lunedì 29 ottobre 2012

Il redazionale più bello: Samira Menezes, L'ammazzateci tutti degli Indios brasiliani.


Da "L'altra città": Corriere della Sera.


Per uno straniero, a Milano, è facile trovarsi di fronte alla parola integrazione, in senso metaforico ovviamente. Si notano tante cose, tanti esempi, a volte ben riusciti a volte no, o non ancora. Ma in questi giorni la parola integrazione mi fa pensare al mio Paese, il Brasile, dove sta accandendo un fatto molto grave.
L´8 ottobre, dopo aver ricevuto da un giudice l’ordine di espulsione dalla terra dove vivevano in condizioni estremamente precarie, un gruppo di 170 indigeni Kaiowá/Guarani ha annunciato in una lettera di non voler lasciare quella terra da loro considerata sacra. Si trovano ai margini di un fiume nella città di Iguatemi, nello Stato del Mato Grosso del Sud (centro ovest brasiliano) e nella lettera scrivono:
“Chiediamo al Governo e alla Giustizia Federale di non decretare l’ordine di espulsione, ma decretare la nostra morte colettiva e seppellire tutti noi qui. Chiediamo, una volta per tutte, di decretare la nostra estinzione totale, oltre a enviare diversi trattori per fare un grande buco dove poter seppellire i nostri corpi. Questa è la nostra richiesta ai giudici federali”.
Gli índios aprono così la possibilità a un finale tragico a una storia che da secoli viene scritta in un modo molto triste. Storia che è stata trattata anche dal regista italiano Marco Bechis nel film La terra degli uomini rossi, uscito in Italia nel settembre di 2008. Se da un latto il governo brasiliano, condizionato dafazendeiros interessati a sfruttare la terra con il bestiame, la soia e la legna, ignora alcuni dei diritti più basilari di questi esseri umani, come il diritto a un luogo dove vivere; dall’altro lato, gran parte dell’opinione pubblica resta in silenzio perché la realtà di questi indigeni è molto distante della vita quotidiana di grandi città come San Paolo e Rio de Janeiro.
E mentre per questi índios uscire della propria terra significa migrare nelle città dove probabilmente saranno obligati a mendicare e prostituirsi, restare dove sono nati significa convivere con la paura.
Circondati dai killer assoldati dai fazendeiros per sgomberare le terre, gli índios Kaiowá/Guarani sono vittime di violenza quotidiana. Sembra incredibile, ma la soluzione per molti di loro è il suicidio: dal 1986 a settembre del 1999, 308 indigeni di età fra 12 e 24 anni si sono tolti la vita impiccandosi a un albero o avvelenandosi. E dal 2000 al 2011 più di 500.
La stessa soluzione che ora minacciano questi 50 uomini, 50 donne e i loro 70 bambini che il Brasile del “Carnaval” non permette che si integrino nella propria terra.

La redazione di "Scientia Antiquitatis" premia "L'ammazzateci tutti degli Indios brasiliani", di Samira  Menezes, come il più bel redazionale della settimana.
Se il lettori desiderano commentare l'articolo lo possono fare a scientiantiquitatis@gmail.com.
I commenti verranno pubblicati alla fine del post.


Ma è possibile che non si possa fare niente?
Sandra

E lo chiamano paese democratico.
Luigi

La frase storica del Ministro brasiliano Helio Jaquribe del 1993: "Dobbiamo farla finita con gli Indios entro il 2000".
Nel mondo ci sono tante etnie che stanno scomparendo.
Sono favorevole a salvare tutte le specie animali del mondo ma sono anche favorevole a salvare tutte le etnie del mondo.
Cinzia

Ho documentato per lavoro l'etnia Guaranì nel 1997. E già al tempo erano molto in difficoltà.
Adriano

E' tutto molto triste...
Claudia






domenica 28 ottobre 2012

Racconti di viaggio: Nepal, un viaggio in cima al mondo.

