giovedì 27 settembre 2012

Pianeta Scimmia: Birutè Galdikas e gli oranghi del Borneo.


Scientia Antiquitatis :"Pianeta Scimmia"

Pianeta Scimmia:  Birutè Galdikas e gli oranghi del Borneo.
 
 
 
 
 
Al lavoro e al sacrificio di Dian Fossey è seguito, finora, un leggero aumento del numero dei gorilla di montagna.
Tuttavia, secondo i ricercatori che continuano a studiare i nostri più stretti parenti animali, la sopravvivenza di queste specie sembra difficile.
Questo è apparso particolarmente vero a un'assegnataria della N.G.S., Birutè Galdikas, studentessa universitaria californiana fino al giorno in cui, nel 1971, Louis Leakey non la inviò a studiare la terza scimmia del pianeta per dimensioni: l'orango, una specie minacciata di estinzione.
Fin dall'inizio, la sua presenza nel caldo umido delle foreste pluviali del Borneo ebbe un duplice scopo: per prima cosa, bisognava imparare il più possibile sugli oranghi, animali solitari, sfuggenti e poco compresi.
Quella conoscenza, secondo la Galdikas, avrebbe riguardato non solo gli oranghi stessi, "ma anche i loro livelli di adattabilità e le relative implicazioni sulla nostra stessa evoluzione".
Il secondo scopo della Galdikas e di suo marito Brindamour era il recupero degli oranghi in cattività e il loro reinsentimento nella vita libera e selvaggia.
Per lunghi anni, la Galdikas andò in cerca di queste scimmie che vivono a trenta metri dal suolo sotto una cupula vegetale, guardando paludi infestate dalle sanguisughe.
Le sue informazioni confermarono la natura fondamentale solitaria degli oranghi, in netto contrasto con quella di altre scimmie, e delinearono lo schema della loro struttura sociale e delle loro abitudini d'accoppiamento.
Allevando suo figlio, Binti; insieme a una piccola di orango rimasta orfana, Princess, la Galdikas notò "che molti dei tratti associati all'emergere della razza umana erano già espressi nello sviluppo del mio bambino prima che avesse compiuto un anno: l'andatura  pipede, la condivizione del cibo, l'uso di atrezzi, la parola.
Era questo che lo differenziava enormemente da un orango della stessa età".
Più avanti, tuttavia, quando le venne insegnato il linguaggio dei segni, Princess si mostrò un'allieva molto pronta, imparando in un anno più di venti simboli gestuali.
Dal suo canto, Binti si mise a far oscillare le braccia come un orango e ad arrampicarsi sui rami seguendo la sua amica Princess.
 
 
 
 
 
 
Azzardando l'ipotesi che l'evoluzione degli oranghi come creature solitarie potesse essre legata ai cicli irregolari della produzione degli alberi da frutto nelle foreste pluviali, la Galdikas tenne sotto controllo, insieme a suo marito, migliaia di vegetali ogni mese, per registrare quali fruttificavano, quali sviluppavano foglie o fiori e quali li perdevano.
Alla fine arrivarono a catalogare più di trecento famiglie vegetali di cui si cibano gli oranghi: per la Galdikas, studiare queste scimmie significava esaminare attentamente l'habitat.
Lo stesso può dirsi dell'antropologa Cherly Knott, una studiosa supportata dalla N.G.S. in tempi più recenti.
Dalle ricerche della Knott è emerso che le considerevoli oscillazioni nella disponobilità di cibo nella foresta pluviale del Borneo influenzavano i livelli ormonali degli oranghi, il che a sua volta ha ripercussioni sui cicli riproduttivi.
 
 
 
 
 
 
Ciò si può spiegare perchè gli intervalli tra le nascite dei piccoli  di orango siano più lunghi rispetto a quelli che caratterizzano tutti gli altri primati e perchè i cuccioli restino dipendenti dalle loro madri per così tanto tempo.
Esaminando gli schemi alimentari e produttivi degli oranghi, la Knott intende stabilire quali siano le loro prospettive di sopravvivenza nella dimora forestale del  Borneo, ambiente in costante degrado.
Il suo lavoro, insieme a quello della Society, prosegue tuttora.
Il degrado dell'habitat degli oranghi equivale a una minaccia di estinzione.
Con il trascorrere degli anni in Borneo, la Galdikas, come la Fossey del resto, ha dimostrato sempre maggior impegno e interesse nella protezione concreta delle scimmie che stava studiando.
Il suo campo di riabilitazione cominciò a traboccare di ex cuccioli, di orfani e di altri oranghi precedentemente tenuti in cattività, molti dei quali furono restituiti al Borneo dopo essere stati portati all'estero in contrabbando.
 
