venerdì 26 ottobre 2012

Maya e Aztechi: Axayacatl

"Oramai era stanco, la fatica ha forse vinto il Padrone di casa, il Datore della vita. Nessuno egli fa invincibile sulla terra" ( Axayacatl).





Axayacatl fu un sovrano dal comportamento non proprio corrispondente all'austera etica che doveva seguire un tlatoani mexica.
Di lui dice sinteticamente il Codice Mendoza: "Fu molto valente e coraggioso in battaglia e col grande vizio delle donne.
Per questo ebbe molte mogli e figli.
Fu superbo e orgoglioso e per questo fu molto temuto dai suoi vassalli".
Altrettanto contraddittori furono i risultati della sua politica estera.
Gli esordi furono brillanti perché impose il dominio di Tenochtitlan  su Tlatelolco, la città gemella che sorgeva a pochi chilometri di distanza.
Secondo le fonti, che tendono a nascondere le vere cause della guerra, probabilmente dovute alla volontà di Tenochtitlan di mettere le mani sulla ricchissima rete commerciale di Tlatelolco, lo scontro fu causato da banali liti sfruttate da Moquihuix, re di Tlatelolco e cognato di di Axayacatl, per provocare sfacciatamente Tenochtitlan.
Dopo la vittoria, Axayacatl riprese le campagne espansionistiche del predecessore conquistando la regione di Toluca.
Tuttavia nel 1479 l'espansione verso occidente degli Aztechi fu fermata dai Taraschi, che inflissero una pesantissima sconfitta all'esercito della Triplice Alleanza.
Per l'imperatore azteco il colpo fu durissimo e, per quanto al ritorno della guerra fosse ricevuto con tutti gli onori, non riuscì più a riprendersi.
Dopo un'altra piccola campagna militare poco brillante, s'ammalò e morì, o forse, fu aiutato a morire dagli stessi sacerdoti mexica.




Gli anni del regno delle principali imprese di Axayacatl, Codice Mendoza, 10r, XVI secolo, Oxford Bodleian Library



Sulla sinistra ( in verde): la serie degli anni corre dall'alto in basso. Il primo anno del regno, l'anno 4 Coniglio, corrisponde al 1470, l'ultimo l'anno 2 Casa, al 1481.
In alto a sinistra: la conquista di Tlatelolco (cumulo di terra).
Il templo Mayor è disegnato sul glifo dlla città e il re Moquihuix (volto sporco e ubriaco) viene gettato dall'alto del tempio.
Al centro-sinistra: Axayacatl e il glifo della parola: Dietro la testa, il glifo del nome.







martedì 23 ottobre 2012

Luoghi: I parchi nazionali della Polonia.

Luoghi: I parchi nazionali della Polonia.





Natura selvaggia.
Delicate orchidee che fioriscono sulla sabbia, giganteschi bisonti che pascolano liberi, dune "sahariane" in riva al mare e foreste come in Canada: è il patrimonio dei parchi nazionali polacchi, ventidue "banche biologiche" di una ricchezza unica in Europa.






Se per caso un giorno, andando per funghi, vi perdete nei boschi, e dopo giorni di cammino vi trovate a tu per tu non con un porcino ma con un bisonte, non preoccupatevi: vuol dire che siete finiti in Polonia.
Così se per caso, facendo jogging su una spiaggia, dopo aver macinato più chilometri di Forrest dump trovate dune alte come colline, non pensate di esservi perso nel Sahara: anche stavolta siete finiti in Polonia.
Se poi in cielo scorgete in cielo una cicogna nera invece che bianca, se sulle dune vedete sbocciare un orchidea o se vi sorpassa un cavallo selvaggio al galoppo, non pensate di aver bevuto due birre di troppo: siete sempre in Polonia.
E' uno strano paese quello che si estende oltre l'Ode: ha ( o ha avuto ) alcune fra le industrie più inquinanti d'Europa; ba basta allontanarsi dalle ciminiere per trovare una natura selvaggia, spettacolare. E Varia: sul baltico, Polonia vuol dire dune come nel Sahara, in Podlachia foreste come in Canada, in Masuria laghi come in Finlandia, sui Tatra pareti a picco come sulle Dolomiti.







