giovedì 5 marzo 2015

Qual'è stata la vera causa della scomparsa degli abitanti dell'Isola di Pasqua?.


Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Phys.org propone una teoria alternativa sulla scomparsa degli abitanti di Rapa Nui, uno degli enigmi più sconcertanti della storia.







Nelle solitarie acque dell’Oceano Pacifico, circa 3600 km ad ovest del Cile, si trova Rapa Nui, più nota come Isola di Pasqua.
Questo piccolo pezzo di terra emersa rappresenta uno dei più grandi enigmi dell’antropologia e dell’archeologia moderna.
Innanzitutto, la presenza dei famosi ed enigmatici Moai, grandi busti antropomorfi scolpiti nella roccia. Sull’isola se ne contano ben 638.
Nonostante le ricerche condotte negli ultimi anni, il loro scopo non è tuttora noto con certezza. Secondo la ricerca alternativa, i coloni polinesiani giunti sull’isola intorno a 1100 d.C. non hanno fabbricato i Moai ma li hanno trovati lì.
Secondo la leggenda, infatti, Rapa Nui sarebbe l’ultimo lembo di terra un tempo appartenuto al continente perduto di Mu, sede della prima civiltà umana sorta sul nostro pianeta circa 50 mila anni fa. Dunque, i Moai sarebbero le reliquie di una civiltà arcaica perduta tra le onde dell’Oceano Pacifico.
All’indomani del cataclisma globale avvenuto 12 mila anni fa, che avrebbe sprofondato il continente sul fondo del Pacifico, buona parte dei superstiti di Mu riparò fondando colonie sulle nuove terre emerse, mentre una piccola parte rimase su Rapa Nui.

Isola di Pasqua

L’Isola di Pasqua è una delle isole abitate più remote al mondo. Essa si trova a 3600 km ad ovest delle coste del Cile e circa 2075 km ad est delle isole Pitcairn.
Nonostante la posizione remota, la convinzione abituale degli antropologi è che poco prima del 1200 d.C., alcuni gruppi polinesiani abbiano navigato verso l’isola per stabilirsi lì.
Si ritiene che la popolazione sia cresciuta rapidamente, rimanendo fiorente per centinaia di anni, fino a raggiungere la ragguardevole cifra di 20 mila persone.
Secondo i ricercatori, la fertilità del terreno avrebbe garantito alla popolazione raccolti abbondanti, permettendo la nascita di una cultura molto ricca e concedendo loro il tempo di scolpire ed erigere i famosi busti di pietra detti Moai.
Secondo la teoria comunemente accettata, intorno al 1200, gli abitanti cominciarono a tagliare le foreste subtropicali dell’isola in maniera crescente, per la costruzione di canoe e il trasporto dei Moai. La deforestazione selvaggia distrusse la fauna selvatica naturale e compromise la fertilità della terra.
Quando la gente cominciò a patire la fame, in un ultimo disperato tentativo di sopravvivenza, i superstiti cominciarono a praticare il cannibalismo. La leggenda vuole che il crollo dell’ecologia dell’isola e della sua civiltà furono completi già quando arrivò l’olandese Jakob Roggeveen, la domenica di Pasqua 1722, motivo per il quale l’isola fu battezzata Isola di Pasqua.
All’epoca, l’Isola di Pasqua appariva come una distesa di sabbia vuota priva di quasi tutta la fauna e la flora selvatica. Gli abitanti si erano ridotti ad una popolazione affamata di 3 mila persone.
L’altro enigma che interroga gli scienziati è il motivo della scomparsa degli ultimi abitanti di Rapa Nui, cioè coloro che secondo l’archeologia ufficiale avrebbero poi eretto i Moai.


