giovedì 11 settembre 2014

Pianeta scimmia: Il lato genetico dell'intelligenza degli scimpanzé.


La variabilità delle capacità cognitive negli scimpanzé è spiegata per il 50 per cento da fattori genetici. La componente attribuibile all'ambiente è quindi rilevante, ma meno importante di quanto ritenuto finora. Il risultato apre la strada alla comprensione dell'origine genetica dell'intelligenza in tutto il gruppo dei primati e può aiutare a determinare i geni responsabili delle capacità specifiche dell'essere umano.





Alcuni scimpanzé sono più intelligenti di altri e metà della variabilità individuale che si rileva statisticamente è dovuta alla componente genetica, che si trasmette di generazione in generazione. È questa la conclusione di uno studio apparso sulla rivista “Current Biology” a firma di William Hopkins della Georgia State University, ad Atlanta, che aiuta a capire come si sono sviluppate le abilità cognitive dei primati.
Nel caso degli esseri umani, l'importanza della genetica rispetto a quella dell'ambiente nel determinare il livello di intelligenza è un tema che è stato dibattuto ampiamente nel grande alveo del dilemma “Nature vs Nurture”. Le ricerche di genetica del comportamento, in particolare con gli studi sui gemelli, in cui si misurano i quozienti intellettivi (QI) di gemelli omozigoti che hanno vissuto in famiglie diverse e li si confrontano tra di loro e  con quelli dei genitori naturali e adottivi, hanno dimostrato che le prestazioni nei test d'intelligenza di un soggetto dipendono dai fattori genetici, anche se il contributo dell'ambiente è comunque considerevole.

Il rapporto tra geni e intelligenza per altri animali invece non ha ricevuto finora la stessa attenzione. In quest'ultimo studio sono stati considerati i dati relativi alle abilità cognitive di 99 scimpanzé di età compresa tra 9 e 54 anni. I ricercatori hanno trovato che circa il 50 per cento della variabilità delle prestazioni degli scimpanzé in una serie di test cognitivi standardizzati è attribuibile a fattori genetici. In particolare, è emerso che gli animali vissuti in cattività, e quindi cresciuti e accuditi da esseri umani, non si sono comportati meglio di quelli vissuti allo stato brado e quindi svezzati e cresciuti dalla madre.

Gli studi sull'intelligenza degli scimpanzé sono importanti per capire le radici genetiche delle capacità cognitive nell'intera famiglia dei primati, e offrono un canale privilegiato per chiarire molti aspetti di questo problema. Per esempio, consentono agli studiosi di mettere da parte tutti i problemi di valutazione delle differenze socio-culturali tra i diversi individui o delle differenze nei sistemi scolastici frequentati. 

I risultati di questo studio in particolare permettono di ipotizzare che le differenze nelle capacità cognitive nei primati derivano da un comune antenato di esseri umani e scimpanzé vissuto cinque milioni di anni fa. 

“Per ora non è noto quali geni o gruppi di geni possano essere responsabili delle differenze cognitive individuali”, spiega Hopkins. “Tuttavia, cercare di capire quali siano può portarci a individuare i
cambiamenti genetici da cui possono essere scaturite alcune capacità prettamente umane”.



Natura: Luce polarizzata per l'orientamento dei pipistrelli.


Per orientarsi negli spostamenti sulle lunghe distanze, quando l'ecolocalizzazione è inutile, i pipistrelli sfruttano una bussola magnetica accoppiata a un sistema di rilevazione dello stato di polarizzazione della luce al crepuscolo. Resta però ancora da scoprire come facciano a percepire questa proprietà della luce, unici fra tutti i mammiferi.



Per orientarsi, il vespertilio maggiore, il pipistrello insettivoro della specieMyotis myotis diffuso in tutta Europa e buona parte dell'Asia, sfrutta la polarizzazione della luce, una capacità – scoperta da ricercatore della Queen’s University a Belfast e dellUniversity di Tel Aviv - che lo rende l'unico mammifero noto in grado di rilevare e usare questa proprietà della luce del cielo. 

