lunedì 17 aprile 2017

2 Ruote: quanto costa organizzare un viaggio in moto?



Prezzi e costi di un viaggio on the road: tutte le spese da mettere in conto prima di partire per una vacanza in moto e qualche consiglio per non lasciare che il portafogli rovini il vostro mototurismo!




La scelta dell’itinerario è naturalmente la parte più bella e interessante, ma organizzare un viaggio in moto,  magari all’estero e in Paesi particolarmente lontani, richiede molta attenzione anche a burocrazia e logistica, soprattutto se non si vuole correre il rischio di incappare in spiacevoli imprevisti destinati a diventare brutti ricordi. Proprio per questo, vi abbiamo già parlato di tutto quello che è bene avere sotto controllo prima della partenza, ma finora non abbiamo mai toccato il tasto , a volte dolente  dei costi. Perché viaggiare su due ruote può essere non solo un’esperienza meravigliosa, ma anche costosa, in particolare se si desidera farlo con tutti i comfort del caso.


Quali sono le spese da mettere in preventivo? Fare una stima precisa è ovviamente impossibile, perché molto dipenderà dalla destinazione, dal tempo di permanenza, così come dai gusti e dalle abitudini dei motociclisti in viaggio. Punto per punto, proviamo però insieme a farci un’idea più precisa dei costi da sostenere. Impossibile parlare di cifre prima di un’importante distinzione, quella tra gli amanti del fai da te e tra quanti, soprattutto in caso di viaggi all’estero, preferiscono invece affidarsi a tour operator. Quasi scontato precisare che quest’ultima opzione permette di risparmiarsi tante grane organizzative ma, in compenso, si rivela più gravosa per il conto in banca.


Un tour di due settimane negli Stati Uniti può ad esempio arrivare a costare dai 2.500 agli oltre 7.000 euro a persona, con oscillazioni sensibili nel prezzo che dipenderanno sia dal numero di partecipantii, viaggiare in coppia su una sola moto vi farà risparmiare, sia dalla presenza o meno di una guida. Attenzione, però, perché i prezzi generalmente non comprendono, o comunque conteggiano separatamente, alcuni costi extra di grande importanza, tra cui quello dei voli aerei; tipicamente inclusi sono invece i pernottamenti, il noleggio della moto ed eventuali assicurazioni di viaggio. In ogni caso, buona norma generale è verificare attentamente i servizi compresi nel prezzo. I costi calano in caso di “organizzazione fai date”. In compenso, si fanno più numerose le voci di spesa cui prestare attenzione, a cominciare dall’albergo. Naturalmente, qui sono le aspettative del viaggiatore a fare la differenza perché i pochi euro giornalieri di campeggi e ostelli hanno poco a che vedere con le centinaia di euro che potreste dover sborsare per alberghi più lussuosi, magari prenotati in alta stagione. Altra voce di costo da tenere bene sotto controllo è poi quella relativa al noleggio della moto: alcuni operatori del settore consentono di fare preventivi e prenotazioni online, opzione che vi suggeriamo (e non solo nel caso del noleggio) anche perché, spesso, giocare d’anticipo significa godere di sconti e prezzi agevolati. In ogni caso, quali i costi effettivi del noleggio? Qui, a fare la differenza sono, oltre al luogo,  i tempi, i chilometri da percorrere e il modello scelto: la giornata singola può andare dai 70 euro in su.


Senza voler necessariamente scomodare mete lontane, non bisogna dimenticare che anche gli itinerari più “casalinghi”, affrontati con la propria adorata moto, necessitano del loro budget: oltre all’eventuale albergo (meglio se per motociclisti!), da considerare innanzitutto benzina e pedaggi.  In caso di escursioni vicine ma pur sempre extra-confine, ad esempio Slovenia, Austria o Svizzera, si dovrà inoltre mettere in conto l’acquisto degli appositi contrassegni autostradali. Anche in questo caso, sarà importante informarsi preventivamente perché le soluzioni sono molteplici: in Austria si può ad esempio fare un mini-contrassegno per soli 10 giorni, al costo di poco più di 5 euro per le moto. Non dimenticate poi che anche la moto hai i suoi ovvi costi di manutenzione, ordinaria e straordinaria, cui andranno aggiunti assicurazione, bollo e tagliandi vari.