L’opinione corrente è che la popolazione dell’isola si sia autodistrutta a causa della deforestazione selvaggia, la quale avrebbe compromesso la fertilità del terreno e costretto la popolazione a darsi al cannibalismo.
Per tale motivo, il crollo della civiltà dell’Isola di Pasqua viene spesso usata come un ammonimento contro la follia dell’essere umano che sfrutta senza controllo l’ambiente in cui vive.
Ma un gruppo di scienziati statunitensi del Virginia Commonwealth University ritiene che l’ipotesi del crollo dovuto alla deforestazione è completamente falso e ingannevole.
Nello studio pubblicato su phys.org, il gruppo di ricerca riferisce che la popolazione è stata letteralmente decimata dall’arrivo degli europei sull’isola nel 1722, i quali hanno portato la sifilide, il vaiolo e la deportazione per schiavitù.
Gli scienziati ritengono che un gruppo significativo di individui è riuscito a sopravvivere perfettamente sull’isola dopo che l’ultimo albero fu tagliato. La conclusione è stata suggerita dopo aver trovato numerosi strumenti agricoli sparsi sull’isola, che presumibilmente sono stati utilizzati dagli isolano per il sostentamento.
Le indagini hanno rivelato che invece di esserci stato un crollo improvviso dell’attività agricola, si è registrato un calo molto più graduale in alcune aree. Lo studio è stato salutato con soddisfazione da coloro che non hanno mai creduto alla stupidità estrema degli abitanti dell’Isola di Pasqua.


Wwf, il 22% degli eco-reati sono su animali. Associazione Panda chiede stop a 'crimini di natura'.






Deforestazione, bracconaggio, pesca illegale: sono ''crimini di natura'' che mettono a rischio la sopravvivenza di centinaia di specie, di cui anche l'Italia è vittima. 
Lo ricorda il Wwf in occasione della giornata mondiale della wildlife, #worldwildlifeday, giunta alla seconda edizione (le Nazioni Unite hanno deciso di proclamarla il 3 marzo, anniversario dell'adozione della Convenzione internazionale sul commercio di specie in pericolo, la Cites). 
Il Wwf fa presente che dallo scorso ottobre c'è la campagna 'Stop ai crimini di natura'; ha lanciato in questi mesi una petizione per introdurre il nuovo 'delitto di uccisione di specie selvatiche protette', ''violazione punita sinora con una semplice contravvenzione''. I reati contro la fauna selvatica rappresentano ''il 22% del totale dei reati ambientali''. Finora sono state raccolte oltre 55.000 firme. 
Nel nostro Paese rischiano specie simbolo come il lupo (si calcola che ogni anno siano circa 300 i lupi vittime di questi crimini), orsi, aquile, tartarughe marine.

''Le specie protette, così come gli ambienti naturali e tutta la biodiversità sono un valore e una risorsa che appartiene alla comunità intera - osserva Isabella Pratesi, direttrice conservazione Wwf Italia - i crimini di natura sono un vero e proprio atto contro la democrazia, contro un mondo più equo e giusto e contro un futuro sostenibile e intelligente a cui tutti aspiriamo. I crimini di natura producono nel mondo un fatturato di 213 miliardi di dollari l'anno, un business che alimenta i sistema criminali. 

Fermare questa strage di natura e animali deve essere uno degli obiettivi prioritari nelle agende di governi''. 




Mondo Sommerso: Scoperto un incredibile tempio dell'acqua Maya.


Nei pressi del sito di Cara Blanca, gli archeologi hanno scoperto un incredibile complesso immerso nella foresta del Belize: un tempio maya posto accanto ad una profonda piscina sacra, dove i pellegrini offrivano sacrifici al dio dell'acqua e forse anche ai demoni degli inferi.





