lunedì 21 gennaio 2013

Racconti di viaggio: Messico, riviera Maya tra cerotes, quezal e piramidi.

Da Cancun a Punta Allen: 120 chilometri di costa selvaggia, orlata da spiagge incantevoli, coperta di palme fino al mare e rivestita da una selva fittissima.
E' questa la riviera Maya, una tra le mete più battute dal turismo mondiale, ideale per trascorrere una vacanza nei mesi invernali al caldo dei Tropici.





Una mescolanza di lingue e di nazionalità risuona in tutti i grandi alberghi della costa: per gli americani lo Yucatan è a un paio di ore di volo, i canadesi adorano questo mare turchese orlato in fondo dalle onde bianche del Gran Arrecife Maya, la seconda barriera corallina più importante del mondo e gli europei hanno imparato in fretta la via di fuga da nebbia, neve e freddo invernali.
Fino a trent'anni fa questa costa sul mar dei Caraibi era percorsa solo una strada sterrata, ed è stata per il sottoscritto un'esperienza unica.
Ora ci son ritornato e ho trovato un'altra costa, un'altra atmosfera.
A Tulum avevo dormito nelle "mitiche" cabanas di Don Armando. Non mi sentivo Zorro ma poco ci mancava. Ora ho solo la scelta di un albergo.
Qualche autobus di linea carico di campesinos passava senza orario diretto in Belize o in Guatemala. Ora, tre corsie di autostrada mi portano lungo la costa in due orette.
Sviluppo? mah!
Il cambiamento repentino potrebbe suscitare qualche perplessità e molti dubbi sul futuro.
Ma lo sviluppo è stato guidato, in alcuni casi, con equilibrio, salvaguardando l'ambiente e la popolazione.
Esemplare la riserva Biosfera di Sian Ka' an ("principio del cielo" in lingua Maya), un territorio di oltre 1,5 milioni di acri dichiarati dall'Unesco nel 1986 patrimonio mondiale dell'umanità, ultimo lembo meridionale della Riviera Maya.
Come altri eco-parchi è stata posta sotto protezione e salvata da un disboscamento eccessivo.








Così lo stato più giovane del Messico, il Quintana Roo, creato solo nel 1974 ha preservato, insieme con la splendida intatta naturalezza di questi luoghi, anche la possibilità di lasciare i suoi abitanti nel territorio, occupati e coinvolti nella salvaguardia dell'ambiente.
Gli eco-parchi infatti, non sono concepiti come aree intoccabili e immodificabili, ma come aree reali nelle quali è consentito vivere, lavorare, intervenire sull'ambiente secondo regole ben codificate.
Dentro i parchi ci sono paesi di pescatori, comunità agricole, piccoli centri di artigianato, paesi in cui vivono guide che accompagnano le spedizioni all'interno.
Un esempio di sviluppo intelligente che invita a godere il territorio senza distruggerlo.
Solo una piccola parte di questa area fortemente protetta dalla biosfera di Sian'Ka'an è aperta al turismo.
Ma una parte sufficiente ad assaporare tutte le emozioni della giungla tropicale alta e fitta, della savana bassa e paludosa e della misteriosa larghissima laguna che si apre sul mare.
Io mi sono mosso tranquillamente a piedi nei sentieri indicati, in canoa pagaiando lentamente trascinato dalla corrente all'interno della laguna e avvistando i grandi quezal dalle piume verdi, che i Maya identificavano in un simbolo di bellezza e di abbondanza.
Bene a saperlo...non sono bello, non vivo nell'abbondanza, ma il quezal io l'ho visto!
Tra le mangrovie intricate, universo di scambio vitale tra insetti, rettili, coccodrilli di pantano, passano in volo aironi, ibis, pellicani, trampolieri, ma anche il pappagallo yucateco dalle piume rosse e il tucano reale dalle guance gialle e un enorme becco.
Poco lontano Xcaret (il lingua Maya "piccola cala") è un eco-parco archeologico e didattico dedicato alla fauna di questa zona.







Mariposas, tartarughe, coccodrilli immersi in giardini tropicali pieni di orchidee e in calette tranquille interrotte da fiumi sotterranei raccontano tutte le bellezze del Caribe messicano.
Qui è possibile anche assistere al gioco della palla, antico di 3.500 anni, chiamato pok-to-pok con un nome onomatopeico che ricorda il suono sordo della pelota che rimbalzava sui gomiti e sulle ginocchia.
Non fate come me! basta assistere...
Ancora più affascinanti le grotte di Aktun Chen che si percorrono quasi carponi, in cunicoli che si allargano all'improvviso in un mondo fantastico di stalattiti, stalagmiti immerso nell'acqua di fiumi sotterranei, dove affondano le radici sottili di alberi che crescono sotto terra e nuotano pesci albini.
Un fenomeno questo diffusissimo nello Yucatan, penisola calcarea erosa da centinaia di pozzi collegati tra loro da fiumi sotterranei che si possono percorrere a nuoto con qualche spedizione avventurosa.





Pinne, maschera e boccaglio sono l'attrezzatura indispensabile per osservare non solo la barriera corallina al largo, ma anche il mistero di queste acque dolci nascoste passando da una caverna all'altra con la torcia che illumina nel silenzio il movimento dei pesci e l'affiorare di colonne di pietra millenarie.
Ecco perché ti danno il boccaglio...per non dire cazzate durante l'immersione, in silenzio, appunto.
Oggi immergersi nei pozzi o cenotes dello Yucatan fa parte di un viaggio/avventura.
Un tempo invece i cenotes erano un elemento vitale della cultura Maya.
Usati come cisterne di acqua in una terra che assorbe e lascia filtrare nel calcare tutta l'acqua piovana, erano collegati anche a riti sanguinari come dimostrano i resti di ossa umane trovati nel grande cenotes di Chichen Itza.
I Maya sono ancora vivi in questa parte del Messico percorsa da tracce del passato i ogni crocicchio.







Affascinante il sito di Cobà a quaranta chilometri dal mare, immerso nella selva come i suoi templi in parte nascosti dalla vegetazione foltissima che si infiltra nelle pietre, divora le rovine, mimetizza ogni struttura.
Una piattaforma ancora inesplorata, la Iglesia a gradino dove non è possibile salire (la mia milza ringrazia ancora), sentieri ombreggiati da percorrere in bicicletta o in triciclo e poi il grande tempio di Nohuch Mul, di 42 metri, il più alto dello Yucatan dimostrano l'importanza di Cobà, centro cerimoniale tra il 300 a.C. e il 1000 d.C., capitale delle terre del sud dell'Impero Maya.





Bisogna assolutamente affrontare lo sforzo di salire, gradino dopo gradino, tenendosi alla corda della scalinata per evitare le vertigini e arrivare in cima alla piccola cella superiore che costituisce il coronamento della piramide, come nelle architetture del Peten in Guatemala.
E' lassù, in cima alla scalinata si può finalmente guardare in giù all'orizzonte.
Dove a perdita d'occhio senza fine si stende un mare verde fittissimo, intricato, superbo.
E' la selva tropicale che aveva inghiottito la prima spedizione di Spagnoli illusi, dopo essere sbarcati sulla spiaggia, che la conquista fosse oramai a portata di mano.