Si tratta di spese da affrontare una tantum, ma un motociclista sa che per viaggiare comodi e sicuri è bene non trascurare l’equipaggiamento tecnico, anche a costo di spendere qualche euro in più. Di che cifre parliamo? Per esempio, il costo di un buon casco integrale è di qualche centinaio di euro: marca, modello, materiali ed eventuali grafiche speciali faranno l’effettiva differenza sul listino. Discorso simile per giacche e abbigliamento, dove spesso qualità (e marca) si pagano. Meglio comunque non risparmiare proprio su comfort e sicurezza.


Arriviamo infine ai “plus”, accessori non esattamente indispensabili ma che per molti turisti migliorano decisamente la qualità del viaggio. Uno è il navigatore, per cui servono fino a 500 euro per aggiudicarsi un buon prodotto pensato appositamente per la moto; l’altro è l’action cam per riprendere il proprio viaggio e gli spettacolari panorami incontrati. Negli ultimi mesi, l’offerta di “telecamerine” si è notevolmente ampliata a vantaggio dei prezzi, ma il costo dei prodotti più blasonati resta comunque superiore ai 200 euro; per il top di gamma può però servire anche più del doppio della cifra indicata. Il mototurismo, una passione troppo costosa? Indubbiamente, le spese da affrontare possono essere molte, ma l’esperienza è nella maggior parte dei casi tale da ripagare ampiamente costi e fatica organizzativa. Per i viaggi più esotici, estremi ma inevitabilmente anche onerosi si può poi pensare a un aiuto, un piccolo finanziamento per dare vita a un grande sogno. Navigando sul web,  potrete incontrare proposte che possono eventualmente fare al caso vostro: tra i possibili “finanziatori” del progetto Widiba, CheBanca! o, ancora, Hello bank! che, fra gli altri, propone un prestito denominato Prestito Hello Project, con specifiche soluzioni di prestito per giovani e per realizzare piccoli sogni nel cassetto!
A questo punto, non resta che partire! Buon divertimento e buon viaggio!


giovedì 5 marzo 2015

Egitto: Gli enigmi della Terza Piramide di Giza, nota come Micerino.


È decisamente più piccola delle altre due piramidi sorelle della Piana di Giza, fino a un decimo delle dimensioni della Piramide di Cheope. Eppure, la piramide nana fa sorgere questioni pari a quelle delle altre due piramidi.






Nei documentari e nei reportage è spesso trascurata, forse a causa delle sue dimensioni minori.
Il suo nome ufficiale è “Piramide di Menkaure”, più nota in Italia col nome di Micerino (forma italianizzata del greco Mykerinos, forma in cui il nome compare nelle opere dello storico greco Erodoto).
È la terza piramide del complesso di Giza ed è intrigante almeno quanto le sue sorelle giganti più conosciute.
L’altezza totale della Piramide di Micerino è di 65,5 metri, i lati della base quadrata misurano 103,4 metri e il volume totale è pari a 250 mila m³, ovvero un decimo di quella di Cheope, e presentando la curiosa particolarità di blocchi molto più grandi di quella di Chefren.
In origine la piramide doveva essere tutta ricoperta dello spettacolare granito rosso di Assuan, le cui cave si trovano a circa 900 km di distanza. Il lato nord conserva parte del rivestimento, che però verso l’alto non risulta liscio dando così l’impressione di un lavoro non terminato. Ma perché è così piccola?
Alcuni, frettolosamente, affermano che forse non c’era abbastanza spazio a sinistra della Piana di Giza, o che, forse, il costo di costruzione era troppo alto.
In realtà, come oggi si ritiene, le tre piramidi di Giza riproducono la configurazione delle tre stelle della cintura della Costellazione di Orione. La Piramide di Micerino corrisponderebbe alla posizione della stella Mintaka, apparentemente la più piccola delle tre. Quindi le ragioni sarebbero di tipo analogico.


Mintaka è la stella più occidentale della Cintura, in quanto Alnilam e Alnitak sono osservabili, rispettivamente, a poco meno di 2° e a poco meno di 4° a sud-est da essa.
Un altro aspetto davvero curioso che Micerino condivide con le altre due piramidi è il fatto che queste strutture, in realtà, sono costituite da otto lati invece di quattro.
Questo fenomeno è visibile solo dall’alto, durante l’alba e il tramonto degli equinozi di primavera e autunno, quando il sole proietta ombre sulle piramidi che rivelano la particolare conformazione a otto lati.
Perchè i costruttori hanno progettato e realizzato una caratteristica così difficile da vedere? È stata semplicemente una sofisticata scelta estetica, oppure dietro c’è una ragione pratica a noi sconosciuta?
Infine, le pietre di granito che rivestono l’esterno della piramide di Micerino hanno delle curiose sporgenze, caratteristica riscontrata in alcuni siti archeologici dell’America precolombiana, in particolare a Cuzco, Perù, una delle città Inca più conosciute.