Immerso nella tranquillità della foresta del Belize, nei pressi del sito di Cara Blanca, giace uno straordinario, e finora sconosciuto, santuario Maya dedicato alle divinità dell’acqua.
La scoperta è stata fatta da un gruppo internazionale di ricercatori, i quali pubblicheranno i risultati del loro lavoro sul prossimo numero delCambridge Archaeological Journal.
Il complesso sacro si compone di un tempio principale e di due strutture minori, tutte posto accanto ad una piscina profonda, dove i pellegrini offrivano sacrifici a Chaac, la divinità maya della pioggia.
«I pellegrini venivano qui per purificarsi e portare le loro offerte», spiega alNational Geographic la team-leader Lisa Lucero, archeologa dell’Università dell’Illinois. «Era considerato un posto speciale con una funzione sacra».
Lucero e i suoi colleghi hanno esplorato il fondo della piscina sacra per quattro anni, trovando sul fondo numerosi utensili di pietra, cocci di ceramica, denti e artigli fossili, tutti oggetti sacrificati in onore di Chaac.
I ricercatori hanno notato che gli oggetti offerti nei tempi più antichi erano in numero molto minore rispetto a quelli offerti nei periodi tardivi della civiltà Maya. Questo aspetto suggerisce che nel corso dei secoli le siccità diventarono sempre più estreme e i Maya disperati, di conseguenza, chiedevano più aiuto al dio della pioggia Chaac.
Gli studiosi, infatti, pensano che nella prima metà del 1° millennio d.C., i Maya furono sferzati da una serie devastante di siccità, che alla fine ha portato al crollo della loro civiltà. È plausibile pensare che molti maya abbiano risposto a queste condizioni estreme chiedendo aiuto agli dei. Anzi, è possibile che proprio la siccità abbia dato il via ai cosiddetti “culti della siccità”.
«Si tratta del primo esempio di architettura inglobata nel territorio che abbia mai visto», racconta Brent Woodfill, archeologo dell’Università del Minnesota. «È davvero affascinante, e dimostra ancora una volta quanto le grotte e le piscine erano correlate alla visione del mondo dei Maya». Grotte e cenote, infatti, erano considerati dai Maya ingressi al mondo sotterraneo.
Sul fondo della piscina sono stati trovati anche alcuni resti umani. Alcuni ricercatori ipotizzano che si tratti dei resti di sacrifici rituali umani, altri pensano che la piscina sia stata semplicemente utilizzata come luogo di sepoltura per qualche rappresentante dell’elite della società.

martedì 3 marzo 2015

L'origine ignota dei "Popoli del Mare". I veri discendenti di Atlantide?.


Secondo le fonti egiziane risalenti alla 19° dinastia, un tempo remoto esisteva una confederazione di “Popoli del Mare” che, navigando verso il Mar Mediterraneo orientale, sul finire dell'età del bronzo invasero l'Anatolia, la Siria, Palestina, Cipro e l'Egitto. In realtà, non si sa molto su di loro, né quale fosse il luogo di provenienza. Le fonti egiziane descrivono queste popolazioni solo dal punto di vista militare: “Sono venuti dal mare sulle loro navi da guerra, e nessuno poteva andare contro di loro”!




I “Popoli del Mare” sono oggetto di un infinito dibattito tutt’ora in corso tra gli studiosi di storia antica.
Si tratta, infatti, di un gruppo umano di cui si sa molto poco, la cui scarsità di notizie ha favorito il fiorire di numerose di teorie ed ipotesi.
Non si sa chi fossero, nè il loro luogo di origine e nemmeno che fine abbiano fatto. Dunque, la precisa identità di queste “popolazioni del mare” è ancora un enigma per gli studiosi.
Alcuni indizi suggeriscono invece che per gli antichi egizi l’identità e le motivazioni di queste popolazioni erano note. Le poche informazioni che abbiamo, infatti, ci vengono da fonti dell’antico Egitto risalenti alla 19° dinastia.
In realtà, le fonti egizie descrivono tali popoli solo dal punto di vista militare. Sulla stele di Tanis si legge un’iscrizione attribuita a Ramses II, nella quale si legge:
«I ribelli Shardana che nessuno ha mai saputo come combattere, arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, nessuno è mai riuscito a resistergli».
Il fatto che varie civiltà tra cui la civiltà Ittita, Micenea e il regno dei Mitanni scomparvero contemporaneamente attorno al 1175 a.C. ha fatto teorizzare agli studiosi, che ciò fu causato dalle incursioni dei Popoli del Mare.
I resoconti di Ramses sulle razzie dei Popoli del Mare nel mediterraneo orientale sono confermati dalla distruzione di Hatti, Ugarit, Ashkelon e Hazor.
È da notare che queste invasioni non erano soltanto della operazioni militari ma erano accompagnate da grandi movimenti di popolazioni per terra e mare, alla continua ricerca di nuove terre in cui insediarsi.