 
 
 
 
Gli oranghi possono essere reintrodotti alla vita libera con un certo successo, scoprì la Galdikas, ma la vista di queste creature libere costrette a ritornare al campo per nutrirsi dopo tanto tempo passato in libertà è demoralizzante, perchè suggerisce che nella foresta potrebbe non esserci più cibo a sufficienza per loro.
Sorge allora un'altra domanda, che si avverte anche nella delicata situazione delle altre grandi scimmie: come sopravviveranno quando il loro habitat sempre più ristretto non avrà più che sostenerli?.
la risposta, quando arriverà, riguarderà tanto la nostra specie quanto la loro.
 
 
 
 

lunedì 24 settembre 2012

Le grandi spedizioni: Ai confini del globo. Ranulph Fiennes.

Le grandi spedizioni: Ai confini del globo. Ranulph Fiennes.
Il giro del mondo: la via più difficile.

 


"L'idea era completamente insensata" scrisse Ranulph Fiennes, "ma mia moglie, Ginnie, insisteva: "Perchè non facciamo il giro del mondo per la via più difficile, cioè passando dai due Poli?".
"C'erano moltissime ragioni per non farlo", ricorda Fiennes, come se all'esplorazione polare potesse in qualche modo applicarsi la ragione, "e cominciai a elencarle, ma Ginnie è testarda.
E' l'unico viaggio che non è stato ancora tentato ed è assolutamente fattibile".
Quell'estate del 1972, Fiennes, un ex ufficiale dell'Esercito britannico con esperienze sul Nilo e sui ghiacciai norvegesi, a stento riusciva a tirare avanti economicamente, ma l'idea sviluppò una vita propria, innarrestabile come una marea, e il Principe Carlo, che più tardi fu uno dei sostenitori dell'impresa, quando  ne sentì parlare la definì "splendidamente folle".
"Forse è proprio così", pensò Fiennes, "ma allora lo sono stati tutti i grandi pionieri dell'esplorazione polare britannica, splendidamente folli nella loro sfida all'ignoto.
Anche sr Franklin e Scott hanno pagato con la vita, entrambi hanno contribuito enormemente alle conoscenze umane sulle regioni polari.
Un altro inglese, Vivian Fuchs, ha completato la prima traversata dell'Atlantico nel 1957-1958 e l'esploratore Wally Herbert è stato il primo ad attraversare il gelido Mare Artico dieci anni dopo".
Entro il settembre del 1979 Fiennes era pronto, soprattutto grazie al supporto di organizzazioni, imprese e privati. 1800 tra tutti, di ben 19 nazioni.
La spedizione Transglobe, composta da 29 partecipanti tra  i quali Ginnie, salpò dal Tamigi e ben presto si lasciò alle spalle il Canale della Manica.




In Land Rover attraversarono l'Europa e poi l'Africa, nel caldo rovente Sahara, quindi dalla Costa D'Avorio si inbarcarono per Cape Town e proseguirono sino alla banchisa di Fimbul, nell'Antartide.
Il 28 ottobre del 1980 Fiennes partì con due compagni "in motoslitta, per una traversata di 3500 chilometri nel continente antartico, la prima mai effettuata a bordo di veicoli scoperti.
la temperatura si aggirava intorno ai -50°C, dunque era relativamente mite, ma il rischio di congelamento era costante.
L'itinerario scelto non si trovava sulle mappe, così venivano effettuati regolari letture  barometriche per il rilievo topografico.

