mercoledì 3 ottobre 2012

Luoghi: Ellora, India.

Luoghi: Ellora, India.

"Il kailasa, la montagna dove si trova il paradiso di Shiva, è coperto di meravigliosi giardini".
(Shivapurana).






Situata tra Ajanta e Aurangabad, questa località dei Ghat occidentali deve la sua notorietà al santuario dedicato al Kailasana-tha (signore del Kailasa, cioè Shiva), la più colossale opera di architettura rupestre mai realizzata in India.
Ma Ellora era un importante centro religioso già almeno un secolo prima dell'avvento dei Rashtrakuta (750 circa), cui si deve il tempio suddetto.
Datano al VII secolo, infatti, i diversi monasteri buddhisti e jaina scavati nella roccia, che riflettono un impianto consolidato nei secoli precedenti nell'architettura del Deccan: ampie sale pilastrate di pianta rettangolare circondate da celle monastiche e dotate, come in alcuni  vihara di Ajanta, di una cappella per  immagini di culto sulla parete di fondo (nella grotta 12 lo schema si ripete su tre piani).
Nella più antica tra le grotte buddhiste (la 5) due lunghe panche di pietra attraversano longitudinalmente la sala, sulle quali i monaci sedevano per le preghiere di rito, secondo l'uso che sarà tipico del buddhismo tantrico e zen.
L'attività architettonica proseguì, come si è anticipato, con i Rashtrakuta.
La realizzazione della grotta 16 (Kailasanatha) richiese diversi decenni; si pensa sia stata completata durante il regno di Krshna ( 757-773 ), ma verosibilmente era stata avviata dal suo precedessore Dantidurga.
Una datazione alla metà dell'Viii secolo, perlomeno del progetto architettonico, è avvalorata anche dalle affinità planimetriche con il tempio Virupassha di Pattadakal.




Il tempio comprende un ampio mandapa ipostilo cruciforme, con un corpo aggettante al centro di ogni lato, e il garbhagrha preceduto da un vestibolo.
Il Vimana, coronato da una sovrastruttura piramidale, è circondato su tre lati da cinque sacelli, anch'essi a forma di tempio dravida.
Nello spazio antistante il tempi si erge il padiglione contenente la scultura del toro Nandin, il veicolo di Shiiva, collegato tramite due ponti al santuario centrale e, come questo, situato su un podio alto 7 metri.






Questa spettacolare impresa architettonica aveva di certo un significato nella sfera della propaganda politica.
Realizzando un tempio assimilato al sacro monte Kailasa, i sovrani Rashtrakuta ricollocavano simbolicamente il centro del mondo all'interno dei loro domini.
La lavorazione dell'imponente edificio ebbe inizio dall'alto.
Come una gigantesca scultura, il tempio, con tutte le sue componenti architettonoche e le ricche decorazioni scultoree, prese gradualmente forma dalla roccia.





Varcata l'entrata si accede alla gigantesca "cava" al centro della quale sorge il tempio, che si sviluppa su due piani; altri ambienti di culto sono scavati nelle pareti della roccia.
A Ellora  furono scavati monumenti di culto nella parete rocciosa per un'estensione di oltre 1,5 km.
Le grotte più antiche, quelle più a sud, furono realizzate in epoca chalukya per la comunità buddhista.








Il programma iconografico rispecchia le concezioni più tarde del buddhismo mahayana; a queste si riconducono per esempio, la rappresentazione dei Buddha delle 10 direzioni e le numerose immagini di bodhisattiva, sul terzo piano.
Come in gran parte della produzione scultorea buddhista di epoca post-gupta, anche nella scultura buddhista di Ellora lo stile è asciutto, quasi rigido, e le forme appaiono come cristalizzate.




Una città unica, bellissima come bellissime sono le rappresentazioni di Shiva.
Il dio esegue la sua danza cosmica al cospetto di parvati, attorniato da musici e altre figure umane e celesti: questo ed altro da cornice ad una delle città più belle non solo dell' India ma di tutto il mondo.




Pianeta Scimmia: Bonobo. (Congo).







Il Bonobo, meglio noto come scimpanzè pigmeo, era ritenuto un tempo una semplice sottospecie del suo più grosso parente.
Da un punto di vista fisico, il Bonobo è molto simile allo scimpanzè, anche se un po' meno robusto.
Da un punto di vista comportamentale, invece, non potrebbe essere più diverso e l'atteggiamento pacifico, accomodante e dionisiaco del Bonobo fa sembrare gli scimpanzè comuni come un branco di teppisti attaccabrighe.