I Popoli del Mare

Il termine “Popoli del Mare” fa riferimento ad un gruppo composto da dieci popolazioni provenienti dall’Europa meridionale, una sorta di confederazione, che sul finire dell’Età del Bronzo, navigando verso il Mar Mediterraneo orientale, invasero l’Anatolia, la Siria, Palestina, Cipro e l’Egitto.
Le fonti antiche più importanti nelle quali vengono citati i Popoli del Mare sono l’Obelisco di Biblo, databile tra il 2000 e il 1700 a.C., le Lettere di Amarna, la Stele di Tanis e le iscrizioni del faraone Merenptah.
Tra le popolazioni citate nelle iscrizioni antiche, le più intriganti sono certamente i Lukka, gli Shardana, i Šekeleš e i Danuna.


I Lukka

La prima menzione di queste genti compare nell’obelisco di Biblo, dove viene nominato Kwkwn figlio di Rwqq, transliterato Kukunnis figlio di Lukka.
Le terre di Lukka vengono spesso citate anche nei testi ittiti a partire dal II millennio a.C. Denotano una regione situata nella parte sud-occidentale dell’Anatolia. Le terre di Lukka non furono mai poste in modo permanente sotto il controllo ittita, e gli stessi Ittiti le consideravano ostili.
I soldati di Lukka combatterono alleati agli Ittiti nella famosa battaglia di Qadeš (ca. 1274 a.C.) contro il faraone egizio Ramesse II. Tuttavia, un secolo dopo, Lukka si rivolse contro gli Ittiti. Il re ittita Šuppiluliuma II tentò invano di sconfiggere Lukka, i quali contribuirono al collasso dell’impero ittita.

Gli Shardana

Gli Shardana compaiono per la prima volta nelle fonti egiziane nelle lettere di Amarna (1350 a.C. circa) durante il regno di Akhenaton. Vengono poi menzionati durante il regno di Ramses II, Merenptah e Ramses III con i quali ingaggiarono numerose battaglie navali.
Nella raffigurazione vengono dipinti con lunghe spade triangolari, pugnali, lance e uno scudo tondo. Il gonnellino è corto, sono dotati di corazza e di un elmo provvisto di corna.
Le similitudini fra i guerrieri Shardana e quelli dei nuragici della Sardegna, nonché l’assonanza del nome Shardana con quello di Sardi-Sardegna, hanno fatto ipotizzare, ad alcuni, che gli Shardana fossero una popolazione proveniente dalla Sardegna o che si fosse insediata nell’isola in seguito alla tentata invasione dell’Egitto.

I Šekeleš

I Šekeleš, detti anche Sakalasa, vengono citati insieme ad altri otto componenti dei Popoli del Mare nelle iscrizioni commissionate dal faraone Merenptah (13° secolo a.C.).
Sono stati associati ai Siculi, popolazione indoeuropeea che si stanziò nella tarda età del bronzo in Sicilia orientale scacciando verso occidente i Sicani.
Non è escluso che la loro emigrazione in Sicilia possa essere stata precedente agli scontri con l’Egitto di Merenptah, se è affidabile l’alta cronologia della cultura Pantalica I (datata a partire dal 1270 a.C.) e la testimonianza di Ellanico di Mitilene, riportata da Dionigi di Alicarnasso, secondo cui lo sbarco dei Siculi in Sicilia sarebbe avvenuto tre generazioni prima della guerra troiana, intorno al 1275 a.C.; Dionigi riporta anche la datazione fissata da Filisto (ventiquattro anni prima della Guerra di Troia) più o meno contemporanea al conflitto tra il faraone Merneptah e i Popoli del mare.
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I Danuna