Scoscese bianche, rocce brulle e brune, abitazioni in pietra e tradizioni millenarie. Il Nepal, un quadrilatero di circa 140 chilometri quadrati, è terra di miti e di popoli.
A dominare lo scenario ci sono gli oltre 1.300 monti dell'Himalaya, la catena che si estende a braccia aperte nella parte settentrionale del Paese.



 


La magia di cime bianche con ghiacci perenni intrappolate in un paesaggio montuoso di grande impatto.
Il mito dell'Himalaya e il fascino di luoghi remoti e inaccessibili, in cui il progresso sembra storia d'altri tempi.
Il Nepal è un Paese unico, a metà strada tra India e Cina, un sottile rettangolo di terra dominato dalle rocce e grande quasi la metà dell'Italia.
Io ci sono andato.



 


Iniziare a visitare questo Paese vuol dire prima di tutto imparare a conoscere le radici.
Quelle del Nepal sono ben radicate nelle balconate che dominano il Gangapurna; nella vallata, nascosta da montagne che superano i 7.000 metri d'altezza, l'azzurro del lago, formato dal ritiro del ghiacciaio spezza un paesaggio dominato dal calore brullo della roccia.
Un'altalena di scalini tagliano il panorama, nel quale si distinguono le bandiere buddiste di preghiera e una caratteristica tenda di pastori.
Percorrendo le rive di Langtang, ho potuto notare la flora locale.
Il paesaggio cambia repentinamente e quella che era roccia si trasforma nell'ambiente tipico
della foresta pluviale, fatto di muschi, licheni e orchidee selvatiche.
La storia del Nepal è travagliata: l'unità politica della regione fu raggiunta solo nel 1970 quando il Re Gurkha sottomise i regni di Katmandù, Bhadagaon e Patan.
La Gran Bretagna nel 1816 vi istituì un protettorato commerciale fino a quando nel 1846 la famiglia militare dei Rana sostenuta dall'Inghilterra esautorò di fatto il sovrano, assumendo ereditariamente la carica di Primo Ministro.
I Rana detennero il potere anche dopo la proclamazione dell'indipendenza nel 1923, ma vennero rovesciati nel 1951 da un colpo di stato che mirava a introdurre una monarchia costituzionale.
Nei primi anni sessanta furono vietati i partiti politici e fu istituito un regime basato sui consigli notarili.
Il 1972 vede l'ascesa al trono di re Birendra, ma la crisi economica e l'assolutismo di regime avevano generato una situazione di forte tensione sfociata in sanguinose rivolte nel 1985 e nel 1990.
Nel 1991 il Nepal ha visto una cauta riapertura alle regole democratiche con la reintroduzione dei partiti politici e una rilettura della costituzione.



 


Il mio viaggio comincia sotto i ghiacci, nella regione situata a ridosso della catena dell'Himalaya, una sottile lingua di terra chiamata "Rolwaling" (solco) dagli abitanti del luogo.
Una serie di villaggi popolano l'area che si appoggia dolcemente alle cime più alte del mondo.
Ma quello del Rolwaling e tutt'altro che un passaggio uniforme.
La regione può essere divisa, proprio per le sostanziali differenze territoriali, in un area meridionale, in cui si alternano campi terrazzati e boschi di rododendri giganti ( laliguràs), ed un'area settentrionale, più popolosa e vivace.