L'uso della polarizzazione come indizio per orientarsi è abbastanza diffuso fra gli invertebrati e gli uccelli ma finora non era stato dimostrato in nessun mammifero. 

Per orientarsi e navigare nello spazio circostante i pipistrelli normalmente usano l'ecolocalizzazione, ossia la capacità di sfruttare come un radar i riflessi delle onde sonore a ultrasuoni che emettono. Questo sistema sensoriale, però, permette loro di muoversi con sicurezza in un raggio compreso fra i cinque e i 50 metri, ma non serve a nulla per spostamenti di raggio più ampio, mentre nelle battute di caccia notturne i pipistrelli volano anche a decine di chilometri di distanza dalle loro tane. 





Recenti ricerche hanno dimostrato che in questi viaggi i pipistrelli usano una bussola magnetica che tarano ogni sera, al momento della partenza, sfruttando in qualche modo la luce solare residua. In questa ricerca –pubblicata su “Nature Communications” - Stefan Greif e colleghi sono riusciti a scoprire che per effettuare questa taratura i pipistrelli usano lo schema di polarizzazione della luce, una proprietà che è possibile rilevare anche se il disco del Sole è oscurato dalle nubi. 

Per il loro studio, i ricercatori hanno collocato settanta femmine di vespertilio maggiore in appositi contenitori prima di liberarle per il loro volo notturno. Dal contenitore i pipistrelli potevano osservare il cielo al tramonto, ma davanti alle fenditure di osservazione erano stati messi dei filtri che permettevano ai ricercatori di manipolare l'orientamento della banda di massima polarizzazione. I percorsi seguiti dai pipistrelli per tornare alla tana hanno fornito la conferma cercata.

Resta tuttavia da capire in che modo i pipistrelli riescano a percepire gli schemi di polarizzazione della luce. Negli insetti, la visione della polarizzazione è infatti chiaramente collegata alla particolare struttura morfologica dei fotorecettori, ma l'identificazione di strutture dalla funzione analoga nei vertebrati che percepiscono la polarizzazione, fra cui numerosi anfibi, rettili e uccelli, è molto più problematica. E nell'unico altro mammifero che mostra una certa sensibilità alla polarizzazione, l'essere umano, sembra che essa sia legata alla distribuzione e all'orientamento dei coni sensibili al blu situati nella macula, struttura retinica di cui però i pipistrelli non sembranno essere dotati.





Scansioni radar rivelano l'incredibile impero nascosto sotto Stonehenge.


Utilizzando potenti georadar capaci di penetrare il suolo fino ad una profondità di quattro metri, un gruppo di archeologi ha scoperto un complesso di santuari e tumuli funerari che mostrano chiaramente che esistono ancora decine di monumenti sconosciuti intorno a Stonehenge.




