra nella vegetazione fitta.
Sei kilometri più avanti, un sentiero scende ripido per altri quattro fino alle Ravine di Casoras, una piccola insenatura tra pareti di roccia e caverne, dove si distinguono le scritte lasciate dall'esploratore Baudin e dal suo equipaggio.
Sempre che la popolazione di Fairy Penguin permetta agli umani di entrare nella loro dimora.
Benvenuti a Kangaroo Island, uno dei paradisi non ancora perduti.











Maya e Aztechi: Teste colossali.

Il documento più impressionante e intrigante del prestigio dei sovrani delle "capitali" dell'Area Metropolitana olmeca.




Le teste colossali sono senza dubbio i monumenti più conosciuti tra gli elementi architettonici collocati nei centri cerimoniali dell'Area Metropolitana della cultura olmeca.
Si suppone che raffigurino sovrani olmechi e con una certa enfasi si sottolinea che vanno considerati veri e propri ritratti; tuttavia, per quanto sia incontestabile che le testi colossali sono tutte diverse tra loro e che presentano certi tratti personalizzati, le evidenti stilizzazioni e le convergenze che la caratterizzano rendono improbabile questa tesi.
Sembra più ragionevole ritenerle delle rappresentazioni stilizzate dei sovrani olmechi, mitici o reali.
Recentemente, osservando da dietro l'orecchio destro della testa 7 ( e forse 1 e 2 ) di San Lorenzo sono rimasti i resti di una nicchia, si è pensato che originariamente fossero dei troni.
Contrasta con la somiglianza dei volti la diversità delle colorazioni dei caschi, che sembrano rinviare ai simboli della regalità.
In alcuni sembrano raffigurate tessere di ematite, in altri strisce di pelle, in altri artigli.
Furono scolpite  utilizzando rocce, soprattutto basalto, provenienti dalle montagne di Tuxtla, lontane decine di kilometri dai centri dove furono collocate.
Certamente il loro trasporto ( la più grande pesa 20 tonnellate ) fu possibile solo grazie al prestigio politico-religioso delle "capitali" dell'Area metropolitana.




L'attenzione dell'arte olmeca per la figura umana di solito non porta a soluzioni formali troppo lontane dagli stilemi di quello che potremmo definire un naturalismo idealizzato o, per dirla con Asturias, un realismo magico.
Questa tendenza è particolarmente evidente nelle teste colossali e porta, soprattutto in quelle di San Lorenzo, a una ricerca dell'armonia che arriva a inserire le teste colossali nel rettangolo costruito con la sezione aurea.




Occhi a mandorla e plica palpebrale marcata sono un tratto tipicamente mongolide.
Le commessure delle labbra tirate verso il basso, in questo caso in modo non troppo marcato, sono un altro degli stilemi tipici dell'arte olmeca.
Il naso camuso e le labbra carnose sono il risultato degli scultori olmechi e non di immaginari contatti con l'Africa.





mercoledì 3 ottobre 2012

Luoghi: Ellora, India.

Luoghi: Ellora, India.

"Il kailasa, la montagna dove si trova il paradiso di Shiva, è coperto di meravigliosi giardini".
(Shivapurana).