Interno della Piramide

Sebbene non sia mai stato trovato nessuna mummia o cadavere, gli egittologi credono che le piramidi fossero luoghi di sepoltura per i faraoni egizi. Ma è davvero così?
L’interno della piramide è molto complesso. Presenta un ingresso a nord a circa 4 metri d’altezza che conduce in un tunnel rivestito di granito rosa di circa 32 metri e con un’inclinazione di 26° ed un successivo grande corridoio di circa 13 metri di lunghezza, 4 metri di larghezza e 4 metri di altezza.
Questo corridoio sbocca nell’originale in una camera posta 6 metri sotto il livello del suolo che presenta una fossa nel pavimento che doveva accogliere un sarcofago e dalla quale parte un corridoio che conduce nel nulla.
Sconcertante la massiccia presenza del granito proveniente dalle lontane cave dell’Alto Egitto, pietra molto dura ed estremamente difficoltosa da lavorare.
Una caratteristica notata dagli studiosi è che i segni lasciati sulle pareti dagli attrezzi degli operai egizi indicano con certezza che il primo corridoio inferiore è stato scavato dall’interno verso l’esterno mentre il secondo, quello superiore esattamente dall’esterno verso l’interno.
Dunque, sebbene piccola e poco valorizzata, la Piramide di Micerino solleva una serie di questioni pari a quelle delle sorelle maggiori, spingendoci a esplorare più profondamente la mentalità di chi ha fatto il lavoro, lo scopo dello sforzo e, soprattutto, il periodo di realizzazione.

Perchè stanno morendo così tanti animali? fenomeno in aumento.


Secondo i ricercatori, le morti di massa sono oggi più frequenti che mai rispetto alla storia del pianeta. Anche se non sono letali come un'estinzione, le morie di massa possono uccidere fino al 90% degli individui di una specie. Ma perché accadono? Tra le cause le modificazioni climatiche e territoriali dovute all'uomo; nei casi più gravi possono essere implicate molteplici cause.





Negli ultimi settant’anni, le morti di massa animali sono aumentante in frequenza esponenzialmente.
A rilevarlo è uno studio condotto in collaborazione da tre istituti statunitensi (l’Università di San Diego, l’Università di Yale e l’Università della California, Berkley) e pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences.
La ricerca ha sottolienato come tali eventi siano decisamente in aumento tra gli uccelli, i pesci e gli invertebrati marini, con il rischio di uccidere fino al 90% degli individui di una specie.
I ricercatori hanno esaminato i casi di morie animali di massa documentati nella letteratura scientifica. Anche se esistono sporadici studi che risalgono al 1800, l’analisi degli studiosi si è concentrata sul periodo a partire dal 1940 ad oggi.
Ma cos’è una “moria di massa”? Il termine indica l’evento che si verifica in una specie quando muore una grande percentuale dei suoi individui in un breve lasso di tempo. Sebbene si trattava, fino a poco tempo fa, di eventi rari, essi sono in grado di decimare una specie fino all’estinzione.
Lo studio, infatti, indica che l’enigmatico fenomeno è drammaticamente aumentato in frequenza negli ultimi decenni. Le ragioni che possono innescare una moria sono diverse e concatenate fra loro, come la devastazione ambientale dovuta all’uomo, la quale però rappresenta solo una parte del problema.
Nel complesso, si è notato che la malattia sembra essere il principale colpevole, rappresentando il 26 per cento delle cause di morie di massa. Gli effetti diretti legati all’attività umana, come la contaminazione ambientale, è causa, invece, del 19 per cento delle morie.