L’enigmatico cerchio di pietre giganti di Stonehenge è sempre stato considerato dagli studiosi come un complesso isolato ai margini della piana di Salisbury.
Ma gli archeologi della Birmingham University hanno scoperto che Stonehenge è il centro di una più vasta rete di monumenti religiosi.
L’utilizzo della tecnologia di scansione radar del terreno ha permesso agli studiosi di individuare un grande complesso di santuari nascosti appena sotto la superficie.
I ritrovamenti includono l’esistenza di 17 strutture in legno o in pietra completamente sconosciute. L’indagine è durata quattro anni, con la mappatura di un area di circa 8 km², la più grande indagine geofisica mai intrapresa.
Secondo quanto riporta The Independent, la scoperta altera drasticamente l’opinione prevalente secondo cui Stonehenge sarebbe l’unico sito del paesaggio. La scoperta, invece, presenta la piana di Salisbury come un centro religioso attivo con più di 60 luoghi chiave dove i popoli antichi svolgevano i loro rituali sacri.
“Questo non è solo un altro ritrovamento”, spiega il professor Vince Gaffney, dell’Università di Birmingham. “Si tratta di un cambiamento del modo in cui interpretiamo Stonehenge”. I ricercatori hanno presentato le loro scoperte al British Science Festival di Birmingham.
Tra i ritrovamenti più significativi, la scoperta di 50 grosse pietre disposte su una linea lunga 330 metri a più di 4 metri di profondità. “Fino ad ora non avevamo assolutamente idea che fossero lì”, ha detto Gaffney. Ogni pietra è lunga circa 3 metri e larga 1,5 metri ed è posizionata orizzontalmente, anche se gli esperti non escludono che in origine fossero verticali come quelle di Stonehenge.
Le pietre dovrebbero essere state portate nel sito intorno al 2500 a.C. e pare formassero il braccio meridionale di un recinto per rituali realizzato a forma di “C”. Il monumento fu poi trasformato e reso circolare; ora è noto con il nome di “Durrington Walls” ed è stato definito il più grande complesso preistorico della Gran Bretagna: sembra fosse ben 12 volte più vasto di Stonehenge.
Sono stati anche dissotterrati enormi pozzi preistorici, alcuni dei quali sembrano avere legami astronomici e solari con Stonehenge. “Stonehenge è chiaramente parte di una struttura rituale molto grande, capace di attirare persone provenienti da molte regioni del paese”, continua Gaffney.


Un’altra scoperta significativa è una collinetta situata tra Walls Durrington e Stonehenge, che poi si è rivelata essere una struttura in legno battezzata “Casa dei morti”. Gli archeologi hanno trovato tracce di pratiche rituali che prevedevano la scarnificazione del defunto, rito durante il quale la pelle e gli organi del defunto venivano rimossi.
Il team di ricerca è ora impegnato ad analizzare i dati, nel tentativo di ricostruire esattamente come i popoli del neolitico e dell’età del bronzo abbiano usato il complesso di Stonehenge. Utilizzando modelli computerizzati, si sta cercando di capire in che modo erano collegati tra loro tutti i monumenti scoperti.
Al momento, le strutture non possono ancora essere datate con precisione, almeno fino a quando non verranno scavate, e qualsiasi decisione in merito spetta all’English Heritage.


mercoledì 10 settembre 2014

Tunisia: Il mistero del lago comparso dal nulla nel deserto di Gafsa.


All'inizio qualcuno pensava che si trattasse solo di un miraggio, ma quando una volta vicino ci si è resi conto di trovarsi di fronte ad acqua vera: un lago è comparso improvvisamente nel deserto di Gafsa, in Tunisia, e la sua origine rimane ignota.




Un minuto prima non c’era altro che sabbia cocente; un minuto dopo una bellissima distesa di acqua turchese.
È un autentico mistero il fenomeno che ha portato alla formazione di quello che ormai è stato battezzato il Lago di Gafsa, una distesa d’acqua cristallina emersa improvvisa nel deserto tunisino di Gafsa.
A scoprire il lago un pastore, che ha dato la notizia agli altri abitanti. Il lago in poco tempo si è trasformato in una piscina presa d’assalto dai locali che cercavano refrigerio nel deserto di Gafsa, dove le temperature sono ben oltre i 40 gradi. Per celebrare l’evento, i bagnanti hanno aperto anche una pagina su facebook ricca di fotografie.
“La notizia della comparsa del lago si è diffusa a macchia d’olio e ora centinaia di persone, desiderose di sfuggire al caldo soffocante, sono venute a nuotare”, racconta il giornalista del Guardian.
Ma la felicità di chi vive nella zona potrebbe essere facilmente stroncata. Il governo infatti ha ricordato che nella zona ci sono miniere in cui si estrae il fosfato e il lago potrebbe essere contaminato da sostanza chimiche cancerogene. Nel 1886, con la scoperta del fosfato, Gafsa divenne il centro dell’industria mineraria della Tunisia, diventando il quinto esportatore mondiale del minerale.
Un allarme, quello del governo, che i cittadini sembrano non aver ascoltato, come si vede dal video girato e caricato su YouTube che mostra l’assalto alla spiaggia e alle acque del misterioso lago, anche dopo che hanno cominciato ad intorbidirsi.
“I primi giorni, l’acqua era cristallina, di un azzurro turchese. Ora invece è verde e pieno di alche, il che significa che non è alimentato che acqua corrente”, commenta uno dei testimoni.
L’ipotesi più accreditata tra i geologi locali è che un’attività sismica non identificata possa aver spezzato la roccia al di sopra della falda, facendo filtrare l’acqua in superficie. Altri, invece, pensano che si tratti di un semplice accumulo di acqua piovana.
Dieci giorni fa, Hatef Ouigi, dell’Ufficio di pubblica sicurezza di Gafsa, ha avvertito che immergersi nel lago è pericoloso, in quanto non adatto alla balneazione. Si è trattato di un provvedimento cautelare, in attesa che gli scienziati prelevino campioni d’acqua per le analisi di laboratorio. “A seconda dei risultati, prenderemo provvedimenti”, ha detto Ouigi.
Da allora, non c’è stata alcuna ulteriore comunicazione ufficiale, anche se gli esperti hanno avvertito che se il lago è venuto fuori dalla rottura di una falda, l’acqua potrebbe scorrervi in direzione opposta, trascinando con sé i bagnanti.