Qui, nella terra dominata dalla leggenda dello yeti, è possibile riconoscere numerosi "gampa" (monasteri), con la loro architettura essenziale e semplice.
Per raggiungere le cime più alte dell'Himalaya c'è solo una via: il trekking.
Le vette, consigliate solo agli alpinisti più esperti, per molti tratti sono prive di passaggi delineati.
Ho deciso: io comincio a passeggiare e dove arrivo...arrivo.
Per fortuna mi hanno detto che lungo il cammino potrò approfittare di alcune abitazioni locali, i lodge adibiti a rifugio. E siccome io sono uno che spesso se ne approfitta, dopo due ore di cammino sono già in un lodge.
Il giorno dopo inizia il vero trekking che mi porterà sino alla valle di Gokyo dopo tre giorni di cammino.
Duro, ma il paesaggio è incredibile. Mi sento vicino a Dio.
Raggiunta la valle numerosi sentieri aprono ai miei occhi incredibili vedute dell'Everest che da solo ripagano la fatica.
Arrivato a Mon-La avverto la sensazione che la salita sia finita: sono immerso in un bosco che, disteso sul letto del fiume, mi fa perdere quota sino all'uscita dalla radura per ammirare in tutto il suo splendore la "Dea Turchese"; così i nepalesi chiamano il Cho Oyu, cima di oltre 8.200 metri.





 


Vedo la cima da giù e mi basta. So che con un altro giorno di cammino mi potrò avvicinare sempre di più alla cima, ma quello che vedo in questo momento ha già dell'incredibile, non mi voglio "far male" ulteriormente.
Il Nepal non è solo l'Himalaya, così il mio viaggio prosegue con un taglio diverso.
Mi voglio godere le tre città più grandi del Paese.
Nella valle di Katmandu, apprezzo le linee medioevali di Bhaktapur.
A dominare la cittadina è l'architettura orientale del XVII secolo, portata dalla dinastia dei Malla, che in quel periodo dominavano le terre che attualmente costituiscono il Nepal.
Qui visito: la piazza principale, Durbar Square, nella quale si affacciano una miriade di templi e statue antichi.







 


Poi faccio rotta verso Terai, per gettarmi nella bellezza del Royal Chitwan National Park; il parco naturalistico nepalese, un tempo riserva di caccia della corona inglese, conserva numerose specie in via di estinzione, tra cui elefanti, rinoceronti, tigri e leopardi.
E dopo aver fatto un giro nelle curiose stradine di questa cittadina, mi preparo a fare ingresso a Katmandu; nella capitale, più moderna e sviluppata, si ispira un'atmosfera meno tradizionale di quella che regna invece in tutti gli altri centri nepalesi.
Se passate da queste parti consiglio a tutti i lettori di Scientia Antiquitatis di visitare la zona chiamata Thamel, piena di mercati molto economici.
Dopo aver acquistato dei prodotti locali, ho chiuso gli occhi, sono tornato con la mente al bianco dei ghiacciai, alla maestosità dell'Everest, ai boschi di orchidee, e mi è venuto quasi a pensare che questo Nepal sia più grande di quanto non mostri la cartina geografica.






Scienza-natura: Il delfino beluga che imitava l'uomo.




Gli uccelli non sono i soli animali che imitano la voce umana: anche alcuni mammiferi marini ci riescono. Ascoltare per credere.
Ha vissuto per trent'anni al National Marine Mammal Foundation di San Diego, in California, e si chiamava NOC - ma per i ricercatori è il "cetaceo parlante".
Gli studiosi si sono accorti di questa straordinaria capacità nel lontano 1984, quando udirono delle voci provenire dai pressi della vasca di NOC, anche se attorno non c'era nessuno.
"Si udiva una specie di conversazione, anche se non si riusciva a distinguere si che cosa si stesse parlando", dice Sam Ridgway dello U.S. Navy Marine Mammal Program di San Diego, che ha condotto uno studio sulle vocalizzazioni del cetaceo.
Alla fine, la fonte del chiacchiericcio venne definitivamente confermata quando un sub che si trovava nella vasca del beluga udì distintamente qualcuno ordinargli di uscire da li: era NOC, che ripeteva un suono simile alla parola inglese out - fuori.