La biotossicità innescata da eventi come la proliferazione di alghe rappresenta una quota significativa di morie, così come i processi legati direttamente ai cambiamenti climatici, come condizioni meteorologiche estreme, stress termico, carenza di ossigeno e fame, fattori che aggregati raggiungono il 25 per cento delle cause.
“Lo studio rappresenta il primo tentativo di quantificare i modelli nella frequenza, nell’ampiezza e le cause di tali eventi di morie di massa”, spiega la dottoressa Stephanie Carlson, docente associata presso il Dipartimento di Scienze Ambientali della UC Barkeley e autrice dello studio. “La natura catastrofica delle improvvise morie animali di massa è in grado di catturare l’attenzione umana”.
Lo studio ha rivelato che il numero di eventi di morte di massa è aumentato di circa un evento all’anno negli ultimi 70 anni.
“Anche se potrebbe sembrare poco, l’aggiunta di un evento di mortalità di massa all’anno per oltre 70 anni si traduce in un notevole aumento del numero di eventi”, spiega il dottor Adam Siepielski, assistente alla cattedra di biologia dell’Università di San Diego e coautore dello studio.
Al di là delle statistiche, lo studio suggerisce che il nostro pianeta sta subendo cambiamenti drammatici nella sua ecologia, in parte determinati dall’avidità dell’uomo rispetto alle risorse naturali, in parte determinata da eventi che non sono ancora stati compresi fino in fondo.




Difendere Amazzonia, tutelare natura e popoli. Presentata "Repam", tutela 30 mln persone e 390 popoli indigeni






L'Amazzonia, insieme con la foresta del Congo, è ciò che resta di più prezioso per il pianeta: sei milioni di chilometri quadrati di foresta tropicale, divisi tra Guyana, Suriname e Guyana Francese, Venezuela, Ecuador, Colombia, Bolivia, Perù e Brasile. 
Ma il 20% di questo patrimonio dell'umanità è già andato in fumo, per la deforestazione, a vantaggio dei grandi interessi economici, delle multinazionali, nel totale disprezzo dell'ambiente e dei diritti umani dei popoli amazzonici, tra cui 390 popoli indigeni. La REPAM, rete ecclesiale panamazzonica, presentata in Vaticano è nata, ispirata dalle parole di papa Francesco a Rio, durante la GMG del 2013, per unire le forze in difesa dell'Amazzonia, e per aiutare altre analoghe iniziative, nel mondo, a difesa di situazioni analoghe.

La rete è stata presentata in sala stampa vaticana dal cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio giustizia e pace, dall'arcivescovo peruviano Pedro Ricardo Barreto Jimneo, da segretario generale di Caritas Internationalis Michel Roy, da Maurizio Lopez Oropeza, di Caritas Ecuador, mentre il cardinale Claudio Hummes è intervenuto audiocollegamento.







Il cardinale Turkson ha spiegato la scelta di presentare la REPAM anche in Vaticano, "non solo - ha detto - per l'alto significato simbolico che riveste per la Chiesa la sede di Pietro, ma anche per la volontà di dare visibilità alla REPAM, al suo funzionamento, alle sue priorità di azione, agli alleati e modalità di accreditamento". "Potrebbe servire - ha detto il porporato africano - come modello per altre chiese locali di altri continenti che si trovano a affrontare sfide analoghe a queste: giustizia legalità, - ecco alcune sfide - promozione dei diritti umani, cooperazione tra Chiesa e istituzioni pubbliche, prevenzione dei conflitti, studio delle informazioni, sviluppo inclusivo ed equo, uso delle risorse e preservazione delle culture e modi di vita di diversi popoli". Il cardinale ha apprezzato della REPAM la "transnazionalità della iniziativa e l'elevato numero di paesi coinvolti", la "ecclesialità per la creazione di una collaborazione armoniosa fra le componenti della Chiesa", e "l'impegno per la tutela della vita" di oltre 30 milioni di persone e svariate comunità". Monsignor Fridolin Ambongo, presidente della Commissione giustizia e pace dei Grandi Laghi (Repubblica del Congo, Ruanda e Burundi) e della Commissione per le risorse naturali della Chiesa del Congo, ha raccontato che "nella foresta equatoriale, bande armate stazionano alle zone dove si estraggono i minerali: le sfide - ha detto - sono le tesse Che in Amazzonia, da noi è un problema di vita o di morte perché se hanno trovato petrolio, diamanti, sicuramente sappiamo che l'indomani ci sarà la guerra, lo sappiamo e facciamo l'esperienza in Congo, e anche in altri paesi. Sono contento, - ha aggiunto - che la presentazione di REPAM sia fatta anche qui a Roma per più visibilità, può servire anche per altre chiese, sono contento che lui come nostro capo parla così", (si riferiva al cardinale Turkson, ndr).