Che fine ha fatto la città sommersa di Cuba? scoperta, dimenticata e soppressa.


All'inizio del 2001, un gruppo di ricercatori canadesi individuò al largo delle coste di Cuba, a circa 700 metri di profondità, quelle che sembravano essere le rovine di un'antica città sommersa, con strutture monumentali, tra cui quattro grandi piramidi, un monumento simile alla sfinge e diversi monoliti con iscrizioni. All'indomani della scoperta, diversi governi nazionali e il National Geographic promisero di intraprendere una serie di studi sul sito sommerso. A distanza di 13 anni, però, la scoperta sembra essere caduta volutamente dell'oblio... perchè?.




Quando nel 2001 la BBC diede la straordinaria notizia di una città sommersa individuata al largo dell’isola di Cuba, molti pensarono che la mitica Atlantide fosse stata finalmente trovata.
Le scansioni eseguite da un team di ricerca canadese, guidato da Pauline Zalitzki, un ingegnere navale e suo marito Paul Weinzweig, mostravano un chiaro insediamento urbano, con notevoli strutture monumentali di granito, tra cui quattro grandi piramidi, un monumento simile alla sfinge e diversi monoliti con iscrizioni.
I coniugi, titolari di una società canadese chiamata Advanced Digital Communications, stavano eseguendo una missione esplorativa commissionata del governo cubano al largo della costa della penisola di Guanahacabibes nel Pinar del Río Provincia di Cuba, al fine di individuare i relitti adagiati sul fondo dell’oceano delle centinaia di navi di epoca coloniale spagnola cariche di tesori.
Grazie all’utilizzo del sonar, la squadra è riuscita ad individuare le maestose strutture simmetriche sul fondo dell’oceano, apparentemente realizzate con blocchi lisci di pietra molto simile al granito squadrato.
Secondo alcuni ricercatori, potrebbe trattarsi di un insediamento sorto nel periodo pre-classico, ad opera di una cultura del Centro America sconosciuta, che si spinta fino alle isole dei Caraibi. Le rovine potrebbero avere più di 6 mila anni, una data che precede di 1500 anni la datazione ufficiale delle grandi piramidi d’Egitto. Alcuni non hanno esitato ad ipotizzare che possa trattarsi delle vestigia della mitica Atlantide.
“È una struttura veramente meravigliosa che sembra davvero essere stato un grande centro urbano. Tuttavia, sarebbe totalmente irresponsabile dire di cosa si tratti senza ulteriori prove”, ebbe però a dire la Zalitzki all’indomani della scoperta.
La scoperta attirò l’attenzione dei governi, dei musei nazionali e del National Geographic, i quali promisero tutti di indagare sulle strane immagini comparse sul sonar. Eppure, a distanza di 13 anni, la scoperta sembra essere caduta volutamente nel dimenticatoio. Che cosa è mai successo alle “rovine” sommerse di Cuba? E perchè i media hanno taciuto ostinatamente su questa insolita scoperta?
Nel luglio del 2001, i due sono tornati sul sito con il geologo Manuel Itarrulde, ricercatore del Museo di Storia Naturale di Cuba, questa volta equipaggiati con un Remotely Operated Vehicle per esaminare e filmare le strutture. Le immagini hanno rilevato grandi blocchi di granito squadrati lunghi circa 3 metri; alcuni di questi blocchi paiono deliberatamente impilati uno sopra l’altro.
“Si tratta di strutture estremamente insolite”, ammise Iturralde. “Se dovessi spiegarlo geologicamente avrei qualche difficoltà”. Il geologo stime che le strutture, per trovarsi a quella profondità, debbano essersi formate almeno 50 mila anni fa, “epoca in cui non c’era una tecnologia tale da costruire edifici complessi”, ragiona Iturralde.
Per di più, lo stesso Iturralde ha ricordato che esistono leggende locali Maya e Yucateos che raccontano di un’isola abitata dai loro antenati scomparsa sotto le onde. “Quello che abbiamo trovato potrebbero essere i resti di una cultura locale che si trovava sul ponte di terra che univa la penisola messicana dello Yucatan con Cuba”, commenta la Zelitsky.
Rimane la grande domanda sul perchè non siano state condotte le indagini promesse all’indomani della scoperta. Anche se le misteriose strutture sono il risultato di un bizzarro fenomeno naturale, ci si sarebbe aspettati che geologi e altri scienziati non avrebbero esisto ad indagare sulla causa che le ha prodotte.
Stranamente, studi approfonditi successivi non sono stati segnalati dalle agenzie di stampa, facendo cadere la questione lentamente nel dimenticatoio. La rapida “censura” di questa storia farebbe pensare ad una soppressione deliberata. Oppure, i ricercatori, in fondo, non hanno creduto nella bontà della scoperta? Disinteresse o soppressione?.


