Erano andate distrutte la scorsa primavera le tre coppe in ossidiana di Stabia e conservate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli a causa del cedimento di un piano di appoggio che ne provocò la rottura in tantissimi pezzi. Il restauro è stato piuttosto difficile per i lunghi tempi di fissaggio richiesti dall’ossidiana, vetro naturale di origine vulcanica, e perché le coppe erano state già restaurate dopo la scoperta.
Le coppe furono rinvenute durante gli scavi di Villa San Marco, nel 1954 in condizioni assai frammentarie, per unire tutti i pezzi furono necessari due anni di lavoro. Le coppe sono realizzate con filamenti d’oro e pietre dure. Le scene sono di smalto colorato e richiamano il mondo egizio: un piccolo tempio intarsiato con corallo e malachite, offerenti in abiti colorati decorati da perle, il bue Api, il falco Horus e Ibis-Toth.
La terza coppa presenta una decorazione floreale.
Il colore di fondo è il nero e insieme all’assenza di microliti ha lasciato supporre in passato che questo tipo di ossidiana fosse originaria dell’isola di Lipari anche se in Italia, questa di Stabia, sarebbe l’unica attestazione. Stefano De Caro ha, invece, sempre pensato, in base alle decorazioni egittizzanti, a un’ossidiana proveniente dall’Etiopia, dove fu scoperta da un certo Obsidius che le assegnò anche il nome al tempo della vittoriosa spedizione del prefetto dell’Egitto Petronio.
Oggi la geochimica ha escluso una provenienza dell’ossidiana non solo da Lipari, ma anche dalla Sardegna, dalla Grecia e dall’Anatolia perché le coppe sono state ricavate da grossi blocchi dalla consistenza omogenea. Si propende quindi per l’Etiopia per l’origine dell’ossidiana mentre la decorazione fu forse opera di qualche bottega di Alessandria d’Egitto. Le coppe di Stabia si datano tra il I sec. a. C. e il I sec. d. C. La manifattura è ottima e le coppe recuperate dovevano far parte di un ben più ampio e ricco servizio di grande valore anche per la raffinata tecnica esecutiva.
Oggi gli skyphoi, questo il loro nome in greco, sono tornati al museo completamente restaurate, anche se sembra rimasto qualche piccolo e impercettibile segno. Sono stati sistemateiin una nuova vetrina a prova d’urto. Il restauro è stato curato dal Laboratorio della Soprintendenza sotto la guida della dottoressa Luisa Melillo.
Le coppe furono rinvenute durante gli scavi di Villa San Marco, nel 1954 in condizioni assai frammentarie, per unire tutti i pezzi furono necessari due anni di lavoro. Le coppe sono realizzate con filamenti d’oro e pietre dure. Le scene sono di smalto colorato e richiamano il mondo egizio: un piccolo tempio intarsiato con corallo e malachite, offerenti in abiti colorati decorati da perle, il bue Api, il falco Horus e Ibis-Toth.
La terza coppa presenta una decorazione floreale.
Il colore di fondo è il nero e insieme all’assenza di microliti ha lasciato supporre in passato che questo tipo di ossidiana fosse originaria dell’isola di Lipari anche se in Italia, questa di Stabia, sarebbe l’unica attestazione. Stefano De Caro ha, invece, sempre pensato, in base alle decorazioni egittizzanti, a un’ossidiana proveniente dall’Etiopia, dove fu scoperta da un certo Obsidius che le assegnò anche il nome al tempo della vittoriosa spedizione del prefetto dell’Egitto Petronio.
Oggi la geochimica ha escluso una provenienza dell’ossidiana non solo da Lipari, ma anche dalla Sardegna, dalla Grecia e dall’Anatolia perché le coppe sono state ricavate da grossi blocchi dalla consistenza omogenea. Si propende quindi per l’Etiopia per l’origine dell’ossidiana mentre la decorazione fu forse opera di qualche bottega di Alessandria d’Egitto. Le coppe di Stabia si datano tra il I sec. a. C. e il I sec. d. C. La manifattura è ottima e le coppe recuperate dovevano far parte di un ben più ampio e ricco servizio di grande valore anche per la raffinata tecnica esecutiva.
Oggi gli skyphoi, questo il loro nome in greco, sono tornati al museo completamente restaurate, anche se sembra rimasto qualche piccolo e impercettibile segno. Sono stati sistemateiin una nuova vetrina a prova d’urto. Il restauro è stato curato dal Laboratorio della Soprintendenza sotto la guida della dottoressa Luisa Melillo.