A tutelare gli ambienti naturali più interessanti oggi ci sono 22 parchi nazionali, sei dei quali ( Babiogòski, Bieszczadzki, Tatrzanaski, Karkonoski, Bialowieski, Slowinski ) sono così preziosi che l'Unesco li considera "riserve della biosfera".
I primi quattro sono parchi di montagna: il Babiogòrski e il Bieszczadzki, proteggono i monti Beschidi, una catena boscosa abitata da lupi, linci e orsi bruni; il Tatrzanski comprende l'imponente catena dei Tatra; il Karkonoski in fine tutela parte dei Sudeti, una straordinaria "banca biologica" del regno vegetale, dove ci sono fra l'altro 452 specie di muschi, 400 di licheni e 80 di funghi.
Molto diversi sono gli ultimi due, i più famosi di tutti: lo Slowinski ( ovvero il "Parco delle Dune") è infatti un deserto in riva al mare; quanto al Bialowieski, è un immensa foresta di pianura, rimasta vergine dalla preistoria.









Se avete tempo per visitare un parco solo, scegliete il Bialowieski.
La sua porta d'accesso è un villaggio forestale della Podlachia chiamato Bialowieza, cioè "Torre Bianca".
In realtà, laggiù di torri non ce n'è mezza; ma in compenso bianco è tutto, per 5 mesi all'anno, quando la neve copre la distesa di alberi che dal villaggio raggiunge il confine con la Bielorussa e poi lo supera.
Sui due lati della frontiera crescono gli stessi alberi e cade la stessa neve, perché la natura non segue i confini dell'uomo.
Anche se molto ridotto rispetto ai suoi confini naturali, il Bialowieski rappresenta per l'Europa ciò che il Serengeti è per l'Africa e Yellowstone per l'America: cioè un posto dive un continente conserva la sua natura come era in origine, prima che l'uomo ne cambiasse gli equilibri.
La regione fra Polonia e Bielorussa è infatti la fotografia di come era l'Europa diecimila anni fa: una sterminata distesa di conifere (abeti) e latifoglie (tigli, querce, faggi, frassini, olmi), con alberi di età e misure incredibili.
Ben 964 piante del Parco sono così imponenti da meritare il titolo di monumenti nazionali; la lista comprende anche tigli di 400 anni.
La fauna non è da meno.
Camminando i silenzio nella foresta è facile vivere incontri emozionanti: nelle pozze si bagnano alci e cinghiali, nelle radure pascolano i cervi e caprioli, nei torrenti nuotano lontre e castori, nel folto cacciano linci e lupi.











Già questo basterebbe per far perdere la testa a qualunque naturalista; ma le chicche del parco sono altre due: il tarpan, un cavallino selvatico un tempo comune in tutto l'Est; e soprattutto lo zubr, cioè il bisonte europeo, animale simbolo della natura polacca, più grosso e più raro del suo omologo americano.
Lo Slowinski è tutto un altro mondo rispetto al Bialowieski.
I due parchi distano tra di loro 600 chilometri, cioè quanti ne corrono dalle pianure della Podlachia al Mar Baltico: lo Slowinski si stende infatti molto a nord, a ridosso del porto di Leba, dove ogni anno approdino battelli cariche di sogliole e gamberetti.
Tutti lo chiamano "Il Parco delle Dune" o "Sahara Polacco", ma sono nomi impropri: infatti gli spettacolari monti di sabbia per cui lo Slowinski è famoso coprono solo il 5% dell'area protetta.
La maggior parte del Parco "sahariano" è occupata da due laghi, il Lesbko e il Gardno, ex baie che una fila di dune ha staccato dal mare.
Ma in fondo sono proprio quei laghi, luminosi e improbabili come miraggi, la vera ricchezza del Parco: infatti le loro acque, in posizione strategica sulla rotta delle migrazioni, danno asilo a una miriade di uccelli.