lunedì 8 settembre 2014

Disco di Nebra: L'almanacco astronomico dell'eià del bronzo.



Quella incisa sul disco di Nebra è la più antica rappresentazione della volta celeste che si conosca. Secondo i ricercatori questa lastra di bronzo (chiamata Disco di Nebra dal nome della cittadina tedesca vicino alla quale è stata ritrovata) fu realizzata attorno al 1600 a. C. Le raffigurazioni sul disco non sono fatte a caso e nemmeno a mano libera, ma basate su rigorosi calcoli matematici che fanno intravedere una competenza astronomica di altissimo livello.



Il disco di Nebra è uno dei più interessanti ritrovamenti archeologici degli ultimi anni.
La sua importanza è stata sottolineata dal suo inserimento nella listaMemory of the World dell’Unesco, sottolineando che si tratta della più antica rappresentazione astronomica conosciuta.
Risalente al 1600 a.C., il manufatto di Nebra è un disco di bronzo di circa 32 cm di diametro, con sopra impresso un diagramma in oro dei cieli.
Il disco è stato realizzato verso la fine dell’Età del Bronzo da un popolo vissuto in Europa prima dell’arrivo dei Celti. Di fatto, è il più antico almanacco astronomico della storia umana.
Il reperto fu trovato vicino la cittadina di Nebra in Sassonia (Germania orientale) nel 1999 da due cacciatori di tesori, Henry Westphal e Mario Renner, in di una cavità in pietra all’interno di un antico bastione sulla cima del Mittelberg.
I due archeologi dilettanti trovarono due spade di bronzo, due asce, uno scalpello e frammenti di un bracciale a forma di spirale la cui datazione poteva essere fatta risalire attorno al I millennio a.C. Insieme a questi manufatti rinvennero anche un disco di bronzo su cui erano inserite alcune lamine in oro.
Il disco venne scambiato erroneamente per il coperchio di un secchio e fu venduto illegalmente per 32 mila marchi tedeschi. Dopo essere passato per diverse mani, nel 2002 venne offerto sul mercato nero per 700 mila marchi.
Su mandato del Ministero della Cultura e del Ministero degli Interni, e dell’Ente per l’Archeologia della regione del Sachsen-Anhalt che ne rivendicava la proprietà, l’archeologo Harald Meller, fingendosi un normale acquirente, fissò un appuntamento con i ricettatori, dove si presentò con la polizia elvetica.
Il disco, insieme ad altri reperti archeologici, venne in possesso delle autorità competenti. Dal 2002 è in possesso del il museo regionale della preistoria di Halle, in Sassonia-Anhalt, dove è esposto permanentemente dal 2008.
Come riporta il resoconto dettagliato offerto da Giuseppe Veneziano dell’Osservatorio Astronomico di Genova, successivamente sono state condotte approfondite indagini scientifiche sul luogo del ritrovamento. Gli studi non hanno ancora chiarito se la cavità in pie tra all’interno della quale il disco è stato rinvenuto, sia un’antica roccaforte o una camera sepolcrale.
Ma il luogo, la cima del Mittelberg, quando ancora la montagna non era stata ricoperta dall’alta vegetazione, potrebbe essere stato utilizzato nel Neolitico, probabilmente come osservatorio astronomico. Il sito si trova a circa 20 chilometri dall’osservatorio solare di Goseck.
Esso era costituito da un circolo del diametro di 75 metri, composto in origine da una collinetta circondata da una serie di quattro anelli concentrici, un fossato e, tutt’intorno, due palizzate realizzate con pali di legno dell’altezza di un uomo. L’interpretazione del sito di Goseck come osservatorio archeoastronomico assume particolare importanza, perché fa da sfondo alla scoperta del disco di Nebra.