Situata tra Ajanta e Aurangabad, questa località dei Ghat occidentali deve la sua notorietà al santuario dedicato al Kailasana-tha (signore del Kailasa, cioè Shiva), la più colossale opera di architettura rupestre mai realizzata in India.
Ma Ellora era un importante centro religioso già almeno un secolo prima dell'avvento dei Rashtrakuta (750 circa), cui si deve il tempio suddetto.
Datano al VII secolo, infatti, i diversi monasteri buddhisti e jaina scavati nella roccia, che riflettono un impianto consolidato nei secoli precedenti nell'architettura del Deccan: ampie sale pilastrate di pianta rettangolare circondate da celle monastiche e dotate, come in alcuni  vihara di Ajanta, di una cappella per  immagini di culto sulla parete di fondo (nella grotta 12 lo schema si ripete su tre piani).
Nella più antica tra le grotte buddhiste (la 5) due lunghe panche di pietra attraversano longitudinalmente la sala, sulle quali i monaci sedevano per le preghiere di rito, secondo l'uso che sarà tipico del buddhismo tantrico e zen.
L'attività architettonica proseguì, come si è anticipato, con i Rashtrakuta.
La realizzazione della grotta 16 (Kailasanatha) richiese diversi decenni; si pensa sia stata completata durante il regno di Krshna ( 757-773 ), ma verosibilmente era stata avviata dal suo precedessore Dantidurga.
Una datazione alla metà dell'Viii secolo, perlomeno del progetto architettonico, è avvalorata anche dalle affinità planimetriche con il tempio Virupassha di Pattadakal.




Il tempio comprende un ampio mandapa ipostilo cruciforme, con un corpo aggettante al centro di ogni lato, e il garbhagrha preceduto da un vestibolo.
Il Vimana, coronato da una sovrastruttura piramidale, è circondato su tre lati da cinque sacelli, anch'essi a forma di tempio dravida.
Nello spazio antistante il tempi si erge il padiglione contenente la scultura del toro Nandin, il veicolo di Shiiva, collegato tramite due ponti al santuario centrale e, come questo, situato su un podio alto 7 metri.






Questa spettacolare impresa architettonica aveva di certo un significato nella sfera della propaganda politica.
Realizzando un tempio assimilato al sacro monte Kailasa, i sovrani Rashtrakuta ricollocavano simbolicamente il centro del mondo all'interno dei loro domini.
La lavorazione dell'imponente edificio ebbe inizio dall'alto.
Come una gigantesca scultura, il tempio, con tutte le sue componenti architettonoche e le ricche decorazioni scultoree, prese gradualmente forma dalla roccia.





Varcata l'entrata si accede alla gigantesca "cava" al centro della quale sorge il tempio, che si sviluppa su due piani; altri ambienti di culto sono scavati nelle pareti della roccia.
A Ellora  furono scavati monumenti di culto nella parete rocciosa per un'estensione di oltre 1,5 km.
Le grotte più antiche, quelle più a sud, furono realizzate in epoca chalukya per la comunità buddhista.








Il programma iconografico rispecchia le concezioni più tarde del buddhismo mahayana; a queste si riconducono per esempio, la rappresentazione dei Buddha delle 10 direzioni e le numerose immagini di bodhisattiva, sul terzo piano.
Come in gran parte della produzione scultorea buddhista di epoca post-gupta, anche nella scultura buddhista di Ellora lo stile è asciutto, quasi rigido, e le forme appaiono come cristalizzate.




Una città unica, bellissima come bellissime sono le rappresentazioni di Shiva.
Il dio esegue la sua danza cosmica al cospetto di parvati, attorniato da musici e altre figure umane e celesti: questo ed altro da cornice ad una delle città più belle non solo dell' India ma di tutto il mondo.




Pianeta Scimmia: Bonobo. (Congo).







Il Bonobo, meglio noto come scimpanzè pigmeo, era ritenuto un tempo una semplice sottospecie del suo più grosso parente.
Da un punto di vista fisico, il Bonobo è molto simile allo scimpanzè, anche se un po' meno robusto.
Da un punto di vista comportamentale, invece, non potrebbe essere più diverso e l'atteggiamento pacifico, accomodante e dionisiaco del Bonobo fa sembrare gli scimpanzè comuni come un branco di teppisti attaccabrighe.