Strano Paese, la Polonia:è il minimo che si possa dire, per una terra dove le cicogne vivono nei boschi, i bisonti sono iscritti all'anagrafe e i deserti fanno da cornice al mare.
E non è tutto, perché se guardate bene tra le dune del Parco Slowinski forse vi capiterà di vedere la cosa più strana di tutte: un'orchidea che fiorisce lassù, proprio in mezzo alla sabbia.
Quel fiore un po' come il bisonte: un souvenir di tempi lontani, quando l'Europa non aveva bisogno di parchi perché tutte le pianure erano foreste e tutte le spiagge vivai.
Ma davvero la Polonia è un Eden intatto? Piacerebbe poterlo dire ma non è così.
Andate oltre l'apparenza: i parchi polacchi sono splendidi ma pieni di problemi.
Anni fa le foreste erano minacciate dai fiumi di industrie troppo spartane, che causavano piogge acide.
Invece oggi il pericolo nasce proprio da chi tenta di rendere l'economia un po' meno spartana.
Di recente Varsavia ha ottenuto dalla Banca Mondiale 146 milioni di dollari per rimodernare l'industria forestale; vuol dire che forse in futuro i boscaioli di Bialowieza camperanno meglio, ma anche che appena fuori dai confini del Parco molti alberi cadranno e ritmi accelerati.
Così gli ecologisti sono sul piede di guerra: chiedono che tutta la foresta diventi area protetta.
Ma questa è tutta un'altra storia, ancora da scrivere.
Solo il titolo è pronto: Bisonte Story atto secondo.






Vesuvio e Campi Flegrei, unico bacino magmatico, doppio rischio.




Secondo lo studio di due vulcanologi dell'Osservatorio Vesuviano, i due siti hanno una camera magmatica comune da cui il magma potrebbe risalire in qualunque momento.
Ci sarebbe un'unica, estesa, camera magmatica a 8-10 chilometri di profondità nel Distretto vulcanico napoletano.
Un bacino comune alla caldera dei Campi Flegrei e al Vesuvio, colmo di magma, che potrebbe fuoriuscire in qualsiasi momento e risalire in tempi brevi verso la superficie.
A sostenerlo, in uno studio recente pubblicato nella sezione Scientific Reports della rivista scientifica Nature, due vulcanologi dell'Osservatorio Vesuviano, Lucia Pappalardo e Giuseppe Mastrolorenzo.
I due ricercatori hanno comparato i magmi primari, cioè quelli situati in profondità, nella crosta e nel mantello, del Vesuvio e dei Campi Flegrei e studiato le rocce provenienti dai depositi prodotti dai due sistemi vulcanici nel corso delle eruzioni passate.
"Abbiamo studiato in particolare la velocità di crescita dei minerali, fra cui il sanidino", spiega Pappalardo.
"E, analizzando i rapporti isotopici delle rocce, indicatori della sorgente da cui deriva il magma, ci siamo accorti della somiglianza fra le rocce provenienti dal Vesuvio e quelle provenienti dai Campi Flegrei.
È questo che ci ha fatto pensare all'esistenza di un unico bacino magmatico comune ai due sistemi vulcanici".
Studiando i flussi di calore provenienti dai due complessi vulcanici, maggiori in corrispondenza dei Campi Flegrei e minori man mano ci si avvicina al Vesuvio, i due vulcanologi sono inoltre arrivati alla conclusione che, probabilmente, gran parte della sorgente magmatica si troverebbe in corrispondenza dei Campi Flegrei, considerati un "super vulcano" potenzialmente molto più pericoloso del Vesuvio.




L'ultima eruzione della grande caldera risale al 1538 e, secondo i due ricercatori, sarebbe trascorso abbastanza tempo perché si possa assistere a una nuova eruzione esplosiva: durante il periodo di quiescenza il contenuto del gas sarebbe aumentato, creando le condizioni ideali per una possibile eruzione.
Nel caso dovesse verificarsi, "il processo di risalita del magma sarebbe molto veloce, impiegherebbe pochi giorni", spiega Mastrolorenzo.
 "Ciò significa che dal momento in cui si verificano i fenomeni precursori dell'eruzione (come variazioni delle caratteristiche chimiche e delle temperature delle fumarole, deformazioni del suolo e attività sismica) ci vogliono pochi giorni perché il magma risalga in superficie.
Cosa che, in assenza di un piano di emergenza riguardante i Campi Flegrei, potrebbe provocare dei disastri non solo a livello locale, ma estesi a tutta l'area campana".
L'innesco delle eruzioni è imputabile alla presenza di acqua, o meglio di vapore acqueo, nei magmi presenti sotto ai Campi Flegrei, in grado di generare, attraverso la spinta del gas, condizioni di sovrappressione della camera magmatica, che potrebbero portare alla rottura della parete rocciosa e quindi causare l'eruzione.
"Il magma è molto viscoso e ricco di gas, fattori responsabili delle eruzioni esplosive", continua Pappalardo. "Nella caldera, nei primi 4 chilometri di profondità, sono presenti delle falde acquifere: durante la risalita magmatica, il magma (che si trova a una profondità di circa 7-8 chilometri) incontra questi bacini e il contatto fra acqua e magma è un'ulteriore causa di eruzioni esplosive".