La Rete Ecclesiale Panamazzonica (REPAM) è nata nel mese di settembre 2014 a Brasilia, si propone di tutelare l'Amazzonia e di promuovere un modello di sviluppo alternativo solidale, che non organizzi la società e lo sfruttamento della natura in funzione dei soli interessi economici".





Qual'è stata la vera causa della scomparsa degli abitanti dell'Isola di Pasqua?.


Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Phys.org propone una teoria alternativa sulla scomparsa degli abitanti di Rapa Nui, uno degli enigmi più sconcertanti della storia.







Nelle solitarie acque dell’Oceano Pacifico, circa 3600 km ad ovest del Cile, si trova Rapa Nui, più nota come Isola di Pasqua.
Questo piccolo pezzo di terra emersa rappresenta uno dei più grandi enigmi dell’antropologia e dell’archeologia moderna.
Innanzitutto, la presenza dei famosi ed enigmatici Moai, grandi busti antropomorfi scolpiti nella roccia. Sull’isola se ne contano ben 638.
Nonostante le ricerche condotte negli ultimi anni, il loro scopo non è tuttora noto con certezza. Secondo la ricerca alternativa, i coloni polinesiani giunti sull’isola intorno a 1100 d.C. non hanno fabbricato i Moai ma li hanno trovati lì.
Secondo la leggenda, infatti, Rapa Nui sarebbe l’ultimo lembo di terra un tempo appartenuto al continente perduto di Mu, sede della prima civiltà umana sorta sul nostro pianeta circa 50 mila anni fa. Dunque, i Moai sarebbero le reliquie di una civiltà arcaica perduta tra le onde dell’Oceano Pacifico.
All’indomani del cataclisma globale avvenuto 12 mila anni fa, che avrebbe sprofondato il continente sul fondo del Pacifico, buona parte dei superstiti di Mu riparò fondando colonie sulle nuove terre emerse, mentre una piccola parte rimase su Rapa Nui.

Isola di Pasqua

L’Isola di Pasqua è una delle isole abitate più remote al mondo. Essa si trova a 3600 km ad ovest delle coste del Cile e circa 2075 km ad est delle isole Pitcairn.
Nonostante la posizione remota, la convinzione abituale degli antropologi è che poco prima del 1200 d.C., alcuni gruppi polinesiani abbiano navigato verso l’isola per stabilirsi lì.
Si ritiene che la popolazione sia cresciuta rapidamente, rimanendo fiorente per centinaia di anni, fino a raggiungere la ragguardevole cifra di 20 mila persone.
Secondo i ricercatori, la fertilità del terreno avrebbe garantito alla popolazione raccolti abbondanti, permettendo la nascita di una cultura molto ricca e concedendo loro il tempo di scolpire ed erigere i famosi busti di pietra detti Moai.
Secondo la teoria comunemente accettata, intorno al 1200, gli abitanti cominciarono a tagliare le foreste subtropicali dell’isola in maniera crescente, per la costruzione di canoe e il trasporto dei Moai. La deforestazione selvaggia distrusse la fauna selvatica naturale e compromise la fertilità della terra.
Quando la gente cominciò a patire la fame, in un ultimo disperato tentativo di sopravvivenza, i superstiti cominciarono a praticare il cannibalismo. La leggenda vuole che il crollo dell’ecologia dell’isola e della sua civiltà furono completi già quando arrivò l’olandese Jakob Roggeveen, la domenica di Pasqua 1722, motivo per il quale l’isola fu battezzata Isola di Pasqua.
All’epoca, l’Isola di Pasqua appariva come una distesa di sabbia vuota priva di quasi tutta la fauna e la flora selvatica. Gli abitanti si erano ridotti ad una popolazione affamata di 3 mila persone.
L’altro enigma che interroga gli scienziati è il motivo della scomparsa degli ultimi abitanti di Rapa Nui, cioè coloro che secondo l’archeologia ufficiale avrebbero poi eretto i Moai.