"Non avevo mai sentito niente del genere, per me era un'assoluta novità", dice Ridgway.
Il beluga abbassa la voce per sembrare più umano
Negli anni Ottanta, Ridgway ha registrato le vocalizzazioni di NOC, scoprendo che il ritmo e la frequenza si avvicinavano a quelle della voce umana.
"Quei suoni che imitavano il parlato erano alcune ottave più basse rispetto a quelli emessi di solito dai cetacei", racconta Ridgway, il cui studio è stato pubblicato solo ora sulla rivista Current Biology.
Verso la fine degli anni Ottanta, dopo quattro anni, NOC smise le sue "imitazioni": probabilmente, secondo Ridgway, perché aveva raggiunto la maturità sessuale (NOC è poi morto nel 2007).
Anche secondo il biologo marino Peter Tyack della University of St. Andrews in Scozia, che non ha partecipato allo studio, NOC adottava le intonazioni della parlata umana. L'importanza di questa ricerca, afferma Tyack, è che dimostra come un animale possa, semplicemente ascoltando, produrre suoni del tutto estranei al suo repertorio".
Tyack ritiene però che le imitazioni di NOC fossero meno fedeli all'originale di quelle di Hoover, una foca allevata da una famiglia umana del Maine negli anni Settanta, la quale, all'età di cinque anni, iniziò a imitare le parole umane.
"Hoover aveva persino l'accento del Maine", ricorda Tyack, che ebbe modo di conoscerla.
Perché ci imitano?




Non sappiamo ancora perché un mammifero marino decida di imitare l'uomo, benché la capacità di riprodurre la voce umana sia una conseguenza della più ampia tendenza a imitarsi fra di loro, ipotizza Tyack. I delfini ad esempio imitano il richiamo identificativo l'uno dell'altro, mentre le megattere imparano i canti delle loro simili.
È assai improbabile, aggiunge lo studioso, che NOC o Hoover capissero il senso dei suoni che emettevano.
"L'unico caso in cui è dimostrato che l'animale capiva il senso delle parole che imitava è quello di Alex, un pappagallo cenerino", racconta Tyack.
Addestrando NOC a tollerare un piccolo apparecchio situato nel suo canale nasale, Ridgway e il suo team hanno scoperto che il beluga produceva quegli strani suoni riempiendo le sacche aeree a una pressione di gran lunga maggiore rispetto a quella usata per le normali vocalizzazioni.
Ecco perché la testa di NOC si gonfiava visibilmente quando "parlava". "Per un cetaceo sembra che la voce umana sia molto difficile da imitare", dice Ridgway.




Etruschi: Marineria e pirateria

"I popoli dell'Italia chiamarono uno dei due mari Etrusco, l'altro Adriatico da Adria, colonia degli Etruschi; e per la stessa ragione i Greci li chiamarono "Tirreno" e "Adriatico". ( Livio ).



 


Legata a un'antica vocazione nautica, la talassocrazia ( il dominio sui mari ) viene riconosciuta agli Etruschi sin dall'età del Ferro: lo storico siciliano Eforo informa che pirati tirreni infestavano le acque della Sicilia ancora prima della fondazione delle prime colonie greche.
Ma già nelle intenzioni di Eforo la definizione di "pirati" tradisce la volontà di mettere in cattiva luce la famigerata marineria etrusca anche per un periodo in cui l'attività "di corsa" rientra nei costumi di tutte le società aristocratiche ( quella etrusca come quella omerica ), confondendosi con le sfere dello scambio.
Se a simili scorrerie, più che a guerre organizzate, gli Etruschi devono l'espandersi della propria signora sul mare, l'altra è la situazione in età storica.
La rivalità con i Greci ( soprattutto quelli in Sicilia ) e la propaganda negativa che ne consegue, nascono dal condiviso interesse per un controllo delle rotte che garantisca ( a suon di reciproci attacchi ) migliori approdi e più ricche stazioni di scambio.
Un'aspra lotta che contrappone Etruschi e Greci d'Occidente ( con l'inserimento di Cartagine e Atene ) in scontri che definiscono le sfere di influenza.
Nel lasso di tempo compreso tra la battaglia del Mare Sardo e quella di Cuma, il raggio di navigazione etrusca si riduce nel basso Tirreno, ma si consolida verso nord, tra Populonia, lo scalo di Genova e l'area di Messalia.
La nuova situazione nell'ambito dello spazio mediterraneo conduce anche a spostare il fuoco degli scambi via mare verso l'Adriatico, attivando la nuova realtà politica dell'Etruria padana che prende le redini dei rapporti con Atene.