I Danuna, o Denyen, sono certamente i più enigmatici. Secondo la leggenda, i Danuna avrebbero lasciato il continente di Atlantide per stabilirsi sull’isola di Rodi.
Questo popolo adorava la dea Danu, una dea primordiale presente nella mitologia di molte culture (da quella celtica a quella indiana). Veniva rappresentata come una luna avvolta dal serpente e che si suppone era considerata la dea madre delle acque.
La mitologia greca tramanda che gli abitanti primordiali dell’isola di Rodi erano chiamati Telchini. Secondo lo storico greco Diodoro, questo popolo aveva il potere di guarire le malattie, di modificare le condizioni atmosferiche e assumere qualsiasi forma desiderassero. Ma non desideravano rivelare le proprie capacità, mostrandosene assai gelosi.
Erano rappresentati sotto forma di esseri anfibi, metà marini e metà terrestri. Avevano la parte inferiore del corpo a forma di pesce o di serpente, oppure i piedi con dita palmate.
Un po’ prima del Diluvio, ebbero il presentimento della catastrofe e lasciarono Rodi, la loro patria, per disperdersi nel mondo. È possibile che la mitologia e le leggende tramandino la storia di un popolo tecnologicamente avanzato, percepito dagli antichi come in possesso di poteri magici?
È possibile che ci sia un collegamento tra i Danuna e i Talchini? Potrebbero essere davvero i superstiti del continente di Atlantide?

C'è una testata nucleare intrappolata da qualche parte in Groenlandia.


Sembra che la storia se ne sia dimenticata, ma nel 1968 un bombardiere B-52 dell'US Air Force con a bordo quattro testate all'idrogeno si schiantò in Groenlandia, a 1118 km a nord del Circolo polare artico.




Nel 1968, in piena guerra fredda, un bombardiere B-52 con a bordo quattro bombe nucleari precipitò nei pressi della base aerea di Thule, in Groenlandia.
Il disastro fu provocato da un incendio nella cabina di pilotaggio che costrinse l’equipaggio ad abbandonare l’aereo. Dei sette militari a bordo, sei riuscirono a salvarsi, mentre uno perse la vita.
Tre delle quattro bombe furono recuperate grazie allo sforzo congiunto e meticoloso che coinvolse sia gli Stati Uniti che i funzionari danesi. Fortunatamente, le bombe rimasero inesplose perché non erano mai state armate dall’equipaggio.
E la quarta bomba dov’è? In un recente documentario trasmesso dalla BBC, si dice chiaramente che la quarta testata nucleare fu abbandonata nel ghiaccio, dopo una massiccia operazione di ricerca.
In realtà, il Pentagono aveva detto per anni che tutte le bombe erano state recuperate e disarmate, fino a quando la BBC, grazie al Freedom of Information Act, ha scoperto la vera storia.
Secondo il Daily Mail, in una sezione declassificata del documento si fa riferimento ad una sezione annerita nel ghiaccio, probabilmente i segni lasciati dall’impatto del bombardiere.
A quanto pare, le ricerche non andarono come dovevano, e la quarta bomba non fu recuperata. Ancora oggi, secondo quanto riporta Jens Zinglersen, ex funzionario della Groenlandia, la zona è ancora off-limits.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, per porre un ulteriore contrappeso alla crescente minaccia sovietica, gli Stati Uniti pensarono di porre un’installazione militare nell’emisfero settentrionale.
Nel 1953 gli Stati Uniti acquistarono il territorio necessario per la base dal governo danese, gli Inuit che risiedevano in quell’area furono indotti dal governo danese a trasferirsi a 110 km a nord, dove attualmente è costituito il villaggio di Qaanaaq.
Pur avendo acquistato il territorio furono conservati i diritti di sovranità della Groenlandia, per cui l’uso della base comporta per gli Stati Uniti il pagamento di un “affitto” ovvero di “cessione temporanea della sovranità”, di 300 milioni di dollari annui.
Tuttavia, nel 1965 il governo danese scoprì che gli americani avevano creato a Thule un deposito di armi nucleari, in barba agli accordi presi in precedenza. L’episodio causò molto attrito diplomatico tra i due stati. L’incidente del bombardiere, avvenuto tre anni dopo, non fece altro che alimentare ulteriori polemiche per quasi 40 anni.