 Descrizione e interpretazione dei simboli sul disco.
Il disco di Nebra è stato principalmente esaminato dall’archeologo Harald Meller (Ente per l’Archeologia e la conservazione dei monumenti storici di Halle), dall’astronomo Wolfhard Schlosser (Università di Bochum) e dai chimici esperti in archeologia Ernst Pernicka (archeometallurgia), Heinrich Wunderlich (tecnica e metodo delle costruzioni) e da Miranda J. Aldhouse Green (Università del Galles), archeologa e studiosa delle religioni dell’età del Bronzo.
Secondo le loro interpretazioni, le placchette circolari più piccole rappresentano le stelle. Tra di esse spicca un gruppetto di sette placchette più ravvicinate che rappresenterebbero le Pleiadi, un ammasso stellare visibile a occhio nudo nella costellazione del Toro.
I due dischi maggiori, quello circolare e quello a forma di falce, rappresentano rispettivamente il Sole (ma potrebbe essere anche la Luna piena) e la Luna crescente.
Le linee curve incastonate sui bordi del disco dovevano rappresentare porzioni dell’orizzonte visibili dal sito in cui il manufatto è stato ritrovato.
Questa interpretazione è corroborata dal fatto che esse coprono un angolo di 82°, che è proprio la differenza angolare tra i punti di sorgere e tramonto del Sole sull’orizzonte, alla latitudine del luogo del ritrovamento, nei periodi compresi tra i solstizi d’estate e d’inverno.
Sul bordo del disco è presente un arco dorato che ricorda una barca a vela sul mare, interpretato come la “Barca del Sole”. Le piccole rientranze lungo ogni lato dell’arco potrebbero rappresentare i remi della nave. Molti popoli dell’antichità immaginarono il Sole in viaggio da levante a ponente a bordo di una nave speciale.
Secondo l’archeologa Miranda Aldhouse Green, il disco racchiude i simboli di un tema profondamente religioso come il sole, l’orizzonte per i solstizi, la barca del sole, la luna ed altri esemplari particolari di stelle: le Pleiadi. Gli artefici hanno voluto sicuramente raggruppare tutti gli altri simboli di culto venuti alla luce anche in diverse regioni europee; esso fa parte quindi di un complesso sistema religioso diffuso in tutta Europa; forse indica un messaggio religioso.
Infine, sul bordo del disco sono impressi con estrema precisione 40 fori di circa 3 mm. Lo scopo dei fori laterali non è chiaro; probabilmente servivano a fissarlo, cosa che fa pensare ad un utilizzo del disco anche come oggetto di culto.
Se il disco fosse stato concepito come uno strumento astronomico, l’unica cosa che risulta accurata è la coppia di archi. Posizionando il disco su un piano orizzontale, sarebbe potuto essere utilizzato per esaminare la posizione di alba e tramonto. In alternativa, il disco sarebbe potuto essere uno strumento didattico, destinato a svelare i misteri del cielo notturno a gruppi di iniziati, forse futuri sciamani.
Ad ogni modo, il disco di Nebra rappresenta un artefatto unico nel suo genere, in grado di stabilire con certezza che i cosiddetti popoli primitivi avevanpo una conoscenza avanzata dei cieli. A differenza di siti come Newgrange (3200 a.C.) e Stonehenge (2000 a.C.), il disco di Nebra è il primo almanacco astronomico portatile della storia umana e dimostra che la conoscenza dei cieli non era limitata alle sole popolazioni britanniche, ma era diffusa in tutta l’Europa del secondo millennio a.C.