"Per la zona del Vesuvio è stato approntato un piano di emergenza inadeguato, che prende in considerazione la possibilità di un'eruzione intermedia", sottolinea Mastrolorenzo.
"Per i Campi Flegrei, addirittura, il piano non esiste nemmeno: eppure qui le eruzioni - potenzialmente più violente di quelle scatenate dal Vesuvio - possono verificarsi in qualsiasi punto della caldera e alcune zone di Napoli che si trovano al suo interno (i quartieri Soccavo, Fuorigrotta e Posillipo e le frazioni Pianura, Pisani, Agnano) potrebbero ritrovarsi sotto grandi spessori di cenere".
Lo studio condotto da Pappalardo e Mastrolorenzo prende in considerazione lo scenario peggiore.
Ma, conclude Mastrolorenzo, "è proprio quando le autorità sottovalutano gli scenari che si creano i presupposti di una catastrofe. È il passato a insegnarcelo"



L'evoluzione umana è scritta nella sabbia.




Una nuova tecnica di datazione dei granelli di sabbia nei sedimenti che ricoprono i reperti potrebbe far luce sull'evoluzione e le migrazioni dei nostri antenati.
Analizzare i granelli di sabbia dei sedimenti che ricoprono i reperti archeologici potrebbe contribuire a ricostruire il quadro cronologico dell'evoluzione umana.
Per farlo, Zenobia Jacobs e Richard Roberts, due ricercatori della University of Wollongong, in Australia, utilizzano la datazione tramite luminescenza otticamente stimolata (OSL), un metodo sperimentato per la prima volta nella metà degli anni Ottanta, ma che ancora oggi fa fatica ad affermarsi.
In una ricerca pubblicata su Science, i due studiosi sostengono l'importanza di questa tecnica che, attraverso la misurazione della luce assorbita dai granelli di quarzo e di feldspato che compongono i sedimenti, permette di determinare l'età dei reperti fino a 200.000 anni, colmando così quel vuoto cronologico lasciato dalle altre tecniche di datazione: quelle che utilizzano il radiocarbonio, infatti, non riescono ad andare indietro oltre i 50.000 anni.
"La datazione tramite luminescenza otticamente stimolata è un metodo molto utile, perché riempie un intervallo di tempo che gli altri metodi di datazione radiometrica non riescono a colmare", spiega Lorenzo Rook, professore ordinario di Paleontologia dell'Università di Firenze, che non ha preso parte alla ricerca.
"In pratica, permette di datare i singoli grani di quarzo e feldspato e di stabilire la contemporaneità del minerale con l'evento che si intende studiare.
Purtroppo, però, è una tecnica ancora poco diffusa perché di difficile utilizzo: affinché la datazione sia esatta, per esempio, è necessario che i granelli siano stati perfettamente isolati e non abbiano subito contaminazioni".





Per condurre le analisi, Jacobs e Roberts lavorano all'interno di un laboratorio semibuio illuminato soltanto da fioche luci rosse e utilizzano degli apparecchi dotati di laser e sensori di luce, oltre a delle lastre metalliche rotanti contenenti i dischi sui quali vengono collocati i granelli di sabbia per essere analizzati. 
Questi strumenti misurano l'energia degli elettroni intrappolata nei reticoli cristallini dei granelli: se le luci del laboratorio fossero più forti, spingerebbero prematuramente fuori l'energia dagli elettroni, rovinando i campioni.
I granelli di quarzo fungono da orologi naturali: più a lungo sono rimasti sepolti, maggiore è la radiazione naturale assorbita dall'ambiente circostante, che viene immagazzinata dai loro elettroni e poi rilasciata sotto forma di segnale luminoso percepibile nel momento in cui il laser colpisce i granelli.
Questa tecnica, secondo Jacobs, potrebbe fornire un'ulteriore conferma della modernità di Homo neanderthalensis i cui individui, spiega a ABC Science, "possedevano un apparato anatomico per utilizzare il linguaggio e geni come i nostri per controllarlo".
La ricercatrice sostiene che grazie alla OSL sia possibile confrontare le prove archeologiche riguardanti gli individui di Neanderthal e quelle di Homo sapiens e capire se i primi abbiano sviluppato autonomamente il linguaggio o se ciò sia avvenuto solo in seguito al contatto fra le due specie.
Questo metodo potrebbe inoltre aiutare a svelare l'enigma della migrazione dell'uomo dall'Europa al sud-est dell'Asia e all'Australia e a capire, studiando reperti archeologici australiani, come resti di ossa e utensili di pietra, come e quando gli aborigeni arrivarono in Australia per la prima volta.