Una sorprendente scoperta archeologica in Irlanda.


Cercavano reperti di 700 anni fa e invece ne hanno trovati di 7000 anni fa! I frammenti di selce scoperti dai ricercatori dimostrano che il sito di Tullyhogue Fort era abitato già nel 5000 a.C.






Presso il sito di Tullyhogue Fort, la collina dove i sovrani della dinastia O’Neill sono stati incoronati tra il 14° e il 17° secolo, gli archeologi hanno scoperto la prova sorprendente di insediamenti risalenti al 5000 a.C., epoca in cui i primi gruppi umani si insediarono in Irlanda.
«Cercavamo reperti di 700 anni fa e invece ne abbiamo trovati alcuni che risalgono a 7000 anni fa», ha detto l’archeologo John O’Keefe al Belfast Telegraph.
I lavori di scavo, che si sono concentranti attorno ai pittoreschi alberi circondati da un tumulo di terra, hanno permesso il ritrovamento di frammenti di utensili in selce risalenti agli albori dell’insediamento umano in Irlanda.
I ricercatori hanno anche scoperto altri preziosi reperti che aiuteranno a ricostruire la storia del sito prima dell’arrivo dei potenti O’Neill. «Credevamo che dagli scavi emergesse una migliore comprensione della storia degli O’Neill, ma ora abbiamo trovato dei reperti che raccontano una storia che non ci aspettavamo di trovare», dice ancora O’Keefe.
«Quello che possiamo dire per ora è che la collina dove sorge Tullyhogue è stato occupato anche da gruppi di cacciatori-raccoglitori, i primi a stabilirsi su quest’isola», continua l’archeologo. «Pensiamo che i primi coloni abbiamo raggiunto il sito seguendo i sistemi fluviali».


In epoca medievale, il sito è stato utilizzato per l’incoronazione dei sovrani della dinastia O’Neill, un gruppo di famiglie che nelle loro mani hanno avuto titoli e posizioni di prestigio.
Essi devono il loro nome a Niall Glúndub un Re supremo d’Irlanda vissuto nel X secolo discendente da Cenél nEógain.
È possibile che il sito, nel corso dei millenni, abbia acquisito una qualche importanza particolare, motivandone la scelta come luogo di incoronazione.
Il toponimo Tullyhogue significa “Collina del giovane guerriero”, o anche “Collina della gioventù”, dal gaelico “Tulloch Oc”.
Certamente, le nuove scoperte spingeranno i ricercatori a più approfondite analisi, cercando di ricostruire la storia di un sito che ha rappresentato qualcosa di significativo per gli antenati irlandesi. «È una scoperta piuttosto interessante», conclude O’Keefe.

I Viaggiatori nel tempo dell'antichità.


Il viaggio nel tempo non è solo la conseguenza teorica delle moderne acquisizioni della fisica. Miti greci narrano di misteriosi personaggi in grado di volare per migliaia di chilometri e di infrangere le barriere dello spazio-tempo. Ecco la straordinaria vicenda di Aristea di Proconneso.