L’opinione corrente è che la popolazione dell’isola si sia autodistrutta a causa della deforestazione selvaggia, la quale avrebbe compromesso la fertilità del terreno e costretto la popolazione a darsi al cannibalismo.
Per tale motivo, il crollo della civiltà dell’Isola di Pasqua viene spesso usata come un ammonimento contro la follia dell’essere umano che sfrutta senza controllo l’ambiente in cui vive.
Ma un gruppo di scienziati statunitensi del Virginia Commonwealth University ritiene che l’ipotesi del crollo dovuto alla deforestazione è completamente falso e ingannevole.
Nello studio pubblicato su phys.org, il gruppo di ricerca riferisce che la popolazione è stata letteralmente decimata dall’arrivo degli europei sull’isola nel 1722, i quali hanno portato la sifilide, il vaiolo e la deportazione per schiavitù.
Gli scienziati ritengono che un gruppo significativo di individui è riuscito a sopravvivere perfettamente sull’isola dopo che l’ultimo albero fu tagliato. La conclusione è stata suggerita dopo aver trovato numerosi strumenti agricoli sparsi sull’isola, che presumibilmente sono stati utilizzati dagli isolano per il sostentamento.
Le indagini hanno rivelato che invece di esserci stato un crollo improvviso dell’attività agricola, si è registrato un calo molto più graduale in alcune aree. Lo studio è stato salutato con soddisfazione da coloro che non hanno mai creduto alla stupidità estrema degli abitanti dell’Isola di Pasqua.


Wwf, il 22% degli eco-reati sono su animali. Associazione Panda chiede stop a 'crimini di natura'.






Deforestazione, bracconaggio, pesca illegale: sono ''crimini di natura'' che mettono a rischio la sopravvivenza di centinaia di specie, di cui anche l'Italia è vittima. 
Lo ricorda il Wwf in occasione della giornata mondiale della wildlife, #worldwildlifeday, giunta alla seconda edizione (le Nazioni Unite hanno deciso di proclamarla il 3 marzo, anniversario dell'adozione della Convenzione internazionale sul commercio di specie in pericolo, la Cites). 
Il Wwf fa presente che dallo scorso ottobre c'è la campagna 'Stop ai crimini di natura'; ha lanciato in questi mesi una petizione per introdurre il nuovo 'delitto di uccisione di specie selvatiche protette', ''violazione punita sinora con una semplice contravvenzione''. I reati contro la fauna selvatica rappresentano ''il 22% del totale dei reati ambientali''. Finora sono state raccolte oltre 55.000 firme. 
Nel nostro Paese rischiano specie simbolo come il lupo (si calcola che ogni anno siano circa 300 i lupi vittime di questi crimini), orsi, aquile, tartarughe marine.

''Le specie protette, così come gli ambienti naturali e tutta la biodiversità sono un valore e una risorsa che appartiene alla comunità intera - osserva Isabella Pratesi, direttrice conservazione Wwf Italia - i crimini di natura sono un vero e proprio atto contro la democrazia, contro un mondo più equo e giusto e contro un futuro sostenibile e intelligente a cui tutti aspiriamo. I crimini di natura producono nel mondo un fatturato di 213 miliardi di dollari l'anno, un business che alimenta i sistema criminali. 

Fermare questa strage di natura e animali deve essere uno degli obiettivi prioritari nelle agende di governi''. 




Mondo Sommerso: Scoperto un incredibile tempio dell'acqua Maya.


Nei pressi del sito di Cara Blanca, gli archeologi hanno scoperto un incredibile complesso immerso nella foresta del Belize: un tempio maya posto accanto ad una profonda piscina sacra, dove i pellegrini offrivano sacrifici al dio dell'acqua e forse anche ai demoni degli inferi.





Immerso nella tranquillità della foresta del Belize, nei pressi del sito di Cara Blanca, giace uno straordinario, e finora sconosciuto, santuario Maya dedicato alle divinità dell’acqua.
La scoperta è stata fatta da un gruppo internazionale di ricercatori, i quali pubblicheranno i risultati del loro lavoro sul prossimo numero delCambridge Archaeological Journal.
Il complesso sacro si compone di un tempio principale e di due strutture minori, tutte posto accanto ad una piscina profonda, dove i pellegrini offrivano sacrifici a Chaac, la divinità maya della pioggia.
«I pellegrini venivano qui per purificarsi e portare le loro offerte», spiega alNational Geographic la team-leader Lisa Lucero, archeologa dell’Università dell’Illinois. «Era considerato un posto speciale con una funzione sacra».
Lucero e i suoi colleghi hanno esplorato il fondo della piscina sacra per quattro anni, trovando sul fondo numerosi utensili di pietra, cocci di ceramica, denti e artigli fossili, tutti oggetti sacrificati in onore di Chaac.
I ricercatori hanno notato che gli oggetti offerti nei tempi più antichi erano in numero molto minore rispetto a quelli offerti nei periodi tardivi della civiltà Maya. Questo aspetto suggerisce che nel corso dei secoli le siccità diventarono sempre più estreme e i Maya disperati, di conseguenza, chiedevano più aiuto al dio della pioggia Chaac.
Gli studiosi, infatti, pensano che nella prima metà del 1° millennio d.C., i Maya furono sferzati da una serie devastante di siccità, che alla fine ha portato al crollo della loro civiltà. È plausibile pensare che molti maya abbiano risposto a queste condizioni estreme chiedendo aiuto agli dei. Anzi, è possibile che proprio la siccità abbia dato il via ai cosiddetti “culti della siccità”.
«Si tratta del primo esempio di architettura inglobata nel territorio che abbia mai visto», racconta Brent Woodfill, archeologo dell’Università del Minnesota. «È davvero affascinante, e dimostra ancora una volta quanto le grotte e le piscine erano correlate alla visione del mondo dei Maya». Grotte e cenote, infatti, erano considerati dai Maya ingressi al mondo sotterraneo.
Sul fondo della piscina sono stati trovati anche alcuni resti umani. Alcuni ricercatori ipotizzano che si tratti dei resti di sacrifici rituali umani, altri pensano che la piscina sia stata semplicemente utilizzata come luogo di sepoltura per qualche rappresentante dell’elite della società.

martedì 3 marzo 2015

L'origine ignota dei "Popoli del Mare". I veri discendenti di Atlantide?.


Secondo le fonti egiziane risalenti alla 19° dinastia, un tempo remoto esisteva una confederazione di “Popoli del Mare” che, navigando verso il Mar Mediterraneo orientale, sul finire dell'età del bronzo invasero l'Anatolia, la Siria, Palestina, Cipro e l'Egitto. In realtà, non si sa molto su di loro, né quale fosse il luogo di provenienza. Le fonti egiziane descrivono queste popolazioni solo dal punto di vista militare: “Sono venuti dal mare sulle loro navi da guerra, e nessuno poteva andare contro di loro”!




I “Popoli del Mare” sono oggetto di un infinito dibattito tutt’ora in corso tra gli studiosi di storia antica.
Si tratta, infatti, di un gruppo umano di cui si sa molto poco, la cui scarsità di notizie ha favorito il fiorire di numerose di teorie ed ipotesi.
Non si sa chi fossero, nè il loro luogo di origine e nemmeno che fine abbiano fatto. Dunque, la precisa identità di queste “popolazioni del mare” è ancora un enigma per gli studiosi.
Alcuni indizi suggeriscono invece che per gli antichi egizi l’identità e le motivazioni di queste popolazioni erano note. Le poche informazioni che abbiamo, infatti, ci vengono da fonti dell’antico Egitto risalenti alla 19° dinastia.
In realtà, le fonti egizie descrivono tali popoli solo dal punto di vista militare. Sulla stele di Tanis si legge un’iscrizione attribuita a Ramses II, nella quale si legge:
«I ribelli Shardana che nessuno ha mai saputo come combattere, arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, nessuno è mai riuscito a resistergli».
Il fatto che varie civiltà tra cui la civiltà Ittita, Micenea e il regno dei Mitanni scomparvero contemporaneamente attorno al 1175 a.C. ha fatto teorizzare agli studiosi, che ciò fu causato dalle incursioni dei Popoli del Mare.
I resoconti di Ramses sulle razzie dei Popoli del Mare nel mediterraneo orientale sono confermati dalla distruzione di Hatti, Ugarit, Ashkelon e Hazor.
È da notare che queste invasioni non erano soltanto della operazioni militari ma erano accompagnate da grandi movimenti di popolazioni per terra e mare, alla continua ricerca di nuove terre in cui insediarsi.

I Popoli del Mare

Il termine “Popoli del Mare” fa riferimento ad un gruppo composto da dieci popolazioni provenienti dall’Europa meridionale, una sorta di confederazione, che sul finire dell’Età del Bronzo, navigando verso il Mar Mediterraneo orientale, invasero l’Anatolia, la Siria, Palestina, Cipro e l’Egitto.
Le fonti antiche più importanti nelle quali vengono citati i Popoli del Mare sono l’Obelisco di Biblo, databile tra il 2000 e il 1700 a.C., le Lettere di Amarna, la Stele di Tanis e le iscrizioni del faraone Merenptah.
Tra le popolazioni citate nelle iscrizioni antiche, le più intriganti sono certamente i Lukka, gli Shardana, i Šekeleš e i Danuna.