lunedì 22 ottobre 2012

Egitto: Sakkara, la piramide madre.


A una quindicina di chilometri a sud dell'altipiano di Giza, il sito di Sakkara è a mio avviso il più affascinante dell'Egitto e ancora largamente inesplorato.
Qui, si dimentica l'epoca moderna e si entra in un deserto molto particolare, popolato di dimore d'eternità e dominato dalla piramide a gradoni , il primo monumento gigantesco in pietra da taglio.




Siamo verso il 2670 a.C., ed ecco verificarsi un avvenimento raro: l'incontro di due geni.
L'uno è il faraone Djoser, l'altro un semplice artigiano, creatore di vasi di pietra, divenuto direttore dei lavori.
La sua carriera ci è nota grazie a una iscrizione in geroglifici sul basamento di una statua rinvenuta a Sakkara.
Se Menes ha dato un impulso fondamentale unendo l'Alto e il Basso Egitto, Djoser, "pioniere della pietra", è il primo re costruttore, tanto che, a giusto titolo, si può parlare di un "secolo di Djoser".
La sua statua è esposta al museo del Cairo; una copia si trova a Sakkara, all'interno di una cappella, sua collocazione originaria.
L'autorità e il rigore del sovrano sono impressionanti e si capisce come un personaggio di tale levatura abbia creato l'Antico Regno, l'età d'oro della civiltà faraonica.





Assicurando pace e ricchezza, Djoser si consacrò alla sua grande opera, la piramide madre, nata dal pensiero di un essere eccezionale, Imhotep.
Gran sacerdote di Heliopolis, architetto, mago, medico, questi sintetizzava nella propria persona tutte le scienze del suo tempo.
La sua fama fu tale che attraversò millenni e lo fece considerare come l'unico architetto dei tempi egizi, da Sakkara a Philae, l'ultimo santuario in attività.
Prima di essere nominato direttore dei lavori in un cantiere enorme, Imhotep aveva assolto svariati compiti artigianali e amministrativi.
Rotto a mille difficoltà, dovette tuttavia dar prova delle sue qualità di Gran Veggente lavorando, su scala monumentale, un materiale difficile da maneggiare: la pietra.








Imhotep ebbe prima da spianare un vasto terreno circondato da un fossato, poi delimitarlo con una cinta dotata di quattordici porte chiuse.
Esiste un solo accesso, all'angolo sud orientale di questa area sacra di 15 ettari.
E questo ingresso è straordinario, formata da battenti di pietra, l'unica porta aperta del complesso funerario di Djoser lo rimane per l'eternità.
Questa sorprendente struttura ha una ragione essenziale: la destinazione stessa dei monumenti costruiti da Imhotep.
Essi non lo furono in onore di un re umano, ma per il ka di Djoser, la sua potenza immortale, la sua capacità creativa.
Alla fine di trent'anni di regno, questo ka doveva essere rigenerato ritualmente nel corso di una lunga festa, celebrata alla presenza di tutte le divinità.
Complesso architettonico origianale rimasto unico, Sakkara, al di là del regno di Djoser, aveva la funzione di iscrivere per sempre nella pietra una festa permanente che assicurasse la rigenerazione del ka.
E' invisibile a regnare in quei luoghi, una forza di origine divina che nutre l'istituzione faraonica.





Il complesso funerario di Djoser a Saqqara, III dinastia.