Le poche migliaia di bonobo sopravissuti abitano le foreste del l'ex Zaire, oggi, Repubblica Democratica del Congo, separati dagli scimpanzè dal maestoso fiume Congo.
Questa barriera naturale, che nessuna scimmia è in grado di superare, ha impedito a queste due specie d'incontrarsi, anche , se, per assurdo, potrebbero sentire i reciproci richiami dall'altra parte del fiume.
Questo isolamento ha permesso agli antenati del bonobo di evolversi in maniera leggermente diversa dagli scimpanzè.
Grazie a un processo chiamato neotenia, in virtù del quale gli adulti si mantengono le stesse caratteristiche giovanili, questi primati hanno sviluppato un fisico più esile e snello.
Gli esemplari odierni diretti presentano spalle più strette, collo più sottile, testa e orecchie più piccole, narici più dilatate e arcate sopraccigliari meno prominenti di quelle degli scimpanzè.
Inoltre, le mammelle delle femmine sono più arrotondate.




I bonomo hanno sviluppato anche una personalità più giocherellona e cooperativa degli scimpanzé.
Oltre che per la riproduzione, essi hanno cominciato a usare l'atto sessuale in modo piacevole, giocoso, come un mezzo per rafforzare i legami sociali del gruppo.
E poi, hanno un diverso comportamento competitivo.
Un tipico maschio giovane di scimpanzé, procedendo verso l'età adulta, incomincia a vessare i maschi più giovani, a litigare ad alta voce con i più anziani e a dominare tutte le femmine che lo circondano.
La società degli scimpanzè è essenzialmente patriarcale.
Al contrario, quella dei bonobo è matriarcale: le femmine di bonobo lavorano in gruppo per tenere i maschi al loro posto.
Questa differenza di organizzazione sociale è probabilmente da collegare all'assenza di gorilla a sud del fiume Congo.





A nord del Congo, i gorilla manopolizzano gran parte della vegetazione disponibile al suolo e gli scimpanzé si affidano perciò agli alberi per il loro sostentamento.
Per raccogliere abbastanza cibo, in un mondo dominato da branchi di maschi più grossi e aggressivi, le femmine devono sparpagliarsi almeno secondo una certa teoria.
A sud del fiume Congo, i bonobo, in assenza di gorilla e scimpanzè, hanno a disposizione sia il cibo sugli alberi sia quelli al suolo, perciò le femmine non devono dividersi per andare alla ricerca di cibo e questo può essere uno dei fattori che permette loro di formare alleanze contro il predominio maschile.
Questo significa inoltre, che, rispetto agli scimpanzé. i bonobo trascorrono molto più tempo al suolo, dove è più agevole compiere atti sessuali.
Del resto i bonobo usano il comportamento sessuale per appianare le discussioni. (fate l'amore non fate la guerra).



Un altro fattore è l'infanticidio, che i maschi di scimpanzé usano come arma per propagare i loro geni, ma che è praticamente sconosciuto nella società matriarcale dei bonobo.
Trascorrere lunghi periodi al suolo permette ai bonobo di formare vasti gruppi sociali, all'interno dei quali sarebbe impossibile mantenere la posizione di maschio alfadominante.
Sono state osservate comunità di 50-200 bonobo che vivono in gruppo, anche se in gran parte dei casi questi gruppi sono suddivisi in squadre di procacciamento del cibo.
Il lungo tempo trascorso al suolo potrebbe anche spiegare perché i bonobo hanno gambe relativamente più lunghe rispetto agli scimpanzé: in effetti, si stanno trasformando lentamente in bipedi, proprio come i primi uomini apparsi sulla terra.
Gli ultimi studi effettuati sui bonobo allo stato selvatico hanno rilevato, infatti, che essi trascorrono fino al 25% del loro tempo in posizione eretta quando sono al suolo.
Questo fatto li rende i più umani dei nostri parenti primati.


Racconti di viaggio: Marocco, terra del vento.