Nei suoi scritti, l’autore greco Strabone cita l’enigmatica figura diAristea di Proconneso, che a suo parere sarebbe stato addirittura il maestro di Omero.
Si ritiene che Strabone sia un personaggio realmente esistito, nonostante la natura leggendaria di molte delle tradizioni che lo riguardano.
Infatti, nella letteratura è ricordato come una persona misteriosa in possesso di straordinari poteri.
I suoi leggendari viaggi sono rimasti impressi nella coscienza e nelle menti degli antichi greci, tanto da sentire la necessità di tramandarne il ricordo alle generazioni successive.
Originario dell’isola del Proconneso (oggi isola di Marmara, nel mare omonimo), secondo quanto riportato dal lessico Suda, le sue attività si sarebbero svolte principalmente durante la cinquantesima Olimpiade (580 a.C.-577 a.C.).
Molte delle testimonianze che lo riguardano riferiscono dei suoi viaggi nelle regioni settentrionali. Secondo Teopompo avrebbe visitato la mitica Iperborea, patria dell’anch’esso mitico popolo degli Iperborei.
Nei miti greci, questa regione viene descritta come era un paese perfetto, illuminato dal sole splendente per sei mesi all’anno. Alcuni autori hanno identificato Iperborea come l’estremità settentrionale del continente perduto di Atlantide, altri ancora con Thule, altri semplicemente con la Scandinavia e il Nord Europa, terre sconosciute e misteriose per gli antichi Greci.
Le modalità di questo lungo viaggio sono riportate da Erodo, il quale credeva che Aristea fosse stato posseduto da Apollo e che lo avrebbe seguito sotto forma di corvo fino alle estreme regioni settentrionali. Così scrive nelle sue “Storie” (IV, 13):
«Aristea di Proconneso, figlio di Castrobio, componendo un poema epico, disse di essere arrivato, invasato da Febo, presso gli Issedoni e che al di là degli Issedoni abitano gli Arimaspi, uomini monocoli, e al di là di questi i grifi custodi dell’oro, e oltre a questi gli Iperborei, che si estendono fino ad un mare.
Tutti costoro, eccetto gli Iperborei, a cominciare dagli Arimaspi aggrediscono di continuo i loro vicini; e così dagli Arimaspi furono scacciati dal loro paese gli Issedoni, dagli Issedoni gli Sciti; e i Cimmeri, che abitano sul mare australe, premuti dagli Sciti, abbandonarono il paese».
Si dice che Aristea avesse il dono dell’ubiquità, cioè la capacità di trovarsi in più luoghi contemporaneamente. Forse, questo suo potere è associato ad un’altra sua straordinaria caratteristica: Aristea era un viaggiatore del tempo.
È sempre Erodoto a raccontare un fatto davvero curioso (Storie, IV, 13-16). Un giorno, Aristea entrò in un negozio di Proconneso e lì, improvvisamente, cadde a terra morto. Subito, il negoziante uscì dal negozio diffondendo la notizia della sua morte.
Tuttavia, un uomo di Cizico, contraddisse la notizia affermando di aver incontrato e parlato con Aristea qualche istante prima. Nessuno credette alla versione fornita dall’uomo.
Quando i familiari di Aristea si mobilitarono per recuperare il corpo nel negozio e organizzare il funerale, con somma meraviglia scoprirono che il corpo del defunto era scomparso. Nessuno era in grado di affermare se Aristea fosse ancora vivo o morto.
Colpo di scena, Aristea ricompare su Proconneso sette anni più tardi, scrivendo il poema nel quale sono descritti i suoi viaggi verso le regioni del nord. Ma non finisce qui! Dopo aver scritto la sua opera, Aristea scompare una seconda volta, per poi ricomparire ben 240 anni dopo!
Il secondo ritorno avvenne nel Metoponto, nei pressi di Taranto. Aristea ordinò la fabbricazione di una statua raffigurante se stesso e la costruzione di un nuovo altare dedicato al dio Apollo, con il quale era stato in viaggio sotto le sembianze di un corvo sacro.
Una storia incredibile! Può un uomo mortale viaggiare attraverso il tempo, comparendo secoli dopo la morte della sua famiglia? È una storia simile al paradosso dei gemelli di Albert Einstein! Aristea ha viaggiato con Apollo a velocità prossime a quelle della luce, rallentando il suo tempo? [Ora qualcuno penserà: «Ma dai!»].
In realtà, Aristea non è l’unico crononauta dei tempi antichi. Proteo, divinità del mare figlio di Poseidone, oltre ad avere la capacità di trasformare se stesso in qualsiasi forma, possedeva il dono di prevedere il futuro. Il suo nome allude al “primo nato”.
Nell’Odissea si racconta che Proteo era solito uscire dal mare verso mezzogiorno per sdraiarsi a riposare all’ombra delle rocce, circondato dal gregge di foche di Poseidone che accudiva.
Chi desiderava sapere dal dio il proprio destino, ricorrendo alle sue facoltà di veggente sincero e veritiero, doveva accostarglisi a quell’ora e coglierlo nel sonno, utilizzando anche la forza bruta per trattenerlo, poiché egli era in grado di trasformarsi per tentare di sfuggire al compito talvolta ingrato di prevedere.
Qual è, dunque, il significato di questi antichi miti? Secondo i ricercatori “ortodossi”, si tratta di semplici racconti immaginifici, il cui significato simbolico non è sempre così chiaro.
Tuttavia, non manca chi crede che questi racconti, arricchiti da elementi leggendari, facciano riferimento a nuclei storici realmente accaduti, tanto impressionanti da spingere i nostri antenati a raccoglierli e a tramandarli in forma scritta ai posteri.
Se così fosse, si tratta di uomini in possesso di tecnologie antiche provenienti dai discendenti di una qualche perduta civiltà avanzata di cui non abbiamo ancora prove certe?
Se invece di tratta solo di racconti immaginari, resta il fatto interessante che i nostri antenati abbiano avuto la capacità di partorire storie su uomini capaci di sfidare le barriere del tempo, indice di una concezione molto sofisticata della quarta dimensione!