Le poche migliaia di bonobo sopravissuti abitano le foreste del l'ex Zaire, oggi, Repubblica Democratica del Congo, separati dagli scimpanzè dal maestoso fiume Congo.
Questa barriera naturale, che nessuna scimmia è in grado di superare, ha impedito a queste due specie d'incontrarsi, anche , se, per assurdo, potrebbero sentire i reciproci richiami dall'altra parte del fiume.
Questo isolamento ha permesso agli antenati del bonobo di evolversi in maniera leggermente diversa dagli scimpanzè.
Grazie a un processo chiamato neotenia, in virtù del quale gli adulti si mantengono le stesse caratteristiche giovanili, questi primati hanno sviluppato un fisico più esile e snello.
Gli esemplari odierni diretti presentano spalle più strette, collo più sottile, testa e orecchie più piccole, narici più dilatate e arcate sopraccigliari meno prominenti di quelle degli scimpanzè.
Inoltre, le mammelle delle femmine sono più arrotondate.




I bonomo hanno sviluppato anche una personalità più giocherellona e cooperativa degli scimpanzé.
Oltre che per la riproduzione, essi hanno cominciato a usare l'atto sessuale in modo piacevole, giocoso, come un mezzo per rafforzare i legami sociali del gruppo.
E poi, hanno un diverso comportamento competitivo.
Un tipico maschio giovane di scimpanzé, procedendo verso l'età adulta, incomincia a vessare i maschi più giovani, a litigare ad alta voce con i più anziani e a dominare tutte le femmine che lo circondano.
La società degli scimpanzè è essenzialmente patriarcale.
Al contrario, quella dei bonobo è matriarcale: le femmine di bonobo lavorano in gruppo per tenere i maschi al loro posto.
Questa differenza di organizzazione sociale è probabilmente da collegare all'assenza di gorilla a sud del fiume Congo.





A nord del Congo, i gorilla manopolizzano gran parte della vegetazione disponibile al suolo e gli scimpanzé si affidano perciò agli alberi per il loro sostentamento.
Per raccogliere abbastanza cibo, in un mondo dominato da branchi di maschi più grossi e aggressivi, le femmine devono sparpagliarsi almeno secondo una certa teoria.
A sud del fiume Congo, i bonobo, in assenza di gorilla e scimpanzè, hanno a disposizione sia il cibo sugli alberi sia quelli al suolo, perciò le femmine non devono dividersi per andare alla ricerca di cibo e questo può essere uno dei fattori che permette loro di formare alleanze contro il predominio maschile.
Questo significa inoltre, che, rispetto agli scimpanzé. i bonobo trascorrono molto più tempo al suolo, dove è più agevole compiere atti sessuali.
Del resto i bonobo usano il comportamento sessuale per appianare le discussioni. (fate l'amore non fate la guerra).



Un altro fattore è l'infanticidio, che i maschi di scimpanzé usano come arma per propagare i loro geni, ma che è praticamente sconosciuto nella società matriarcale dei bonobo.
Trascorrere lunghi periodi al suolo permette ai bonobo di formare vasti gruppi sociali, all'interno dei quali sarebbe impossibile mantenere la posizione di maschio alfadominante.
Sono state osservate comunità di 50-200 bonobo che vivono in gruppo, anche se in gran parte dei casi questi gruppi sono suddivisi in squadre di procacciamento del cibo.
Il lungo tempo trascorso al suolo potrebbe anche spiegare perché i bonobo hanno gambe relativamente più lunghe rispetto agli scimpanzé: in effetti, si stanno trasformando lentamente in bipedi, proprio come i primi uomini apparsi sulla terra.
Gli ultimi studi effettuati sui bonobo allo stato selvatico hanno rilevato, infatti, che essi trascorrono fino al 25% del loro tempo in posizione eretta quando sono al suolo.
Questo fatto li rende i più umani dei nostri parenti primati.


Racconti di viaggio: Marocco, terra del vento.