Marocco, terra del vento.
Seguendo le orme di Salvatores.
Dalle location del film "Marrakech express"





La strada che porta a sud è un lungo pianeggiare verde, senza case; seguito da un bosco di eucaliptus, colline spelate e distese di piante.
Alle spalle Casablanca. Davanti Marrakech: la grande torre della Kotonbia al centro, vicoli dove riescono a mescolarsi e a convivere culture africane, islamiche, arabe e berbere e, sullo sfondo, le cime dell'Alto Atlante coperte di neve.
Il vecchio cuore di questa incredibile città è Jemaa el Fna, la piazza del "nulla" circondata da un fitto reticolato di mercanti, i souk.





Ed è qui che la vita è più animata; file interminabili di bancarelle di cibo, tappeti e monili, incantatori di serpenti e narratori di storie.
Ogni anno si riserva qui un milione di viaggiatori, più del doppio degli abitanti; arrivano in gran parte dalle spiagge di Agadir, per una breve visita di un giorno, il tempo sufficiente per vedere il minareto della Kontonbia o la Medersa di Ben Yussen.
Ed è un peccato, perché Marrakech si lascia conoscere solo da chi sà viaggiare nel tempo.



ll viaggio prosegue per 250 chilometri verso sud, lontano dal rumoroso traffico cittadino.
Proseguendo la statale che collega Marrakech con Agadir, ci si trova di fronte ad un scenario meraviglioso, forse uno dei più belli di tutto l'itinerario.
Spazi infiniti e, sullo sfondo l'azzurro intenso del cielo africano.
I paesaggi cambiano rapidamente; montagne, gole, valli e regioni pre-desertiche frequentate da pastori e dalle loro greggi.
Si ha la sensazione che il tempo, qui, si sia fermato.
La gente che si incontra è in completa armonia con l'ambiente e con i ritmi lenti e costanti di questa terra, e il domani sembra non esistere.
Si sente solo il rumore del vento.
La terra ha il colore rosso e, dove la roccia è nuda, l'erosione ha creato forme aspre e tonde.
E' il Marocco di Pierre Loti, scrittore di viaggi di fine ottocento.
In certi punti sembrano essere cambiato proprio nulla da allora.
Isole e spazi rimasti incontaminati.
Nessun sentiero li ha mai attraversati promettendo ricchezza e sviluppo.
Luoghi poveri, che non hanno conosciuto speculazioni.
Dopo alcune ore, si arriva finalmente ad Agadir, città della costa dell'Alto Atlante, che si affaccia sull'oceano.
La sua ricostruzione, dopo il terremoto che la colpì nel 1960, l'ha trasformata in una città di mare fortemente turistica.
Ma è solo una tappa.






Il vero crocevia del sud marocchino è Ouarzazate, situata tra le valli del Draa e Dades.
Ed è lei che prepara dolcemente il viaggiatore alle sensazioni più estreme del deserto e alla vista delle magnifiche "kasbah", capolinea delle culture più diverse, un tempo roccaforti e residenze principesche, oggi sentinelle della terra di frontiera tra i contrafforti dell'Alto Atlante e le lande desolate del Sahara.
Nessuno conosce veramente le origini di queste caratteristiche costruzioni: torri e mura in terra battuta o in mattoni cotti al sole, che racchiudono in sé semplici abitazioni o intere città.
La più importante e immortale è la kasbah di Taourirt, che circonda un grazioso villaggio berbero.
Ogni domenica mattina, tra le sue mure viene allestito un mercato dove si possono acquistare vesellame, oggetti in pietra intagliata, coperte e tappeti antichi.
Percorrendo per alcune ore la vicina valle del Draa, si incontra il fiume che le dà il nome, lungo le cui sponde si "srotola" un nastro fertile che dà vita a numerosi villaggi.
Un unica striscia a palmeto ricopre molti chilometri di terra prima del deserto.
Ed eccola la "perla del sud", Zagorà, un insediamento situato a 750 metri sull'altipiano subsahariano, che risale al periodo coloniale francese.
E' una stupenda oasi tra Agdz e Mhamidma.
Ma le sue case e le sue piante sono l'ultimo contatto con l'umanità che, proseguendo, scompare lentamente all'orizzonte.





A Merzougà, la strada s'interrompe e si presentano "potenti" dune di sabbia.
Affascinante, grandioso, sconfinato, il deserto offre un paesaggio carico di suggestioni, nella sua totale desolazione.
Ed è Erfoud il capolinea.
Città principale della valle dello Ziz, a sud di Er Rachidia.
Una delle località principali del Tafilet, regione da cui provengono gli antenati di Re Hassan II.
In ottobre, va in scena la festa dei datteri.
E c'è chi si spinge fino a Rissani, sede della residenza della famiglia reale e del mausoleo del capostipite della dinastia Manlay Ali Cherif.
Marocco profondo...terra del vento.







lunedì 1 ottobre 2012

Sahara: Tunisia, i villaggi Berberi: un modo di vita minacciato.