martedì 25 novembre 2014

La Piramide di Choulula: La struttura più grande mai costruita dall'uomo.


Si trova a Cholula, vicino a Puebla, in Messico. Con i suoi 4,5 milioni di metri cubi, è la più grande piramide mai costruita sul nostro pianeta.




La Grande Piramide di Cholula, nota in lingua Nahuatl comeTlachihualtepetl (montagna fatta dall’uomo), è un enorme complesso situato a Cholula, Puebla, Messico.
Con i suoi 4,5 milioni di metri cubi, è considerata la più grande struttura mai costruita dall’uomo. Misura 500 metri per lato ed è alta 64 metri. La base della piramide è quattro volte più grande della Grande Piramide di Giza.
Tradizionalmente è considerata come un tempio dedicato al dio Quetzalcoatl, il serpente piumato.
La piramide oggi appare come una collinetta naturale ricoperta d’erba, suddivisa in quattro gradoni. Originariamente aveva, come molte piramidi dell’area messicana, 365 gradini, a simboleggiare i giorni dell’anno.
In realtà, la piramide è il risultato di sei momenti costruttivi sovrapposti, di cui uno solo è stato nuovamente portato alla luce. Oggi, sulla sua sommità, dove una volta si trovava il tempio, si trova una chiesa cattolica dedicata a Nuestra Señora de los Remedios, Nostra Signora dei Rimedi, che risale al 1594.





Non si sa esattamente quando sia iniziata la costruzione della piramide, ma gli archeologi ipotizzano che sia stata eseguita tra il 300 a.C. e l’inizio dell’era cristiana. Si stima che per il completamento del complesso ci siano voluti dai 500 ai 1000 anni.
Secondo il mito, l’avvio della costruzione della piramide fu merito di un gigante di nome Xelhua, dopo essersi messo in salvo da una grande alluvione avvenuta nella vicina Valle di Anáhuac.
La piramide è costituita da sei strutture sovrapposte, una per ogni gruppo etnico che ha dominato la regione. La pratica costruttiva delle culture mesoamericane prevedeva il rimodellamento di vecchi edifici, ristrutturazioni che miravano alla conservazione e all’espansione delle strutture originali.
Delle sei strutture, solo tre sono state studiate in modo approfondito. La piramide stessa è solo una piccola parte di una grande zona archeologica di Cholula, che si stima sia ampia almeno 154 ettari.
Nonostante l’evidente importanza di questo sito precolombiano, la piramide è relativamente sconosciuta e non debitamente studiata, soprattutto in confronto ad altri siti più blasonati come Teotihuacan, Chichen Itza e Monte Albán.
Le poche pubblicazioni in merito sono rapporti tecnici con poche sintesi sui dati raccolti. Per questo motivo, la Piramide di Cholula non ha giocato un ruolo significativo nella comprensione della storia precolombiana dell’America Centrale.