Mondo Sommerso: Inquinamento marino. L'enigma della plastica mancante.


Le correnti oceaniche trasportano la maggior parte dell'enorme quantità di detriti di plastica che ogni anno finisce negli oceani in cinque grandi aree al centro dell'Atlantico e del Pacifico. La massa di questi detriti, però, stimata sulla base di numerosi campionamenti, è almeno cento volte inferiore a ciò che dovrebbe essere. I meccanismi di rimozione sono ancora da chiarire, ma si teme che una parte finisca nella catena alimentare marina.




 Sarebbero fra 10 mila e 40 mila le tonnellate di detriti plastici che galleggiano sulle acque degli oceani: una quantità enorme, ma inferiore di diversi ordini di grandezza alle stime dei flussi di plastica dai continenti verso gli oceani.
La scoperta, effettuata da un gruppo internazionale di oceanografi che firmano un articolo sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” non è una buona notizia perché la differenza non sarebbe dovuta a inesattezze nella valutazione dei flussi, ma a un meccanismo di rapida rimozione della plastica ancora tutto da studiar,e ma che potrebbe coinvolgere la catena alimentare.
Secondo uno studio degli anni settanta, in mare finisce lo 0,1 per cento circa della plastica prodotta, che all’epoca corrispondeva a 45 mila tonnellate all’anno. Da allora la produzione di plastica è quintuplicata, e anche considerando le stime più prudenti, la massa della plastica presente sulla superficie marina in base ai dati raccolti ora da Andrés Cózar e colleghi è almeno cento volte inferiore a quella che dovrebbe esserci.


Le stime degli autori si basano su 3070 campionamenti in acque d’altura realizzate da diverse spedizioni oceaniche nel corso di alcuni anni. Nell’88 per cento dei campionamenti è stata trovata plastica, sia pure in quantità molto variabili.
Le concentrazioni più elevate sono in cinque aree di accumulazione nelle regioni centrali dell’Atlantico e del Pacifico di entrambi gli emisferi, la più grande delle quali è nel Pacifico e raccoglie dal 33 al 35 per cento dei detriti.
La dimensione media dei detriti di plastica è piccola: la maggior parte è fra uno e due millimetri. Analizzando la distribuzione la massa della plastica in funzione delle dimensioni dei frammenti, tuttavia, i ricercatori hanno notato che alcune dimensioni erano decisamente sottorappresentate rispetto a ciò ci si poteva attendere sulla base dei processi di degradazione noti. Inoltre, malgrado l’aumento dei flussi di plastica nell’oceano, nel corso degli anni la quantità del materiale galleggiante in superficie è rimasta sostanzialmente costante.
I ricercatori hanno individuato quattro possibili meccanismi responsabili della rimozione della plastica dalla superficie del mare, il cui peso e importanza relativa sono ancora tutti da stabilire.
Accanto alla nanoframmentazione attraverso processi di degradazione poco conosciuti (in grado di trasformare direttamente i frammenti in parti talmente piccole da sfuggire alle maglie delle reti di campionamento), potrebbero contribuire al fenomeno anche il cosiddetto biofouling, ossia “l’incrostazione”, nella forma di biofilm, delle particelle più minute sulla superficie di organismi marini animali e vegetali, e l’ingestione da parte sia di organismi unicellulari che pluricellulari. L’ultimo meccanismo individuato è la deposizione a riva che però secondo i ricercatori un’importanza minore.