Sahara: Tunisia, i villaggi Berberi: un modo di vita minacciato.





Tradizionalmente l'economia dei villaggi Berberi di Ghoumrassen, Guermessa, Chenini e Douriet si è sempre basata sull'agricoltura, e considerevoli sforzi sono stati fatti per costruire jessour (terrazzamenti) e cisterne in modo da poter piantare alberi in questa arida steppa.
L'allevamento di pecore e capre, praticato soprattutto in passato, era però solo una piccola parte dell'economia dei villaggi, i cui abitanti non hanno mai partecipato alla trasumanza dei loro vicini nomadi.
Una soluzione alla povertà della regione era l'emigrazione.
I giovani andavano a lavorare in città per alcuni anni, poi tornavano al villaggio, spendendo i soldi risparmiati nel  "prezzo della sposa", i beni da offrire alla famiglia della futura consorte, o in un nuovo jessour.
Gli emigranti di ciascun villaggio erano specializzati in un diverso mestiere: quelli di Douri e Guermessi lavoravano come facchini al mercato ortofrutticolo, quelli di Ghoumrassini vendevano ciambelle e quelli di Chenini giornali.


 
 

Oggi tuttavia i giovani emigrano in luoghi più lontani (spesso in Francia), stanno via più a lungo e si sposano fuori dalla comunità; molti non fanno più ritorno.
Girando per i villaggi noterete che il numero delle donne sopravanza ampiamente quello degli uomini, molti dei quali sono anziani, una prova del fatto che l'emigrazione sta uccidendo la comunità.
Ciò è doppiamente triste, perchè questi villaggi rappresentano l'ultima testimonianza della civiltà berbera della regione.
Il berbero era la lingua predominante della Tunisia sotto i Romani, ma dopo la conquista araba fu presto soppiantato dall'arabo, la lingua della nuova religione, della legge e del governo.
Il berbero sopravvisse solo nelle comunità del  sud, e anche qui conobbe un lento declino.
Alla fine dell'ottocento il berbero era parlato come prima lingua solo a Douiret, Chenini e Guermessa, ma con l'occupazione francese, l'espansione del governo nel sud e l'imposizione della legge islamica la lingua araba fece irruzione anche in questi villaggi.
Tuttavia il colpo mortale è stato assestato dall'emigrazione e dalla conseguente dispersione della popolazione berbera.
Oggi solo le persone più anziane di Chenini e Douiret parlano la lingua; i giovani la capiscono, ma probabilmente già i loro figli non la comprenderanno.
A Guermessa oggi nessuno parla il berbero.


 
 

Questo processo di arabizzazione continuò durante il periodo coloniale nonostante gli sforzi dei francesi di separare i berberi dai loro vicini arabi.
Gli antropologi francesi sostenevano che i berberi erano in realtà europei emigrati in Nord Africa in tempi remoti.
Mentre gli arabi venivano dipinti come pigri, scaltri e tirannici, i berberi erano descritti come industriosi, onesti e democratici, e per queste ragioni erano ritenuti meritevoli di un posto privilegiato nella società tunisina.
In realtà, naturalmente , i francesi stavano solo tentando di applicare la vecchia tattica del divide et impera, e i berberi nel complesso si rifiutarono di stare al gioco: infatti, se da un lato accettarono molti dei privilegi offerti dal governo, comprese un'amministrazione indipendente e vaste aree di terra araba, dall'altro rimasero ostili
ai francesi quanto i loro vicini arabi.




Etruschi personaggi: Mastarna e i Vibenna.

Etruschi personaggi: Mastarna e i Vibenna.

"Quando Celio fu sconfitto, Servio Tullio, che a quel tempo si chiamava Mastarna, mutò il proprio nome e conquistò la corona di Roma". ( Claudio ).




