Dalle imprese di Hans Meyer ai viaggiatori di oggi.
Il Kilimangiaro, un nome che più di ogni altro richiama alla mente l'Africa orientale, sorge tra il Kenya e la Tanzania.
E ovunque siate, nel parco di Amboseli o nel cratere di Ngorongoro, vedrete la sua vetta stagliarsi maestosa all'orizzonte e in lontananza chiudere la savana, facendo da sfondo alle acacie dalle quali spuntano le teste delle zebre e vegliando sul sonno dei leoni.
E' l'icona dei paesaggi africani, grande come il mondo, immensa, alta e bianchissima, scriveva Ernest Hemingway in uno dei più bei libri dedicati all'Africa, "Le nevi del Kilimangiaro".
Corrono le Range Rover e davanti fuggono all'impazzata gli animali, ma nel cuore di tutti lo stesso folle desiderio: calcare le nevi del Kilimangiaro, il gesto simbolico che conclude degnamente i migliori safari.
Riuscì in questa impresa il tedesco Hans Meyer nel 1889, il primo a calpestare le nevi delle montagne della luna, come le chiamò il geografo greco Claudio Tolomeo che nel secondo secolo della nostra era sfatò le leggende sorte intorno a questo monte fino ad allora avvolto in un alone mistico, e ritenuto inviolabile dalle tribù chagga che ne popolavano le pendici.
Ma mille insidie ostacolano il folle sogno. pur non essendo una cima irrangiungibile, il Kilimangiaro è pur sempre il tetto d'Africa, e dei 120.000 escursionisti che ogni anno intraprendono l'ascensione soltanto 7.000 arrivano alla vetta più alta del Continente Nero, L'Uhuru Peak.
A 5.895 metri di altitudine l'aria è povera di ossigeno e contemplare lo spettacolo grandioso del sole che si leva sopra lo strato di nuvole che ogni giorno, all'alba, si forma ai piedi della montagna, è un privilegio riservato agli scalatori allenati.
Le difficoltà non sono soltanto fisiche ma anche organizzative perchè il Kilimangiaro non è il Monte Bianco, dove basta prendere uno zaino, armarsi di picozza e partire per l'avventura.
Il massiccio si trova entro i confini del parco Nazionale del Kilimangiaro dove per regolamento è fatto obbligo, prima di intraprendere la scalata, versare numerose tasse a una società di trekking debitamente autorizzata.
Una volta assolto questo compito, e dopo aver scelto accuratamente la guida e i portatori, si può dare avvio alla cordata.
I percorsi sono otto e la via più agevole è la Marangu Route che è quella che descriverò.
Il campo base, il villaggio di Marangu, in mezzo a piantagioni di caffè e banani, è una sorta di Katmandù africana, specie per la fauna che vi si aggira, composta da puristi della montagna, scalatori accaniti e perdigiorno affetti dal mal d'Africa.
Qui si può acquistare l'equipaggiamento necessario e si raccolgono per mettersi a vostra disposizione, come altrettanti sherpa, i portatori chagga; il punto d'incontro è all'altezza dell'ufficio postale, in prossimità della fermata del pullman.
Raggiunto il Marangu Gate, a cinque chilometri sopra il villaggio, inizia la prima tappa che porta al rifugio Mandara Hut a 2.750 metri.
Quattro ore di marcia per superare un dislivello di 750 metri, in mezzo a una generosa foresta equatoriale di liane aggrovigliate, di caucciù e alberi giganti, di orchidee e felci, di scimmie blu e uccelli multicolori.
Si accoglie con sollievo la sosta al Mandara Hut perchè il fango e il tasso di umidità hanno smorzato l'entusiasmo iniziale e stremato il corpo.
Che importa se ci si deve accontentare di un dormitorio con i letti a castello; sarete lieti di essere arrivati al rifugio, una dolce locanda dove, venuta la sera, avrete voglia di indugiare accanto al caminetto e restare alzati fino a tardi.
La notte trascorre piacevolmente e assai diversa da quelle che seguiranno.
Al risveglio il programma del giorno annuncia sette ore di marcia, per 14 kilometri e 1.000 metri di dislivello.
Lasciata alle spalle la foresta equatoriale, l'escursionista vede finalmente la cima del kilimangiaro, e, se non è allenato( come il sottoscritto) comincia a dubitare.
A ogni 200 metri di dislivello la temperatura diminuisce di un grado, e a poco a poco l'erba alta lascia il terreno alla brughiera, ai senecioni e alle lobelie; in cielo si librano le aquile; in lontananza, sulle pendici del Mawenzi, a 3.720 metri, ci aspetta il rifugio Horombo Hut, la meta da raggiungere dopo aver attraversato una moltitudine di coni vulcanici, simili a giganteschi termitai;
Il ritmo cardiaco imbizzarisce, ed ecco allora il consiglio del viaggiatore stanco!!! : riposare per un giorno all'Horombo per acclimatarsi, riprendere fiato e prepararsi alla terza tappa che non è propriamente una passeggiata in campagna: si superanno altri 1.000 metri di dislivello per raggiungere il Kibo Hut.
Protagonista assoluta della terza giornata è la natura, sovrana e immensa: un paesaggio desertico e lunare plasmato dal fuoco, dal ghiaccio, dal vento, e in basso la distesa verde della savana, una bellezza sontuosa che annuncia quella sublime che il kilimangiaro ha in serbo per i più tenaci.
L'aria è rarefatta sotto il tetto del Kibo Hut; pochi riescono a dormire a 4.703 metri di altitudine, sicchè all'una del mattino, quando si riprende la marcia, il volto degli escursionisti è segnato da una smorfia di inquietudine.
La temperatura è scesa di venti gradi, il mal di montagna è in agguato; a molti la saggezza consiglia ancora una volta di tornare indietro tanto più che la legge vieta ai portatori di accompagnare gli escursionisti nell'ultimo tratto e li costringe ad aspettare il ritorno al Kibo Hut.
Dopo cinque ore di marcia estenuante, nel momento di calcare la cresta del cratere di Gillman's Point, spunta la luce del giorno e il sipario si alza sul paesaggio più sublime del Kilimangiaro: la caldera ricoperta dal ghiacciaio Furtwangler nel cuore del quale si leva fino a 5.895 metri l'Uhuru Peak.
Un'altra ora di salita tra cattedrali di ghiaccio continuamente rimodellate dal vento e dal riscaldamento del terreno, e finalmente il Kilimangiaro è ai miei piedi; all'orrizonte il sole, che sale sopra le nubi e l'Oceano Indiano, illumina il tetto d'Africa.