In basso: le mura di cinta del complesso funerario erano circondate da un fossato, che non solo aveva una funzione di rendere difficoltoso l'accesso alla tomba, ma rivestiva anche un valore simbolico: dalle acque primordiali del caos emerge il tumulo di terra su cui avviene la costruzione.
In centro: nel grande cortile era celebrata la festa sed, il giubileo del faraone, nel trentennale della sua salita al trono.
Il rito conferma il vigore fisico del re, che doveva garantire l'ordine cosmico e l'armonia sociale del paese.
A sinistra: sul lato occidentale del cortile si trovano le costruzioni simboleggianti i santuari principali dell'Alto e Basso Egitto, due edifici con volta botte; sono in realtà falsi ambientali, privi di aperture per l'ingresso e di valore puramente religioso.
I santuari arcaici erano costruiti in legno, canne e stuoie.




In origine la tomba del re Djoser era una semplice "mastaba" (panca in arabo) che copriva il pozzo funerario; la mastaba fu poi ampliata per coprire pozzi collaterali e quindi trasformata in una piramide, prima a quattro e successivamente a sei gradini; la struttura raggiunse così l'altezza di 60 metri.
Il cortile antistante la piramide di Djoser è circondato da un muro in blocchi di calcare bianco alto 11 metri.
La facciata esterna della cinta ha un andamento modanato, mosso da un alternarsi di sporgenze e rientranze.
Questa decorazione deriva dalle antiche residenze regali, sostenute da pilastri e chiuse da stuoie.
A nord del complesso si trova una piccola camera chiamata serdab (in arabo ripostiglio) che ospita una statua a grandezza naturale del sovrano, vestito con l'abito giubilare; essi poteva così osservare magicamente il cortile antistante per mezzo di due fessure nella parete.






mercoledì 17 ottobre 2012

Luoghi: Nevada. Great Basin National Park.




Verso la metà del 1800 l'esploratore John Fremont chiamò Great Basin una vasta regione che si estende oggi su una buona parte del territorio del Nevada e dell'Utah occidentale, costituita da vallate ricoperte di artemisie, tra strette catene montuose.
Il nome è dovuto a un sistema di drenaggio molto particolare.
Al suo interno scorrono, tra ben novanta bacini o valli, fiumi e ruscelli che non trovano sbocco verso il mare, ma confluiscono verso i laghi salati poco profondi, paludi e pozze dove l'acqua evapora a causa dell'aria secca e della calda temperatura.
Il panorama replica all'infinito questo singolo tema, facendo seguire una valle e una catena montuosa, poi un'altra valle e un'altra catena, il tutto a partire dalle Wasatch Mountains nell'Utah, fino a Sierra Nevada in California.
Può sembrare monotono: all'infuori dei cespugli verdi di artemisie, non vi è nulla che dia una parvenza di vita immediata, come accade sulla superficie dell'oceano.
Ma sopra questo mare verde le catene montuose formano una sorta di elevato arcipelago: sono come le isole percorse dall'aria fresca e da acque abbondanti, dove crescono tante piante e animali che non potrebbero vivere nel deserto sottostante.
Un' area di circa 312 kilometri quadrati nel Nevada, particolarmente suggestiva ed interessante sotto il profilo neutrale e geologico, è stata trasformata nel parco nazionale Great Basin, il 27 ottobre 1986.






Un parco molto giovane, visitato ogni anno da un numero sempre crescente di viaggiatori, grazie alle numerose e varie attrattive: vette aguzze forgiate da antichi ghiacciai, tra cui il Wheeler Peak, la seconda del Nevada, caverne in cui le rocce si trasformano in ricami e sculture fragili e delicate, morene glaciali, laghi alpini, alberi millenari e panorami da brivido.
La catena dello Snake Range, racchiusa nel parco, costituisce un buon esempio di biogeografia, ossia della relazione che intercorre tra esseri viventi e paesaggio.
Con l'aumentare dell'altitudine, il clima cambia creando habitat per differenti specie di piante ed animali.
Durante l'ultima era glaciale i picchi erano completamente ricoperte dai ghiacci, l'aria era decisamente più fredda e permetteva alle foreste di pini dei tipi Bristlecone e Limber di crescere anche sul fondo della valle e lungo le sponde di laghi sinuosi, il più grande era Lake Bonneville.
Circa 15.000 anni orsono le sue onde lambivano una spiaggia distante più o meno 16 km dall'attuale confine del parco.
Poi tutto cambiò: il clima divenne più caldo, i ghiacciai si sciolsero, i laghi si prosciugarono e la vegetazione caratteristica del deserto, l'unico rifugio possibile per gli animali abituati a un clima temperato.