I Lukka

La prima menzione di queste genti compare nell’obelisco di Biblo, dove viene nominato Kwkwn figlio di Rwqq, transliterato Kukunnis figlio di Lukka.
Le terre di Lukka vengono spesso citate anche nei testi ittiti a partire dal II millennio a.C. Denotano una regione situata nella parte sud-occidentale dell’Anatolia. Le terre di Lukka non furono mai poste in modo permanente sotto il controllo ittita, e gli stessi Ittiti le consideravano ostili.
I soldati di Lukka combatterono alleati agli Ittiti nella famosa battaglia di Qadeš (ca. 1274 a.C.) contro il faraone egizio Ramesse II. Tuttavia, un secolo dopo, Lukka si rivolse contro gli Ittiti. Il re ittita Šuppiluliuma II tentò invano di sconfiggere Lukka, i quali contribuirono al collasso dell’impero ittita.

Gli Shardana

Gli Shardana compaiono per la prima volta nelle fonti egiziane nelle lettere di Amarna (1350 a.C. circa) durante il regno di Akhenaton. Vengono poi menzionati durante il regno di Ramses II, Merenptah e Ramses III con i quali ingaggiarono numerose battaglie navali.
Nella raffigurazione vengono dipinti con lunghe spade triangolari, pugnali, lance e uno scudo tondo. Il gonnellino è corto, sono dotati di corazza e di un elmo provvisto di corna.
Le similitudini fra i guerrieri Shardana e quelli dei nuragici della Sardegna, nonché l’assonanza del nome Shardana con quello di Sardi-Sardegna, hanno fatto ipotizzare, ad alcuni, che gli Shardana fossero una popolazione proveniente dalla Sardegna o che si fosse insediata nell’isola in seguito alla tentata invasione dell’Egitto.

I Šekeleš

I Šekeleš, detti anche Sakalasa, vengono citati insieme ad altri otto componenti dei Popoli del Mare nelle iscrizioni commissionate dal faraone Merenptah (13° secolo a.C.).
Sono stati associati ai Siculi, popolazione indoeuropeea che si stanziò nella tarda età del bronzo in Sicilia orientale scacciando verso occidente i Sicani.
Non è escluso che la loro emigrazione in Sicilia possa essere stata precedente agli scontri con l’Egitto di Merenptah, se è affidabile l’alta cronologia della cultura Pantalica I (datata a partire dal 1270 a.C.) e la testimonianza di Ellanico di Mitilene, riportata da Dionigi di Alicarnasso, secondo cui lo sbarco dei Siculi in Sicilia sarebbe avvenuto tre generazioni prima della guerra troiana, intorno al 1275 a.C.; Dionigi riporta anche la datazione fissata da Filisto (ventiquattro anni prima della Guerra di Troia) più o meno contemporanea al conflitto tra il faraone Merneptah e i Popoli del mare.
Leggi anche:

I Danuna

I Danuna, o Denyen, sono certamente i più enigmatici. Secondo la leggenda, i Danuna avrebbero lasciato il continente di Atlantide per stabilirsi sull’isola di Rodi.
Questo popolo adorava la dea Danu, una dea primordiale presente nella mitologia di molte culture (da quella celtica a quella indiana). Veniva rappresentata come una luna avvolta dal serpente e che si suppone era considerata la dea madre delle acque.
La mitologia greca tramanda che gli abitanti primordiali dell’isola di Rodi erano chiamati Telchini. Secondo lo storico greco Diodoro, questo popolo aveva il potere di guarire le malattie, di modificare le condizioni atmosferiche e assumere qualsiasi forma desiderassero. Ma non desideravano rivelare le proprie capacità, mostrandosene assai gelosi.
Erano rappresentati sotto forma di esseri anfibi, metà marini e metà terrestri. Avevano la parte inferiore del corpo a forma di pesce o di serpente, oppure i piedi con dita palmate.
Un po’ prima del Diluvio, ebbero il presentimento della catastrofe e lasciarono Rodi, la loro patria, per disperdersi nel mondo. È possibile che la mitologia e le leggende tramandino la storia di un popolo tecnologicamente avanzato, percepito dagli antichi come in possesso di poteri magici?
È possibile che ci sia un collegamento tra i Danuna e i Talchini? Potrebbero essere davvero i superstiti del continente di Atlantide?