 
 
 
 
Raggiunsero il "fondo del globo" il 15 dicembre, e là, lo staff di ricercatori della stazione antartica americana Amundsen-Scott li rincuorò con docce calde e gelato.
Continuando il viaggio, il 10 gennaio 1981 raggiunsero la base neozelandese Scott, situata all'altro capo dell'Antartide, alle pendici del fumante vulcano Erebus.
Sei mesi dopo erano in pieno Nord, alle foci del fiume Yukon.
Equipaggiati con gommoni spinti a motori fuori bordo, ne risalirono il corso per quasi 2000  chilometri fino alla città della corsa dell'oro, Dawson City, nel territorio canadese dello Yukon, quindi via terra raggiunsero il fiume Mackenzie.
Dalla foce di quet'ultimo, "a bordo di una baleniera dotata di due motori da 60 cavalli abbiamo attraversato il Passaggio di Nord-Ovest", riportava Finnies nel numero di National Geographic uscito nell'ottobre del 1983, "percorrendo 6400 chilometri in meno di un mese, l'unico viaggio del genere compiuto in un'unica stagione".
Amudsen aveva impiegato per lo stesso percorso più di due anni.
Dopo oltre 300 chilometri di un'estenuante marcia con le racchette da neve fino ad Alert, sulla costa settentrionale dell'isola di  Ellesmere, Fiennes raccontò di essersi accampato per l'inverno insieme ai compagni, aspettando la primavera per l'assalto finale al Polo Nord.
Al momento giusto, erano di nuovo sulle motoslitte, che però si guastarono a causa del tumulto costante del pack.
"Proseguimmo a piedi, ciascuno di noi trainando una slitta carica di rifornimenti e di cibo disidratato, che pesava una settantina di kg.
Dopo 150 terrificanti chilometri di traino, le condizioni del ghiaccio migliorarono e il nostro fedele Twin Otter ci consegnò altre due motoslitte per i restanti 650 chilometri di percorso a zigzag che ci separavano dal Polo.
Arrivammo alla nostra meta la domenica di pasqua, unici ad avere congiunto i due Poli con un itinerario di superficie".
 
 
 
 
Forse i chilometri che Fiennes definì "estenuanti" e "memorabili" si rivelarono tali perchè furoni fra i pochi che percorse a piedi o con le racchette da neve e non su un mezzo meccanico o a bordo di una barca a motore.
Mentre si dirigevano verso sud, un banco di ghiaccio galleggiante alla deriva li tenne intrappolati per 99 giorni, finchè non furono in grado di remare fino a una nave di soccorso distante 20 chilometri.
Nell'agosto del 1982, quasi dieci anni dopo il momento in cui l'idea della spedizione era stata concepita, poterono finalmente iniziare il ritorno verso casa.
Al termine del suo viaggio, al pari di molti altri esploratori, Fiennes si trovò a fare queste considerazioni:
"Probabilmente il risultato più importante da noi ottenuto è da valutare in termini umani piuttosto che geografici.
Abbiamo vissuto a strettissimo contatto per tre  anni in condizioni di pressione eccezzionale e di occasionale pericolo. Ne siamo usciti amici, con una comprensione più profonda della tolleranza e delle capacità umane, entrambe in misura molto superiore a quanto ci saremmo aspettati".
Ormai tranquillo a casa sua e insignito del cavalierato per le sue imprese, Fiennes aggiunse:
"Vivo nell'ansia costante per la prossima idea di Ginnie".
 
 
 
 
 
 

Click misteriosi: 1933: Robert Wilson. Loch Ness.

Le foto che hanno fatto discutere.
Robert Wilson: Loch Ness.

La storia rimase però circoscritta fino al 1933, quando una nuova strada rese l'accesso al Loch più facile e rese il luogo ben visibile dalla riva settentrionale. Da allora in poi si susseguirono i resoconti di avvistamenti della misteriosa creatura.
Nel 1933 venne pubblicata l'immagine più famosa di Nessie, con il collo e la testa che affiorano dalle acque cupe del loch.
La foto, scattata da un rispettabile ginecologo, il colonnello Robert Wilson, rese il mostro una superstar mondiale.
Nel 1994 la stessa foto finì nuovamente sulle prime pagine dei giornali - quando un conoscente di Wilson, Christian Spurling, confessò in punto di morte che il soggetto era un pezzo di plastica attaccato a un sottomarino giocattolo.
 