Luoghi: Le antiche grotte di Uplistsikhe. La Fortezza del Signore.


Uplistsikhe (in georgiano: უფლისციხე, letteralmente, "fortezza del signore") è una antica città scavata nella roccia nella Georgia orientale, a circa 10 chilometri a est della città di Gori. Costruita su un alto banco roccioso sulla riva sinistra del fiume Mtkvari, la fortezza mostra la stratificazione architettonica di varie epoche, dalla tarda età del bronzo fino al tardo medioevo. Un'opera incredibile che mostra ancora una volta l'abilità costruttiva dei nostri antenati.




Nella Georgia orientale si trova il meraviglioso sito archeologico di Uplistsikhe (letteralmente “fortezza del Signore”), una città abbandonata scavata nella roccia che ha avuto un ruolo importante nella storia antica della regione.
L’insediamento è stato fondato nella tarda età del bronzo, intorno al 1000 a.C., ed è stato abitato fino al 13° secolo d.C. Tra il 6° secolo a.C. e l’11° secoldo d.C., Uplistsikhe è stato uno dei più importanti centri politici e religiosi precristiani della Cartalia, ponendo le basi di quello che poi sarebbe diventato lo stato georgiano.
Con i suoi 3 mila anni di storia, Uplistsike è considerato dagli archeologi come uno dei più antichi insediamenti urbani della Georgia. All’epoca, il complesso era un centro religioso molto importante per i culti pagani. Gli archeologi hanno portato alla luce numerosi templi e reperti relativi ad una dea del sole.


Con l’arrivo della religione cristiana nel 4° secolo d.C., la città perse gradualmente importanza, a seguito dell’ascesa dei centri cultuali eretti dalla nuova religione, in particolare quelli di Mtskheta e Tbilisi.
Tuttavia, la vita continuò a Uplistsikhe: furono costruiti templi cristiani, e per un breve periodo il cristianesimo e la fede pagana coesistettero nella città. Dopo la conquista musulmana di Tbilisi nell’8° secolo d.C., Uplistsikhe riemerse come principale roccaforte georgiana, divenendo la residenza dei re di Cartalia.
Quando Tbilisi fu riconquistata nel 1122, Uplistsikhe subì un calo rapido, il quale si concluse con la distruzione di gran parte della città con la conquista mongola nel 13° secolo.
La grotta-città, che copre una superficie di quasi 40 mila m², può essere suddivisa in tre livelli. Il livello centrale, che contiene la maggior parte della struttura, è collegata alla parte inferiore da uno stretto tunnel.
La parte superiore del complesso è stata modificata in una basilica cristiana risalente al 10° secolo. Le strutture scavate nella roccia includono una grande sala, chiamata Tamaris Darbazi, luoghi di culto pagani adibiti per i sacrifici, abitazioni ed edifici funzionali, come una farmacia, un panificio, una prigione e persino un anfiteatro. Le varie sale sono collegati da una fitta rete di cunicoli.
Di fatto, Uplistsikhe è una notevole combinazione di stili provenienti da diverse culture che si sono avvicendate nei secoli. Nel corso delle esplorazioni sono stati rinvenuti moltissimi reperti, tra cui gioielli, statuine e manufatti, tutti custoditi presso il Museo Nazionale di Tbilisi. 
Inoltre, Uplistsikhe è inserita nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco.