Il prossimo 22 aprile, per la 33esima volta nella storia, si celebra la Giornata mondiale della Terra e le notizie non sono entusiasmanti: il nostro pianeta non basta più per tutti noi, e la cattiva notizia è che non ne abbiamo un altro.
Se questa affermazione suona paradossale, tuttavia i dati mostrano che se i 7 miliardi di persone che popolano la terra conducessero gli stili di vita del cittadino medio occidentale, oggi un solo mondo non sarebbe sufficiente per tutti: sarebbero necessari 1,5 pianeti.
Nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà quota 9 miliardi; a quel punto, avremmo bisogno di ben 3 Pianeti per ospitarci tutti. Sono i dati diffusi, in occasione del World Earth Day, che avanza alcune proposte e soluzioni alla portata di tutti.
Tra queste, il modello alimentare mediterraneo emerge come possibile strada per ridurre l'impatto ambientale legato ai consumi alimentari, contribuendo al benessere delle persone e del Pianeta.
L’idea che l’umanità dovesse prestare più attenzione alla natura sulla quale poggia i suoi piedi sempre più pesanti maturò nel 1969, a seguito di uno dei primi veri disastri ambientali: la fuoriuscita di petrolio dal pozzo della Union Oil al largo di Santa Barbara, in California.
Il senatore Gaylord Nelson, dopo una visita con le scarpe nel greggio decise che era venuto il momento di agire, di reagire, come si stava facendo contro la guerra nel Vietnam.
L’idea si diffuse a valanga nei college e nelle università e l’anno successivo, il 22 aprile, dilagò nelle piazze.
Poi, dal 1971 è arrivato anche il patrocinio delle Nazioni Unite, ma adesso, dopo tutti questi anni, e dopo tutti i disastri ambientali che si sono succeduti, c’è poco da celebrare.
Meglio riflettere sull’urgenza di cambiare direzione a un modello di sviluppo che da tempo è uscito dai binari e sta continuando la folle corsa come un treno deragliato nella campagna.
Sulle sue carrozze viaggiano contraddizioni che prima o poi esploderanno, con buona pace dei viaggiatori che ci sono seduti sopra: dipendenza dagli idrocarburi, con danni sempre più devastanti per tirare fuori petrolio da ogni dove, e sfruttamento delle risorse alimentari dissennato, che divide il mondo tra chi non ha cibo e chi lo getta in pattumiera.
Mentre la Cina si sta accaparrando mezza Africa, continente sempre più nero, per procacciarsi terre da coltivare, nei Paesi industrializzati un terzo del cibo viene buttato via. Negli Usa, ogni giorno, finisce nelle pattumiere un quantitativo di frutta e verdura che equivale al peso di 19 Boeing 747: 3.300 tonnellate, chilo più, chilo meno.
Londra, in 24 ore, è capace di gettare una quantità di alimenti che riempirebbe 12 mila autobus a due piani e le famiglie inglesi scartano cibo ogni anno per un valore di 14 miliardi di euro: oltre il 70% è costituito da frutta e verdura.
In Ecuador, maggior produttore di banane del mondo, basta un graffio perché la merce venga scartata e di quella che attraversa l’oceano solo il 50% finisce nelle nostre pance. Sono queste alcune delle cifre contenute in uno dei quattro documentari inediti in Italia e distribuiti da Cubovision in occasione della Giornata della Terra.
L’idea che il nostro sia il migliore dei mondi possibili non regge di fronte a questo film, intitolato Global Waste: la società degli sprechi. Il Global Burden of Disease ha di recente reso noto che, per la prima volta nella storia, il numero totale di decessi di chi mangia troppo e male ha superato quello di chi mangia poco o niente.
L’ipertensione arteriosa, cresciuta dal 1990 al 2010 del 27%, è oggi la prima causa di morte in un mondo popolato da oltre 1,5 miliardi di persone obese, di fronte a 868 milioni di denutriti. In altre parole, per ogni essere umano affamato, ce ne sono due che mangiano troppo: se questo è il migliore dei mondi possibili, stiamo freschi.
Altro documentario, si cambia scena: Canada, dove le foreste della provincia dell’Alberta stanno scomparendo a causa dello sfruttamento estensivo del suolo bituminoso per l’estrazione del petrolio. È uno dei più grandi disastri ambientali degli ultimi anni: un’area grande come la Grecia progressivamente ricoperta da una miscela di idrocarburi, asfalto e fumi di scarico.
La linea di confine, dall’alto, è ben visibile: da una parte la natura, con i suoi colori rassicuranti, dall’altra il grigio uniforme creato da chi sta spianando il futuro. Per decenni l’estrazione del petrolio dalla sabbia bituminosa non è stata considerata un’attività redditizia, ma ora che il greggio si sta esaurendo, questa risorsa diventa una vera fortuna.
Il problema è che i procedimenti estrattivi producono un barile e mezzo di rifiuti per ogni barile di petrolio e generano emissioni di CO2 tre volte superiori a quelle derivanti dai pozzi petroliferi del Texas o dell’Arabia Saudita.
I primi a farne le spese sono i membri della popolazione Dene, indiani nativi che abitano queste terre: si ammalano di cancro con una percentuale superiore del 30% rispetto alla media nazionale. In compenso il Canada è diventato il primo fornitore di greggio degli Usa, per un importo di 20 miliardi l’anno e con una produzione che verrà incrementata in modo esponenziale.
L’industria petrolifera bituminosa, nonostante i ricercatori dell’Università dell’Alberta abbiano certificato l’inquinamento mortale di fiumi e laghi della zona, tra cui quello di Athabasca, non si ferma. Anzi: si stima che la produzione verrà triplicata entro il 2020, mentre avanza la costruzione dell’oledotto Keystone XL destinato ad alimentare le raffinerie del Texas con il bitume dell’Alberta.
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