Aristonoto, cratere con scena di battaglia navale, da Cerveteri, metà VII secolo a.C., Roma, Musei Capitolini.


Il vaso, rinvenuto a Cerveteri, è stato eseguito e firmato da Aristonoto, un artigiano greco che lavora per la committenza cerite.
Le fonti iconografiche permettono di farsi un'idea della forma delle imbarcazioni, in questo momento navigli con scafo rotondo, prua aguzza e poppa alta e curva.
La presenza dello sperone, insidiosamente posto sotto la linea di galleggiamento prevede una tecnica di assalto che mira alla distruzione del nemico, più che alla sua cattura.
La scena del lato sinistro del vaso raffigura una battaglia navale: gli armati sono trasportati da imbarcazioni diverse, quella di sinistra con prua rostrata e rematori, quella di destra più grande e rotonda, forse una nave da carico.



Hydria a figure nere, 520-510 a.C., Toledo, Museum of Art


La pirateria è uno degli strumenti con cui gli Etruschi affermano la propria forte volontà di controllo delle rotte marittime, garantendosi i migliori scali e le stazioni di scambio più vantaggiose.
L'immagine della pirateria etrusca diviene esemplare anche a causa della lettura che ne forniscono le fonti greche, ovvero quella che si potrebbe definire la "propaganda della concorrenza".
In alto al vaso, gli autori classici, soprattutto quelli influenzati dalla storiografia sceliota, tramandano un'immagine dei pirati etruschi che include la crudeltà e il cannibalismo.
Al centro del vaso sotto il tritone che nuota sulla spalla, e richiama l'ambiente marino, la scena principale raffigura il momento della metamorfosi degli uomini delfino che si tuffano in mare.
Il tralcio di vite sulla sinistra allude alla presenza divina di Dionisio.



Elmo con dedica a Zeus dal santuario di Olimpia 474 a.C., Londra British Museum

Rinvenuto nel santuario panellenico di Olimpia, in Grecia, l'elmo reca un'iscrizione che recita: "Ierone figlio di Deinomenes e i Siracusani a Zeus, dal bottino fatto sugli Etruschi a Cuma".
Corsi in aiuto di Cuma, i Siracusani, che secondo lo storico Diodoro "umiliarono i Tirreni e liberarono i Cumani dai loro terrori", infliggono il colpo finale al predominio degli Etruschi sul basso Tirreno.
Il carattere"simbolico" dell'elmo spiega anche perché Ierone, signore di Siracusa, lo scelga come dono e ringraziamento a Zeus per la vittoria ottenuta sulle navi etrusche nella battaglia di Cuma.
Questa tipologia di elmo, estremamente diffusa e utilizzata nel mondo etrusco, giunge ad assumere quasi il carattere di un emblema nazionale, tanto da comparire anche sulle monete di alcune città.




 

L'imperatore Costantino in mostra a Milano.

L'imperatore Costantino  in mostra a Milano con 200 oggetti di archeologia.





Costantino 313 d.C. è il titolo della mostra a Milano presso Palazzo Reale fino al 17 marzo 2013.
Si tratta di una panoramica completa sulla figura dell'imperatore Flavio Valerio Aurelio Costantino che nel 313 emanò l'editto che sanciva la libertà di fede per i cattolici, dopo secoli di persecuzioni.
Milano (Mediolanum) divenne così sia capitale politica e amministrativa dell'impero, che riferimento etico e culturale.
La mostra è progettata e ideata dal Museo Diocesano, riunendo 200 preziosi oggetti d'archeologia e d'arte provenienti da prestigiosi musei italiani e stranieri.
Tra questi spiccano i Musei Capitolini di Roma, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Victoria&Albert Museum e il British Museum di Londra e la National Gallery di Washington. Grazie a questi dettagli si ricostruirà l'atmosfera della Milano capitale imperiale.
Di recente è stato pubblicato il volume Fu vero editto? Costantino e il cristianesimo, tra storia e leggenda (Ancora editore) di Elena Percivaldi. Che analizza i vari aspetti dell'operato dell'imperatore.