Marocco, terra del vento.
Seguendo le orme di Salvatores.
Dalle location del film "Marrakech express"





La strada che porta a sud è un lungo pianeggiare verde, senza case; seguito da un bosco di eucaliptus, colline spelate e distese di piante.
Alle spalle Casablanca. Davanti Marrakech: la grande torre della Kotonbia al centro, vicoli dove riescono a mescolarsi e a convivere culture africane, islamiche, arabe e berbere e, sullo sfondo, le cime dell'Alto Atlante coperte di neve.
Il vecchio cuore di questa incredibile città è Jemaa el Fna, la piazza del "nulla" circondata da un fitto reticolato di mercanti, i souk.





Ed è qui che la vita è più animata; file interminabili di bancarelle di cibo, tappeti e monili, incantatori di serpenti e narratori di storie.
Ogni anno si riserva qui un milione di viaggiatori, più del doppio degli abitanti; arrivano in gran parte dalle spiagge di Agadir, per una breve visita di un giorno, il tempo sufficiente per vedere il minareto della Kontonbia o la Medersa di Ben Yussen.
Ed è un peccato, perché Marrakech si lascia conoscere solo da chi sà viaggiare nel tempo.



ll viaggio prosegue per 250 chilometri verso sud, lontano dal rumoroso traffico cittadino.
Proseguendo la statale che collega Marrakech con Agadir, ci si trova di fronte ad un scenario meraviglioso, forse uno dei più belli di tutto l'itinerario.
Spazi infiniti e, sullo sfondo l'azzurro intenso del cielo africano.
I paesaggi cambiano rapidamente; montagne, gole, valli e regioni pre-desertiche frequentate da pastori e dalle loro greggi.
Si ha la sensazione che il tempo, qui, si sia fermato.
La gente che si incontra è in completa armonia con l'ambiente e con i ritmi lenti e costanti di questa terra, e il domani sembra non esistere.
Si sente solo il rumore del vento.
La terra ha il colore rosso e, dove la roccia è nuda, l'erosione ha creato forme aspre e tonde.
E' il Marocco di Pierre Loti, scrittore di viaggi di fine ottocento.
In certi punti sembrano essere cambiato proprio nulla da allora.
Isole e spazi rimasti incontaminati.
Nessun sentiero li ha mai attraversati promettendo ricchezza e sviluppo.
Luoghi poveri, che non hanno conosciuto speculazioni.
Dopo alcune ore, si arriva finalmente ad Agadir, città della costa dell'Alto Atlante, che si affaccia sull'oceano.
La sua ricostruzione, dopo il terremoto che la colpì nel 1960, l'ha trasformata in una città di mare fortemente turistica.
Ma è solo una tappa.






Il vero crocevia del sud marocchino è Ouarzazate, situata tra le valli del Draa e Dades.
Ed è lei che prepara dolcemente il viaggiatore alle sensazioni più estreme del deserto e alla vista delle magnifiche "kasbah", capolinea delle culture più diverse, un tempo roccaforti e residenze principesche, oggi sentinelle della terra di frontiera tra i contrafforti dell'Alto Atlante e le lande desolate del Sahara.
Nessuno conosce veramente le origini di queste caratteristiche costruzioni: torri e mura in terra battuta o in mattoni cotti al sole, che racchiudono in sé semplici abitazioni o intere città.
La più importante e immortale è la kasbah di Taourirt, che circonda un grazioso villaggio berbero.
Ogni domenica mattina, tra le sue mure viene allestito un mercato dove si possono acquistare vesellame, oggetti in pietra intagliata, coperte e tappeti antichi.
Percorrendo per alcune ore la vicina valle del Draa, si incontra il fiume che le dà il nome, lungo le cui sponde si "srotola" un nastro fertile che dà vita a numerosi villaggi.
Un unica striscia a palmeto ricopre molti chilometri di terra prima del deserto.
Ed eccola la "perla del sud", Zagorà, un insediamento situato a 750 metri sull'altipiano subsahariano, che risale al periodo coloniale francese.
E' una stupenda oasi tra Agdz e Mhamidma.
Ma le sue case e le sue piante sono l'ultimo contatto con l'umanità che, proseguendo, scompare lentamente all'orizzonte.





A Merzougà, la strada s'interrompe e si presentano "potenti" dune di sabbia.
Affascinante, grandioso, sconfinato, il deserto offre un paesaggio carico di suggestioni, nella sua totale desolazione.
Ed è Erfoud il capolinea.
Città principale della valle dello Ziz, a sud di Er Rachidia.
Una delle località principali del Tafilet, regione da cui provengono gli antenati di Re Hassan II.
In ottobre, va in scena la festa dei datteri.
E c'è chi si spinge fino a Rissani, sede della residenza della famiglia reale e del mausoleo del capostipite della dinastia Manlay Ali Cherif.
Marocco profondo...terra del vento.







lunedì 1 ottobre 2012

Sahara: Tunisia, i villaggi Berberi: un modo di vita minacciato.

Sahara: Tunisia, i villaggi Berberi: un modo di vita minacciato.





Tradizionalmente l'economia dei villaggi Berberi di Ghoumrassen, Guermessa, Chenini e Douriet si è sempre basata sull'agricoltura, e considerevoli sforzi sono stati fatti per costruire jessour (terrazzamenti) e cisterne in modo da poter piantare alberi in questa arida steppa.
L'allevamento di pecore e capre, praticato soprattutto in passato, era però solo una piccola parte dell'economia dei villaggi, i cui abitanti non hanno mai partecipato alla trasumanza dei loro vicini nomadi.
Una soluzione alla povertà della regione era l'emigrazione.
I giovani andavano a lavorare in città per alcuni anni, poi tornavano al villaggio, spendendo i soldi risparmiati nel  "prezzo della sposa", i beni da offrire alla famiglia della futura consorte, o in un nuovo jessour.
Gli emigranti di ciascun villaggio erano specializzati in un diverso mestiere: quelli di Douri e Guermessi lavoravano come facchini al mercato ortofrutticolo, quelli di Ghoumrassini vendevano ciambelle e quelli di Chenini giornali.


 
 

Oggi tuttavia i giovani emigrano in luoghi più lontani (spesso in Francia), stanno via più a lungo e si sposano fuori dalla comunità; molti non fanno più ritorno.
Girando per i villaggi noterete che il numero delle donne sopravanza ampiamente quello degli uomini, molti dei quali sono anziani, una prova del fatto che l'emigrazione sta uccidendo la comunità.
Ciò è doppiamente triste, perchè questi villaggi rappresentano l'ultima testimonianza della civiltà berbera della regione.
Il berbero era la lingua predominante della Tunisia sotto i Romani, ma dopo la conquista araba fu presto soppiantato dall'arabo, la lingua della nuova religione, della legge e del governo.
Il berbero sopravvisse solo nelle comunità del  sud, e anche qui conobbe un lento declino.
Alla fine dell'ottocento il berbero era parlato come prima lingua solo a Douiret, Chenini e Guermessa, ma con l'occupazione francese, l'espansione del governo nel sud e l'imposizione della legge islamica la lingua araba fece irruzione anche in questi villaggi.
Tuttavia il colpo mortale è stato assestato dall'emigrazione e dalla conseguente dispersione della popolazione berbera.
Oggi solo le persone più anziane di Chenini e Douiret parlano la lingua; i giovani la capiscono, ma probabilmente già i loro figli non la comprenderanno.
A Guermessa oggi nessuno parla il berbero.


 
 

Questo processo di arabizzazione continuò durante il periodo coloniale nonostante gli sforzi dei francesi di separare i berberi dai loro vicini arabi.
Gli antropologi francesi sostenevano che i berberi erano in realtà europei emigrati in Nord Africa in tempi remoti.
Mentre gli arabi venivano dipinti come pigri, scaltri e tirannici, i berberi erano descritti come industriosi, onesti e democratici, e per queste ragioni erano ritenuti meritevoli di un posto privilegiato nella società tunisina.
In realtà, naturalmente , i francesi stavano solo tentando di applicare la vecchia tattica del divide et impera, e i berberi nel complesso si rifiutarono di stare al gioco: infatti, se da un lato accettarono molti dei privilegi offerti dal governo, comprese un'amministrazione indipendente e vaste aree di terra araba, dall'altro rimasero ostili
ai francesi quanto i loro vicini arabi.




Etruschi personaggi: Mastarna e i Vibenna.

Etruschi personaggi: Mastarna e i Vibenna.

"Quando Celio fu sconfitto, Servio Tullio, che a quel tempo si chiamava Mastarna, mutò il proprio nome e conquistò la corona di Roma". ( Claudio ).




Le fonti romane narrano che il sesto re di Roma, Servio Tullio, era figlio di una principessa latina schiava di Tanaquilla, allevato presso la reggia per volere della regina.
Non avendo discendenti maschi, Tarquinio Prisco lo avrebbe scelto come genero e successore del trono.
Ben diversa è la tradizione etrusca: Servio Tullio sarebbe da identificare con Mastarna, un eroe vulcente amico e commilitone (sodalis) dei fratelli Vibenna (forse loro schiavo), che, dopo una serie di scontri con Roma, alla morte del compagno Celio Vibenna conquista la città e ne diviene re.
A conferma di questa versione esiste un discorso tenuto al Senato nel 48 d.C. dall'imperatore Claudio, appassionato conoscitore della storia etrusca.
La saga dei Vibenna e del sodale Mastarna, che doveva essere ben nota in Etruria, era narrata anche dalle Tuscae Historiae, un testo annalistico citato da Livio e da Varrone e andato perduto.
La sua memoria è conservata nelle pitture di un grande monumento funerario di Vulci, la tomba Francois, appartenuta alla famiglia dei Saties.
Gli affreschi illustrano in sucessione diverse scene che si aprono con la liberazione di Caile Vipinas ( Celio Vibenna ) da parte di Mastarna.
Fanno da contaltare le pitture della parete opposta, rappresentazione di alcuni episodi della guerra di Troia.
Dalla lettura comparata dei cicli pittorici si evince la forte impronta antiromana, che vede gli Etruschi vittoriosi sui Romani discendenti di Enea, così come i Greci lo erano stati sui Troiani.


 
Affreschi della Tomba Francois, da Vulci, seconda metà IV secolo a.C., Roma, Villa Albani, Collezione Torlonia.
 
 
La fortunosa scoperta della tomba Francois si deve al geologo toscano Alessandro Francois, appassionato di archeologia, che nel 1857 la mise in luce nei possedimenti della famiglia Torlonia a Vulci.
La sepoltura presenta una pianta molto articolata, costituita da un lungo corridoio di accesso ( dromos ) che sblocca nell'ambiente principale dalla caratteristica conformazione a T; su questa e sul dromos si aprono le altre camere funerarie.
Caile Vipinas ( Celio Vibenna ), con le mani legate, viene liberato da Mastarna .Nel nome etrusco di Mastarna si riconosce la stessa radice del verbo macstrev (e) che significa "fu comandante".
 
 
 
 
Tutte le scene, richiamando alla memoria le gesta dei fratelli Vibenna e di Mastarna, introducono alla situazione politica del tempo in cui fu costruita la tomba, la seconda metà del IV secolo a.C., e alle lotte allora in corso tra alcune città dell'Etruria a Roma.
In sucessione tre personaggi, Larth Ulthes, Rasce e Aule Vipinas, tutti presumibilmente  di Vulci, si battono vittoriosamente contro tre personaggi di altre città etrusche coalizzate con Roma, verosimilmente Sovana, Falerii e Volsimii.
Marce Camilthas tiene per i capelli, dopo averlo atterrato, Cnaeve Tarchunies Rumach.
Quest'ultimo personaggio, identificato con un Tarquinio di Roma, offre un appiglio cronologico di chiara lettura.