Ma per molte specie il deserto costituì una barriera invalicabile.
Isolate irrimediabilmente, esse si svilupparono per proprio conto, in modo diverso rispetto ai loro simili, divenendo uniche al mondo.
Lungo le rive del Lake Bonneville, da 30 a 40 mila anni fa, vissero popolazioni umane in cui sono state rinvenute testimonianze archeologiche.
Dall' 800 a.C. al 400 d.C., uomini della Desert Culture abitarono la zona, seguiti da quelli della Fremont Culture, che durò sino al 1300 d.C.
Allora, le genti si spostarono in piccoli villaggi vicini alle attuali cittadine di Baker e Garrison.
Coltivavano grano e fagioli nella valle e cacciavano montagna.
Dopo il 1300 gli indiani Shoshone ed i Paiute si stabilirono in quest'area.





Vivevano in piccoli gruppi vicino alle sorgenti o corsi d'acqua, raccoglievano piante e cacciavano animali, ma la loro dieta si basava principalmente sui pinoli del Pinyon Pine.
La spedizione di John Fremont ebbe luogo nel 1840.
Wheeler Peak prese il nome dal tenente George Wheeler, dell'esercito federale, che trascorse lì gli anni dal 1869 al 1879 disegnando mappe delì'area.
La valle fu abitata dall'uomo bianco a partire dal 1878.
Lehman Caves fu dichiarata monumento nazionale il 24 gennaio 1922 dal presidente Warren G. Harding, mentre l'area di Wheeler Peak fu dichiarata Scenic Areail 13 febbraio 1959.
Entrambe furono racchiuse nel Great Basin national Park il 27 ottobre 1986.









Nel South Snake Range 13 vette superano i 3350 metri.
Qui l'inverno in pratica non finisce mai e la neve può cadere in ogni momento, anche a luglio.
Per sopravvivere le piante devono adattarsi ad una breve stagione di crescita, ad un suolo povero, all'aria sottile e all'intensa radiazione solare.
Forti venti soffiano sui picchi punendo qualsiasi cosa cerchi di superare la linea dell'orizzonte, inclusi gli escursionisti.
Tutto ciò che cresce deve essere e rimanere basso.
I licheni si attaccano alle rocce come se fossero vernice.
Anche i cespugli assomigliano ai bonsai.







Gli alberi che si trovano alle più alte elevazioni sono i pini Limber e Bristlecone, che appaiono tra i 2900 e i 3300 metri.
Nel parco vi sono circa 100 chilometri di sentieri. Abbondano le opportunità di fare gite di più di un giorno, ma pochi sono i tracciati ben mantenuti.
Gli itinerari seguono in genere le creste dei monti o il fondo delle valli.
Attraversare la folta vegetazione di cespugli di mogano può essere molto arduo o a volte addirittura impossibile.
Pianificate quindi bene la vostra gita e registratevi prima della partenza presso il Visitor's center o scrivete il vostro nome in un registro posto all'inizio dei sentieri.
Molti di essi raggiungono altitudini superiori ai 3000 metri.
Preparatevi a improvvisi mutamenti di tempo e portatevi sempre un indumento caldo e un impermeabile o k-way.
Evitate di stare su creste sporgenze rocciose e aree esposte durante temporali.
Se avete un solo giorno di tempo a disposizione e volete avere un'impressione complessiva del parco, imboccate la Scenic Drive e percorrete i sentieri che si snodano al di sotto di Wheeler Peak: quello che porta ad osservare i famosi pini Bristlecone, la vera peculiarità del parco e prima che tramonti il sole fate il giro dei laghi alpini.
Quasi certamente incontrerete tranquille famigliole di cervi muli ( mule deers) che pascolano nei prati vicino agli specchi d'acqua.







Se volete dedicare al parco un secondo giorno potete seguire la visita guidata alle Lehman Caves e quindi salire sul Weeler Peak, visitare il ghiacciaio o percorrere alcuni tra i sentieri della parte sud, molti dei quali raggiungibili da strade non asfaltate e pochissimo frequentate.
Informatevi quindi sulle loro condizioni al Visitor's Center prima della partenza.
Benvenuti in un luogo unico, benvenuti al Great Basin National Park.