sabato 27 ottobre 2012

Profili: Roberto Czeppel






Accompagnatore leader dei viaggi di Scientia Antiquitatis, Roberto Czeppel, entomologo naturalista è nato il 27-9-1944.
Collabora con Scientia Antiquitatis dal 2012 come curatore di testi ed accompagnatore dei viaggi firmati Scientia Antiquitatis in Uganda, Rwanda, Namibia, Kenya e Tanzania.
Ha partecipato a varie spedizioni di ricerca nell' America Centrale, Africa, Asia e Oceania per conto del Museo di Scienze  Naturali  di Milano.
E' anche autore di numerosi reportage su importanti riviste geografiche.
Tutto comincia nel 1971 quando segue il Professore paletnologo, Cornaggia Castiglioni, sui monti Ararat in Anatolia.
Viaggio ricerca che si conclude con la pubblicazione del libro "dopo il diluvio" edito da Sciugar-Co.





Nel 1973 percorre tutto il Sahara occidentale per ricerche antropologiche con il "mito" Cleto Corrain dell'Università di  Padova ed il Professore Omet della cattedra di antropologia dell'Università di  Dortmund.
Questa spedizione entrerà nelle case degli italiani con una diretta al telegiornale, quando la televisione era in bianco e nero e il conduttore era un giovane Piero Angela, per 5 minuti.
In quell'anno è anche socio fondatore dell'associazione studi preistorici di Torino e inizia la preparazione per quello che diventerà il suo "capolavoro" di avventura studio.
Milano-Bagdad  con una vecchia Fiat 500.
Un viaggio incredibile per quei tempi tanto che il settimanale Oggi gli dedica un servizio speciale suddiviso in tre puntate che lascia sgomenti i lettori.
Raggiungere l'Irak con un utilitaria non tanto per un senso di avventura ma solo per  "guardarsi intorno" durante i 12.000 chilometri che dividono l'oriente con il capoluogo lombardo. Un successo.





Negli anni '80 realizza oltre ai viaggi di ricerca per il Museo di Scienze Naturali di  Milano dei reportage per la storica rivista Atlante di De Agostini.
La sua passione è sempre  stata la divulgazione di argomenti scientifici con un tono e una dialettica semplice ma efficace. 
Ha raccontato agli italiani argomenti complessi con una forma simile alla mamma che ti racconta una favola prima di addormentarti.
Negli anni novanta dopo l'incontro  con un fotoreporter milanese inizia un ciclo fantastico che lo porterà in Kenya, Tanzania, Namibia, Haiti, Malawi, Zambia, Zimbabwe, Botswana, Madagascar, isole di Capo Verde, Costa Rica, Thailandia, Australia, Isole Fiji, Sri lanka, India, Congo, Tunisia, Eritrea, Algeria, Marocco, Egitto e  Irak.
Numerosi esemplari repertati sono esposti nei musei di Milano, Firenze, Voghera e all'Istituto di Agraria di Parigi.





Durante una sua spedizione ha immortalato sulla pellicola i miraggi sahariani con una nitidezza  che ha lasciato stupiti i lettori di Progresso Fotografico.
Dal disegno allo srimshaw il passo è stato breve e in pochi anni Roberto Czeppel è riuscito anche ad affermarsi come uno dei migliori incisori a livello internazionale.
Ora, in collaborazione con Scientia Antiquitatis realizza viaggi studio in tutti gli angoli più sperduti nel mondo dove il solo arrivarci ed osservare sono per il viaggiatore un 'esperienza  unica tra sogno e reltà.