Le fonti romane narrano che il sesto re di Roma, Servio Tullio, era figlio di una principessa latina schiava di Tanaquilla, allevato presso la reggia per volere della regina.
Non avendo discendenti maschi, Tarquinio Prisco lo avrebbe scelto come genero e successore del trono.
Ben diversa è la tradizione etrusca: Servio Tullio sarebbe da identificare con Mastarna, un eroe vulcente amico e commilitone (sodalis) dei fratelli Vibenna (forse loro schiavo), che, dopo una serie di scontri con Roma, alla morte del compagno Celio Vibenna conquista la città e ne diviene re.
A conferma di questa versione esiste un discorso tenuto al Senato nel 48 d.C. dall'imperatore Claudio, appassionato conoscitore della storia etrusca.
La saga dei Vibenna e del sodale Mastarna, che doveva essere ben nota in Etruria, era narrata anche dalle Tuscae Historiae, un testo annalistico citato da Livio e da Varrone e andato perduto.
La sua memoria è conservata nelle pitture di un grande monumento funerario di Vulci, la tomba Francois, appartenuta alla famiglia dei Saties.
Gli affreschi illustrano in sucessione diverse scene che si aprono con la liberazione di Caile Vipinas ( Celio Vibenna ) da parte di Mastarna.
Fanno da contaltare le pitture della parete opposta, rappresentazione di alcuni episodi della guerra di Troia.
Dalla lettura comparata dei cicli pittorici si evince la forte impronta antiromana, che vede gli Etruschi vittoriosi sui Romani discendenti di Enea, così come i Greci lo erano stati sui Troiani.


 
Affreschi della Tomba Francois, da Vulci, seconda metà IV secolo a.C., Roma, Villa Albani, Collezione Torlonia.
 
 
La fortunosa scoperta della tomba Francois si deve al geologo toscano Alessandro Francois, appassionato di archeologia, che nel 1857 la mise in luce nei possedimenti della famiglia Torlonia a Vulci.
La sepoltura presenta una pianta molto articolata, costituita da un lungo corridoio di accesso ( dromos ) che sblocca nell'ambiente principale dalla caratteristica conformazione a T; su questa e sul dromos si aprono le altre camere funerarie.
Caile Vipinas ( Celio Vibenna ), con le mani legate, viene liberato da Mastarna .Nel nome etrusco di Mastarna si riconosce la stessa radice del verbo macstrev (e) che significa "fu comandante".
 
 
 
 
Tutte le scene, richiamando alla memoria le gesta dei fratelli Vibenna e di Mastarna, introducono alla situazione politica del tempo in cui fu costruita la tomba, la seconda metà del IV secolo a.C., e alle lotte allora in corso tra alcune città dell'Etruria a Roma.
In sucessione tre personaggi, Larth Ulthes, Rasce e Aule Vipinas, tutti presumibilmente  di Vulci, si battono vittoriosamente contro tre personaggi di altre città etrusche coalizzate con Roma, verosimilmente Sovana, Falerii e Volsimii.
Marce Camilthas tiene per i capelli, dopo averlo atterrato, Cnaeve Tarchunies Rumach.
Quest'ultimo personaggio, identificato con un Tarquinio di Roma, offre un appiglio cronologico di chiara lettura.
 
 
 
 
 

domenica 30 settembre 2012

Sahara: Gli animali hanno imparato a non bere.

Sahara: Gli animali hanno imparato a non bere.





Chi fa per sè fa pre tre: senza un raffinato lavoro delle piante non sopravviverebbe la vera meraviglia biologica del Sahara, il pio addax che ha fatto voto di ritirarsi asceticamente nel deserto e non bere mai.
Gli addax sono robuste antilopi alte un metro al garrese, con mantello bianco-grigiastro e corna sottili nere.
procedono a piccoli gruppi di 5 a 15 capi, spostandosi nel deserto in continua ricerca di nuovi pascoli, costituiti dagli scarni ciuffi d'erba e in particolare di portulaca, intraprendendo anche lunghe migrazioni stagionali.
Per procedere abbastanza speditamente nella sabbia senza affondarvi hanno gli zoccoli piatti (simili a quelli delle renne, che hanno analoghi problemi di neve), i due principali di ogni zampa divaricabili e il paio secondario notevolmente sviluppato.
Gli addax sono attivi soprattutto al mattino, alla sera e di notte, evitano cioè se appena possono di muoversi sotto il sole a picco, preferendo nelle ore in cui l'irradiazione solare è più violenta, come pure quando spirano forte venti, scavarsi delle fosse con le zampe anteriori nella sabbia, stendendovi ad aspettare che passi.
Tempo già fu in cui gli addax erano molto più abbondanti nel Sahara: documentatamente nell'antico Egitto, quando erano anche allevati allo stato semidomestico, fino a essere tenuti in stalle e foraggiati.
Ne resta la testimonianza in un'incisione rupestre che proclama come Sabu, sacerdote della VI dinastia ( 2323 a. C.), ne possedesse 1244.