 
 

La storia del mostro più famoso del mondo nasce nel lontano marzo del 1933, quando fra gli abitanti dei villaggi scozzesi comincia a circolare una leggenda tramandata fin dal 665 dopo Cristo. Eccola: nel Loch Ness (Loch, nell' antico dialetto locale gaelico, significa "lago") vive un essere enorme e misterioso.
Per scoprire se la storia è vera, qualche mese dopo il giornale inglese Daily Mail ingaggia un famoso esploratore, dallo stravagante nome di Marmaduke Wetherell.
Pieno di entusiasmo, il grand' uomo si precipita in Scozia e in poco tempo, praticamente nel giro di tre giorni, riesce in una straordinaria impresa: fotografare le orme del mostro! Si tratta di due impronte chiarissime, del diametro di una ventina di centimetri, che potrebbero essere state lasciate solo da un animale alto almeno sei metri.
 


E così, il 18 dicembre, il Daily Mail pubblica in prima pagina la grande notizia: "Il mostro di Loch Ness è un fatto, non una leggenda". Incauta affermazione! Neanche una settimana dopo, il Museo londinese di Storia Naturale, a cui erano stati inviati i calchi delle impronte, comunica che le suddette non hanno nulla a che vedere con mostri, ma sono state lasciate da zoccoli essiccati di ippopotamo (che ai quei tempi erano usati come sostegno per gli ombrelloni da spiaggia). Per Marmaduke è uno smacco terribile.
Ma la riabilitazione è vicina: tre mesi dopo un medico londinese, Robert Wilson, consegna al Daily Mail una prova inconfutabile: la storica foto in cui dalla superficie del lago emerge il collo lunghissimo di una specie di sauro preistorico.
L'ha scattata, dice, per caso. Per questo l'immagine non è molto chiara. Ma tanto basta per far nascere ufficialmente "Nessie".
Da quel giorno il lago non ha più avuto pace: curiosi e scienziati si sono avvicendati sulle sue rive per trovare altre prove dell' esistenza del mostro. Sonar e palombari, sommergibili e scandagli hanno percorso in lungo e in largo le acque misteriose, ma ogni volta Nessie si è fatto beffe dei suoi cacciatori e delle loro apparecchiature.
Sì, qualche volta è ancora apparso in qualche immagine poco nitida o è spuntato in mezzo al lago in una sera nebbiosa, ma nessuno è mai riuscito a mettergli il laccio al collo.
Né, probabilmente, mai ci riuscirà. Sì, perché l'ultimo discendente di Marmaduke, il figliastro Christian Spurling, scomparso novantenne nel novembre del 1993, prima di morire ha confessato che la famosa foto di Nessie era un trucco: il mostro altro non era che un sottomarino giocattolo a cui era stato incollato un collo serpentino fatto di pasta di legno! Lo scherzo era stato ideato da Marmaduke stesso per vendicarsi di coloro che avevano riso delle sue impronte.


 


 

Natura: Ghepardo. "Duma".

ghepardo. "duma".





Il ghepardo si presenta come un carnivoro eccezionale; occupa una posizione intermedia tra i felidi e canidi. Meritava l’antico nome di Cynailurus cioè “cane-gatto”.
Si avvicina ai felidi per la testa tondeggiante, il mantello a chiazze e la lunga coda.
Altre caratteristiche del corpo lo avvicinano al cane:ad esempio le zampe lunghe e nervose, i piedi dotati di unghie non retrattili, soggette all’usura come quelle dei canidi e meno adatte ad afferrare la preda.
Si tratta di un fenomeno di convergenza, dovuto al forte adattamento di questo animale alla corsa.
Il ghepardo non ha alcuna parentela con in canidi;si può però addomesticare e ammansire come un qualunque canide.
E’ un animale snello e agile, provvisto di zampe lunghe; la testa, piccola, possiede un muso allungato;l’orecchio risulta largo ma breve, l’occhio caratterizzato da una pupilla rotonda, il pelo raso, un po’ ispido, soprattutto sul dorso, di colore variabile.




La tinta base del mantello è generalmente di un bel giallo chiaro, cosparso di piccole macchie rotonde, nere e brune, molto fitte e confuse sul dorso e che formano degli anelli all’estremità della coda.
Il corpo può raggiungere la lunghezza di 1, 50 m e la coda di 75 cm, l’altezza può raggiungere il metro. Una sorta di criniera più o meno lunga orna la nuca. Il ghepardo appare diffuso dall’India, attraverso l’Asia occidentale, fino all’Africa.
Alimentazione e tecnica di caccia del ghepardo: Si nutre principalmente di piccoli o medi ruminanti:molto scaltro, se ne impadronisce con straordinaria abilità.
Le sue prede preferite sono le antilopi.
Di solito si costruisce la tana tra le rocce, sulle colline più basse. Il ghepardo risulta il mammifero più veloce, per questa ragione non sente la necessità di rifugiarsi nel folto delle foreste, con pochi e rapidi balzi sfugge ai suoi nemici notevolmente più lenti nella corsa.
Probabilmente può raggiungere fino a 110 Km/h.
Non appena scorge un branco di gazzelle o antilopi che pascolano, il ghepardo si accovaccia al suolo e avanza a serpentina con movimenti sciolti e silenziosi, in modo da non farsi sentire dalla selvaggina. Avanza sempre sotto vento.
Quando il capo del branco alza la testa per ispezionare i dintorni, il ghepardo si arresta restando immobile e silenzioso.
Poi riprende ad avanzare con cautela, sceglie l’animale più facile da attaccare e gli piomba addosso all’improvviso. Se la vittima riesce a sfuggirgli, si lancia all’inseguimento, la raggiunge in un baleno, la atterra con alcune violente zampate alle gambe, dopodiché la afferra alla gola.




Divora la preda sul posto, cominciando dal cuore e dai reni.
Sebbene velocissimo non resiste ad una corsa prolungata; infatti si stanca presto e può essere raggiunto da un buon cavallo.
Si presenta anche come un buon saltatore, i cui balzi possono raggiungere l’altezza di tre metri, ma risulta incapace di arrampicarsi sugli alberi.La femmina può portare a termine due parti all’anno, ciascuno di due o quattro piccoli.
La gestazione dura 95 giorni.
Curiosità: L’uomo ha approfittato dell’astuzia e dell’eccezionale velocità di questi felidi per ammaestrarli e farli partecipare alle loro imprese come la caccia. In antichità è stato considerato anche come animale di alto pregio. E’ un animale molto docile. Se legato ad una corda, non tenta ne di lacerarla con i denti, ne di romperla a colpi di zampa.




Non aggredirà mai coloro che si sono presi cura di lui e si lascerà avvicinare e accarezzare facilmente.
E’ capace di restare immobile per delle ore, fissando un punto davanti a sé e facendo le fusa come se sognasse. In questi momenti, galline, capre o montoni possono passargli davanti senza paura:non presterà loro alcuna attenzione.
Altri carnivori hanno la prerogativa di distoglierlo dalle sue meditazioni: così, se sente un cane, cessa immediatamente di fare le fusa, fissa l’intruso, drizza gli orecchi e si lancia all’attacco.
In cattività risulta facile nutrire i ghepardi, che tuttavia appaiono più delicati degli altri felidi della stessa mole. Soffrono molto il freddo e non possono vivere in gabbie poco spaziose.
Generalmente la femmina rinuncia ad allattare i piccoli, che bisogna quindi nutrirli artificialmente.




domenica 23 settembre 2012

Tragedia in Nepal: Manaslu fatale per tredici alpinisti.

Sul Manaslu, nella catena dell'Himalaya in Nepal, una valanga ha travolto una spedizione di 35 alpinisti. Sono 13 i morti. Tra le vittime anche un italiano, il milanese Alberto Magliano.






Tragedia della montagna nella notte sul Manaslu, nella catena dell'Himalaya in Nepal, dove una valanga ha travolto una spedizione di 35 alpinisti.
Sono 13 le vittime tra cui un italiano, il milanese Alberto Magliano.
"Dalla montagna si è staccato un seracco e ha innescato la caduta di una montagna di neve che purtroppo ha coinvolto le tende del 'campo 3'", ha raccontato a SkyTg24 un amico degli alpinisti italiani, Marco Confortola.
Altri italiani della spedizione erano invece rientrati sabato al 'campo base'.
Si tratta di una delle peggiori tragedie accadute in Himalaya-Karakorum, nel 2008 sul K2 morirono 11 alpinisti per il crollo di un seracco.
Alcuni alpinisti recuperati sono stati portati a Kathmandu in elicotteri per le cure, ma almeno 8 feriti sono rimasti bloccati al 'campo base' perché gli elicotteri non sono riusciti a levarsi in volo, a causa della scarsa visibilità e del maltempo. Manaslu, una delle vette più alte del mondo, è anche considerata una delle più pericolose, costata la vita a decine di alpinisti e conquistata da poche centinaia.

Magliano era un alpinista molto esperto che, pur avendo iniziato a praticare tardi lo sport (a 36 anni), aveva conquistato le cosiddette Seven Summits. "
A chi mi chiede cosa significhi per me la montagna", scriveva Magliano sulla sua homepage, "ho sempre risposto che è innanzitutto il luogo della mia libertà".

 

Fotografia naturalista: Michael Nichols.

I grandi fotografi: Michael Nichols.




Nato in Alabama, Michael “Nick” Nichols si è spinto negli angoli più remoti del pianeta realizzando fotografie che hanno ottenuto numerosi premi e riconoscimenti.
Nel 1996 è entrato a far parte dello staff della National Geographic Society, per la quale ha realizzato oltre 20 servizi.
Ha trascorso due anni al seguito della spedizione Megatransect, percorrendo a piedi 3.219 km dalle foreste pluviali del Congo alla costa atlantica del Gabon.
Testimonianza preziosa di questa spedizione è il volume L’ultimo abisso verde. Ha vinto quattro premi World Press Photo e altri importanti riconoscimenti.
Nel 1982 l’Overseas Press Club of America gli ha conferito un premio per aver fatto “molto più del proprio dovere”, un onore riservato in genere ai fotografi di guerra.
Nichols è nato nel 1952 e la sua passione per la fotografia ha avuto inizio negli anni ’70 quando è stato assegnato all’Unità fotografica dell’esercito americano.
Dal 1982 al 1995 è stato membro dell’agenzia fotografica Magnum.





Nichols non ha mai incontrato un ostacolo che non sia riuscito a superare. Volete catturare una rara immagine di un leopardo di notte? Individuate una pozza d’acqua, inventatevi una “trappola fotografica” e lasciate che sia il leopardo stesso a scattare la fotografia.
Siete in missione in Africa per qualche mese e finite la pellicola per luce diurna? Utilizzate quella con la sensibilità minore che avete. Amici e conoscenti usano solo pellicole in bianco e nero? Beh, voi scattate a colori, con il flash. Per quasi 40 anni Nichols non ha smesso di sperimentare.







Negli anni ’70 ha firmato servizi sul rafting e sulle arrampicate per la rivista American Geo.
Ha anche preparato degli speciali per Rolling Stone.
Quando si rese conto di poter creare un po’ di movimento nelle sue fotografie con una combinazione di flash e luce naturale, è stato impossibile fermarlo, finché si è guadagnato il nomignolo di “photo vivitar”.
Nel 1980, per realizzare un servizio sui gorilla di montagna, applicò le tecniche che aveva imparato nei documentari fotografici sulla natura, inaugurando un modo nuovo di osservare gli animali.

“Voglio catturare il mistero che c’è laggiù”, ha dichiarato Nichols descrivendo le fotografie mosse, panoramiche e scattate con un flash a schiarita che realizza oggi. “Nelle mie fotografie voglio celebrare la natura selvaggia, non addomesticarla”.
Oggi Nichols si è rivolto al digitale nel modo più proficuo possibile. Il primo servizio l’ha realizzato sul Grand Canyon, poi ha fotografato gli elefanti nel Ciad dove, per ricaricare il computer, ricorreva alla batteria del suo camion o a un generatore portatile.








Adora la capacità delle fotocamere digitali di lavorare bene in condizioni di illuminazione ridotta, sotto la volta della giungla.
La nuova tecnologia, ha dichiarato, sta ringiovanendo la sua creatività perché ora è in grado di sperimentare in modi inesplorati.
“Mi spingo sempre oltre con la velocità di otturazione e ora, finalmente, posso verificare se funziona” ha dichiarato Nichols, che ha appena concluso un documentario sul tour dei Rolling Stones “A Bigger Bang”.

Ogni sera ha sperimentato una nuova velocità di otturazione. La prima sera ha scattato solo a 1/15 di secondo.
La seconda a 1/20. La terza a 1/25 di. “Sono riuscito a scattare a 1/25 e le fotografie ancora esprimevano una grande energia”.
Nichols ha imparato a fotografare nell’esercito, dove la regola era f/8, punto e basta. “Bisognava scattare, prima di preoccuparsi della tecnica”, ricorda Nick, che per la maggior parte della carriera si è dedicato a missioni impossibili.







 

Africa: Società acefale. Sudan, i Nuer.

Africa: Società acefale.

"Noi combattiamo contro i Rengyand, ma quando uno dei nostri due gruppi contro un terzo nemico, ci uniamo per combattere insieme".
(membro della tribù Nuer  dei  Bor).

 
 


Le "società acefale" sono società senza stato, in cui manca un'autorità centralizzata.
Le decisioni politiche sono prese al livello dei linguaggi  (gruppi di discendenza matrilineari o patrilineari che si riconoscono in un antenato mitico e che possono essere anche dispersi sul territorio).
La vita sociale è la risultante di rapporti variabili di alleanza fra clan e lignaggi e dei loro conflitti, cosa che da luogo a continui processi di segmentazione e fusione dei gruppi a seconda delle situazioni che si devono affrontare.
L'opposizione fra società acefale o segmentarie e società statuali non è però netta e gli antropologi hanno individuato anche "stati segmentari", come quello dell'antico Buganda, in cui cioè un potere centralizzato coesiste con i poteri locali, che pur legati a esso, conservano la loro autonomia.
L'esistenza di società segmentarie in Africa, infine, può essere talvolta meglio compresa vedendola il sottoprodotto di società statali, come il risultato di una pressione esercitata da istituzioni politiche più ampie e inglobanti (come quelle degli imperi), su società più deboli, invece di rintracciarvi il punto di partenza di un'evoluzione che ha la forma stato come approdo finale.

 


I Nuer studiati negli anni trenta dall'antropologo Evans Pritchard erano, all'epoca, una popolazione di circa duecentomila persone, divisa in diverse tribù organizzate secondo il sistema della discendenza patrilineare e prive di autorità centrale, con un economia basata sulla pastorizia transumante.
L'equilibrio sociale era prodotto attraverso lo strumento della faida come mezzo di gestione dei conflitti che converte la contrapposizione in una relazione di cooperazione; la pratica della vendetta può essere può infatti essere sospesa attraverso il pagamento di una compensazione che è il "prezzo del sangue".
Proprio il senso del "debito" e del "credito" che anima la faida ne fa un fattore di coesione sociale.




Il bestiame non costituisce solo la base della sussistenza dei Nuer ma il "linguaggio" con cui vengono espresse le relazioni sociali.
I Nuer disprezzano le popolazioni vicine che non ne hanno e lo usano come mezzo di compensazione in caso di omicidi.
E' il bestiame infine che determina la distribuzione delle trbù sul territorio in base ai pascoli e ai punti d'acqua.





"Nome degli Etruschi.

Nome degli Etruschi
Giunsero nel  paese degli Umbri e mutarono il nome di Lidii in un altro, tratto dal figlio del re che gli aveva guidati: prendendo il suo stesso nome si chiamarono Tirreni". (Erodoto).




Etruschi (Etruschi o Tusci, da cui anche il nome di Toscana) è il nome che i popoli di lingua latina davano alle genti definite da tutti i Greci ( a partire da Esiodo) Tyrsenoi o Tyrrenoi, ovvero Tirreni.
La radice Thur, che si ritrova in nomi di città fortificate della Lidia (thur è la torre) e ricorre nei documenti egizi che tra gli invasori popoli del mare annoverano un popolo trs.w, ha costituito a lungo uno degli indizi a supporto dell'origine orientale degli Etruschi, una tesi ormai abbandonata.
Ancora in relazione con il problema dell'origine, la questione del  "vero" nome degli Etruschi viene per la prima volta affrontata criticamente da Dionigi di Alicarnasso.
Per il retore, che sostiene di attingere a fonti etrusche, gli Etruschi danno a se stessi il nome nazionale Rasenna.
Tale nome compare sette volte in iscrizioni etrusche, nella forma "rasna" che diviene tipica dell'Etruria solo dopo il 500 a.C.
La fonte letta da Dionigi (probabilmente un'iscrizione) deve quindi procedere questa data, e d'altra parte l'antichità del nome è documentata anche da ritrovamenti epigrafici.
Alcuni studiosi hanno voluto leggere nella notizia di Dionigi un segnale per rintracciare altrove la provenienza della nazione etrusca: il legame proposto tra Rasenna e il nome delle genti che popolavano le alpi Retiche non regge però dal punto di vista linguistico, e le iscrizioni nel Trentino e nell'Alto Adige che sembrano mostrare somiglianze con l'etrusco sono in realtà molto più tarde.