Itinerari a piedi: La Corniche di Luxor.





Luxor rappresenta il vertice dell'architettura egiziana.
Fu capitale del Nuovo Regno per 500 gloriosi anni e rimase il centro spirituale del Paese molto più a lungo.
Le rovine di Luxor sono i resti degli edifici più straordinari che siano mai stati costruiti.
In una regione di insediamenti molto antichi, Luxor era un insignificante villaggio di mattoni durante l'Antico Regno.
I re che riunirono l'Egitto sotto il Medio Regno venivano dai dintorni di Ermonti, ma scelsero di essere sepolti sulla riva ovest del Nilo, a Tebe.
A poco a poco, sia il potere politico sia quello spirituale spostarono nella crescente città, fino a farla diventare capitale del regno.
I primi viaggiatori del sec XX descrissero il lungofiume di Luxor, con case coloniali, giardini e terrazze di alberghi, come delizioso.
Oggi è più rumoroso, e manca del romanticismo del passato, ma da quando la Corniche fu restaurata nel 1987, è divenuto luogo di una gradevole passeggiata pomeridiana, quando il sole è appena sceso dietro le rosee colline tebane.
Si parte dal Winter Palace Hotel, fondato nel 1887 e ora rinnovato, ma privo dell'antica gloria.






Dalle sue terrazze la vista verso Tebe attraverso il Nilo è bellissima e il giardino, meno grande di prima, è ancora piacevole.
Si svolta a destra prima del tempio di Luxor e si cammina nel giardino del Wena, già Luxor Hotel, il più antico albergo della cittadina, dove una targa di bronzo commemora il fisico britannico Thomas Longmore ( 1864-1898).
Oltrepassato il Wena, la strada si biforca: qui si trova la più ampia strada che conduce alla stazione.
A sinistra di questa, il souk di Luxor è in parte un bazar per turisti e in parte un mercato alimentare. Si torna sulla Corniche e si prosegue verso destra presso il tempio, dopo due case del XIX secolo appartenute a europei ( oggi una è occupata da un partito politico ).
Sotto la Corniche, sulla sponda del fiume, si trova un nuovo centro commerciale e, dall'altro lato rispetto al Mina Palace, il Museo della Mummificazione.
Nella strada vicina al Mina Palace si trova il Brooke Hospital per animali, che dal 1963 cura i cavalli e gli asini di Luxor.




Più avanti, oltre le rovine del vecchio Savoy, il moderno Etap, famoso per i ricevimenti di nozze.
A destra si trova il moderno edificio del Museo di Luxor e più a nord c'è l'ospedale di Luxor, sostenuto in origine dalle donazioni dei turisti e ora dal governo.
La passeggiata termina alla Chicago House, sede dell'Istituto orientale dell'Università di Chicago, che dal 1924 si occupa dei rilievi dei monumenti.








venerdì 26 ottobre 2012

Ultimissime sulle piramide etrusche a Orvieto.




Un team di archeologi americani e italiani ha individuato le prime piramidi etrusche in assoluto sotto una cantina a Orvieto, in Umbria.
Intagliate nel tufo - materiale risultato dell'attività vulcanica e su cui sorge la città - le piramidi si erano col tempo riempite. Solo lo strato superiore era visibile.
"All'interno di questa sezione superiore, che era stata modificata in epoca moderna e veniva usata come cantina, abbiamo notato una serie di antiche scale scavate nella parete.
Erano chiaramente di costruzione etrusca", dice David B. George del Dipartimento di Studi Classici del Saint Anselm College.
Come hanno cominciato a scavare, George e il co-direttore dello scavo Claudio Bizzarri, del Parco Archeologico Ambientale dell'Orvietano, hanno osservato che le pareti della grotta erano a forma di tronco piramidale.
"È opportuno precisare - spiega Bizzarri - che in quest'area sono conosciute 1200 grotte, questa è quindi una delle tante. In questa cavità un settore specifico è stato analizzato archeologicamente e le sue caratteristiche fanno dire con certezza che la struttura in mattoni di tufo diventa più larga man mano che si scende".
Curiosamente, una serie di gallerie, sempre di costruzione etrusca, correva sotto la cantina suggerendo l'esistenza di altre costruzioni più in profondità.
Dopo aver attraversato un pavimento della metà del XX secolo, George e Bizzarri hanno raggiunto un pavimento medievale.