Erano utilizzati come animali da tiro e uccisi prevalentemente in occasione di sacrifici alle divinità.
Il personale ad essi addetto aveva persino messo a punto un sistema per renderne innocue le aguzze corna, piegandogliele man mano con apposite pinze durante la crescita.
Quando smisero, già prima dell'era cristiana, d'essere allevati, gli addax non  smisero però d'essere cacciati, e all'inizio del XX secolo erano completamente scomparsi dall'area egiziana, sterminati come  già era avvenuto in Tunisia, nel 1885, come sarebbe avvenuto nel 1920 in Algeria, e poi in Libia e Senegambia.
Sono sopravvissute unicamente le popolazioni che occupavano i territori meridionali e meno accessibili del Sahara, il Tenerè, i grandi Erg, il Majabat, quelli del nord del Ciad.
Popolazioni che sopravvivono alla caccia anche perchè non cadono nella trappola di esporsi raggiungendo inevitabili punti d'abbeverata.
Questo perchè gli addax (ecco il punto del chi fa da sè fa per tre) possono stare settimane e mesi, e c'è chi dice una vita intera, senza bere, traendo l'acqua esclusivamente dalla spesso arida erba che mangiano.
Primato questo che in effetti gli addax condividono con gli orici dalle corna a sciabola, essi pure ridotti dalla caccia indiscriminata a sparuti drappelli nei lembi più meridionali del Sahara.




Sia chiaro: pure il ratto canguro ed altri roditori sahariani prosperano senza mai, anche quando mangiano cibo esso pure secco: il loro ridotto fabbisogno idrico è coperto sia dalla ridottissima quantità d'acqua contenuta nel loro cibo così com'è, sia  da quella che esso cede ulteriormente per reazione chimica una volta che sia stato ossidato dai processi metabolici dell'organismo.
I roditori poi, sono piccoli e abituati a scavarsi tane profonde, dove le variazioni climatiche superficiali arrivano sì e no molto smorzate.
Ma questa è una possibilità preclusa ai grossi mammiferi, che per mantenere regolata la propria temperatura corporea durante la calura quotidiana debbono necessariamente trasudare sostanziali quantità d'acqua.
Quando la temperatura diurna sotto il sole raggiunge picchi come  gli 84°C misurati a Wadi Halfa, un essere umano nel deserto può perdere oltre dieci litri di acqua in sudore, il che prosciugano anche le riserve contenute nel plasma sanguigno (che per il 90% acqua), il sangue diviene troppo viscoso e non riesce più a circolare ovvero a mantenere la temperatura corporea a livello normale.
Anche le "navi del deserto", i dromedari, hanno gli stessi problemi, che il loro organismo mitiga limitando la traspirazione.
Nei lunghi percorsi, comunque, possono perdere anche un terzo del loro peso disidratandosi senza danno, riuscendo a recuoperare abbastanza in fretta bevendo anche 150 litri d'acqua in una volta.


 

 
C'è inoltre, non secondaria, la componente dell'abbattimento dello stimolo della sete, fin quando all'assurdo narrato da Thèodore Monod, i cui dromedari non bevvero per un mese lungo i 900 kilometri da Ouadane ad Araouane, ma alla fine del viaggio dovettero essere costretti a bere, quasi ne avessero perso l'abitudine come il ciuco della storiellina.
L'addax, allora, come fa a non bere? e come fa al tempo stesso a mantenere la propria temperatura senza perdere acqua? Ancora agli inizi degli anni Sessanta il fatto che addax e orice dalle corne a sciabola potessero stare mesi e mesi, addirittura indefinitamente, senza bere nel clima sahariano era ritenuta una storiella mantenuta in circolazione dalle popolazioni indigene e da cacciatori bianchi spacconi.
Poi nel 1964 le ricerche dirette di Taylor e Lyman della Università di Harvard, con questi risultati.