Immediatamente sotto questo, hanno trovato uno strato di terreno che conteneva diversi manufatti, tra cui ceramica attica a figure rosse dalla metà del V secolo a.C., ceramica del V e VI secolo, e oggetti vari fino al X secolo.
Scavando attraverso questo strato, gli archeologi ne hanno poi trovato uno grigio alto un metro e mezzo, che venne intenzionalmente depositato da un foro nella parte superiore della struttura.
"Sotto quel materiale c'era uno strato marrone che stiamo attualmente scavando.
Curiosamente, le scale di pietra scolpite continuano a scendere mentre continuiamo a scavare. Ancora non sappiamo dove ci stanno portando", ha dichiarato Bizzarri.
Il materiale del livello più profondo raggiunto finora (gli archeologi si sono spinti a quasi 10 metri) risalgono a circa la metà del V secolo a.C.
"A questo livello abbiamo trovato un tunnel che va verso un'altra struttura piramidale e risale a prima del V secolo, il che si aggiunge al mistero", dice George.
Gli Etruschi sono stati a lungo considerati uno dei più grandi enigmi dell'antichità. Noti per la loro arte, agricoltura, lavorazione dei metalli e commercio, la loro civiltà iniziò a decadere nel corso del V secolo a.C., finendo assorbiti dai Romani tra il 300 e il 100 a.C.
La loro lingua non indo-europea praticamente si estinse, e non lasciarono una letteratura per documentare la società.
Gran parte di ciò che sappiamo su di loro proviene infatti dai cimiteri: solo le tombe riccamente decorate hanno fornito indizi per ricostruire la loro storia.
Le piramidi sotterranee di Orvieto potrebbero offrire una visione unica di questa civiltà, visto che le strutture appena scoperte sembrano essere uniche.
"Le grotte hanno una forma sconosciuta altrove in Etruria", sostiene Larissa Bonfante, docente emerita di studi classici presso la New York University, nonché uno delle maggiori esperte degli Etruschi.





Secondo Bizzarri, ci sono almeno cinque piramidi etrusche sotto la città.
E tre di queste sono ancora da scavare.
Dice: "L'Orvieto dell'epoca era tra le più importanti realtà dell'Etruria. Si tratta di luoghi urbani, nella città dei vivi.
E troviamo forme insolite di spazi, di strutture adibite a qualcosa che al momento non possiamo identificare scientificamente.
Di più, abbiamo la presenza di resti di ceramica che rimandano ad attività umane, come i bracieri".
"Cerchiamo di capirne la funzione, al momento attuale non la sappiamo interpretare.
Questo vano non è una cisterna poiché non presenta materiale impermeabile, non è un pozzo poichè non ne ha le caratteristiche note, è un vano a quadrilatero di cinque metri e mezzo per lato, quindi parliamo di dimensioni significative, collegato con altri luoghi attraverso dei cunicoli scavati nel tufo.
È al di sopra di questo strato che collochiamo l'insediamento etrusco". "Direi che non c'è niente come queste strutture in tutta Italia".
Secondo George, le piramidi sotterranee potrebbero rappresentare una sorta di struttura religiosa o una tomba. In entrambi i casi, sarebbe una scoperta senza precedenti.
"Molto probabilmente, la risposta aspetta in fondo. Il problema è che non sappiamo quanto dobbiamo scavare per arrivare laggiù", ha detto Bizzarri.