L'uovo di Colombo, si direbbe.
Quando la temperatura esterna si alza oltre quella corporea standard, che sarebbe attorno ai 35°C, l'organismo dell'orice e soprattutto quello dell'addax reagiscono prendendo la situazione "in contropiede", ed anzichè spender acqua per mantenere la propria costante, la innalzano anche di 6/7 gradi di botto, portandola al di sopra di quella esterna: con 40°C ambientali l'orice si porta a 41,2° e l'addax a 42,1°.
Ovvero anzichè disperdere acqua per non  ssorbire calore, si mettono in condizione (è legge fisica termodinamica fondamentale) di disperdere calore.
Ma anche gli altri sahariani hanno i loro trucchi: le formiche sono argentee e le talpe sono dorate, così per le fugaci comparse in superficie la loro livrea respinge, riflettendola, una buona dose di radiazione solare: i ragni del deserto introducono il proprio sperma nell'addome della femmina chiuso in capsule, ed altrettanto fanno i scorpioni, perchè l'incapsulatura impedisce che il seme si dissecchi nel passaggio fra i due corpi ed anche dopo: il gerboa, che pure si scava le tane a profondità fresche, dorme arrotolato su se stesso tenendo il naso contro il ventre, in modo che l'aria secca che ispira si mescoli prima all'umidità lasciata un pelo da quella espirata, umidità che viene recuperata.




Uccelli come gli pteroclidi portano l'acqua ai propri nidacei spargendosi le gocciole fra le piume del petto; le lucertole corazzate di squame come i varani assorbono l'umidità dal terreno notturno non attraverso la pelle, così ricoperta, ma per un fenomeno di capillarità lungo i canalini che l'interstizio forma fra squama e squama.
Il Sahara "deserto" per antonomasia, per nulla dunque deserto, anzi brulicante, mano distruttrice dell'uomo (vedasi addax e orici) permettendo.





sabato 29 settembre 2012

Africa: Griot.

Africa: Griot.

"Un mondo senza griot mancherebbe di sapore come il riso senza salza"
(proverbio peul, Mali)



Quelle dei Griot è l'arte di parlare.
La loro presenza alla corte del Mali nel XIV secolo è attestata dal geografo arabo Ibn Battuta.
Questi bardi e cantori africani sono presenti in varie popolazioni dell'Africa occidentale e soprattutto nelle aree mande.

Si tratta di un'attività in cui possono accedere solo i membri di certe famiglie endogamiche.
Come accade per altre professioni, come quella dei fabbri, anche i griot sono sia temuti che disprezzati: il potere della loro parola può fare le fortune di una persona quanto la sua disgrazia, attirando su di lui spiriti malevoli.
Questa marginalità sociale consente ai griot di avere una certa libertà di espressione (similmente ai buffoni nelle corti europee), talora con comportamenti socialmente trasgressivi, come lo spogliarsi  pubblicamente.
I griot possono esercitare autonomamente in villaggi e città oppure offrire i loro servigi ai nobili, di cui cantano le lodi e tramandano la genealogia.




Hanno quindi un importante funzione sociale, educativa e politica nella trasmissione della memoria storica e nel mettere in relazione le diverse parti della comunità.
I profondi cambiamenti sociali dell'epoca coloniale, con il decadere dei mecenati tradizionali, hanno costretto o consentito ai griot di acquistare fonti di reddito, facendone in qualche caso dei musicisti sulla scena internazionale contemporanea.




Presso i Bamana del Mali la forza della parola dei griot poggia sulla sua valenza di tonico: essa rafforza moralmente e fisicamente la persona a cui è indirizzata intensificando il suo nyama, l'energia che è presente, in diverso grado, in tutti gli esseri, organici e inorganici.
Poeti e musicisti, raccontano storie, forniscono consigli, traducono e interpretano i discorsi degli altri, riportano e diffondono le notizie, svolgono funzioni diplomatiche e mediano nei conflitti, incoraggiano i guerrieri e i partecipanti a competizioni sportive ed elettorali.


 

 
La loro musica ha una sonorità particolare in quanto diversamente dalla musica delle popolazioni più vicine che poggia su una scala  pentatonica, utilizza una scala eptatonica, comunque diversa da quella occidentale.
Gli strumenti musicali dei griots sono la Kora, un'arpa a 21 corde diffusa nell'area mande, il belafon (uno xilofono con tasti in legno) e lo ngoni (un piccolo liuto a tre o quattro corde).
Questi strumenti sono esclusivamente maschili , mentre le donne (griotte) suonano invece delle campane (karinya).
I griot suonano anche dei tamburi detti dunun e piccoli tamburi parlanti; non suonano però il dejimbe, il tamburo più diffuso nella regione che è legato alla casa dei fabbri.