lunedì 8 settembre 2014

Disco di Nebra: L'almanacco astronomico dell'eià del bronzo.



Quella incisa sul disco di Nebra è la più antica rappresentazione della volta celeste che si conosca. Secondo i ricercatori questa lastra di bronzo (chiamata Disco di Nebra dal nome della cittadina tedesca vicino alla quale è stata ritrovata) fu realizzata attorno al 1600 a. C. Le raffigurazioni sul disco non sono fatte a caso e nemmeno a mano libera, ma basate su rigorosi calcoli matematici che fanno intravedere una competenza astronomica di altissimo livello.



Il disco di Nebra è uno dei più interessanti ritrovamenti archeologici degli ultimi anni.
La sua importanza è stata sottolineata dal suo inserimento nella listaMemory of the World dell’Unesco, sottolineando che si tratta della più antica rappresentazione astronomica conosciuta.
Risalente al 1600 a.C., il manufatto di Nebra è un disco di bronzo di circa 32 cm di diametro, con sopra impresso un diagramma in oro dei cieli.
Il disco è stato realizzato verso la fine dell’Età del Bronzo da un popolo vissuto in Europa prima dell’arrivo dei Celti. Di fatto, è il più antico almanacco astronomico della storia umana.
Il reperto fu trovato vicino la cittadina di Nebra in Sassonia (Germania orientale) nel 1999 da due cacciatori di tesori, Henry Westphal e Mario Renner, in di una cavità in pietra all’interno di un antico bastione sulla cima del Mittelberg.
I due archeologi dilettanti trovarono due spade di bronzo, due asce, uno scalpello e frammenti di un bracciale a forma di spirale la cui datazione poteva essere fatta risalire attorno al I millennio a.C. Insieme a questi manufatti rinvennero anche un disco di bronzo su cui erano inserite alcune lamine in oro.
Il disco venne scambiato erroneamente per il coperchio di un secchio e fu venduto illegalmente per 32 mila marchi tedeschi. Dopo essere passato per diverse mani, nel 2002 venne offerto sul mercato nero per 700 mila marchi.
Su mandato del Ministero della Cultura e del Ministero degli Interni, e dell’Ente per l’Archeologia della regione del Sachsen-Anhalt che ne rivendicava la proprietà, l’archeologo Harald Meller, fingendosi un normale acquirente, fissò un appuntamento con i ricettatori, dove si presentò con la polizia elvetica.
Il disco, insieme ad altri reperti archeologici, venne in possesso delle autorità competenti. Dal 2002 è in possesso del il museo regionale della preistoria di Halle, in Sassonia-Anhalt, dove è esposto permanentemente dal 2008.
Come riporta il resoconto dettagliato offerto da Giuseppe Veneziano dell’Osservatorio Astronomico di Genova, successivamente sono state condotte approfondite indagini scientifiche sul luogo del ritrovamento. Gli studi non hanno ancora chiarito se la cavità in pie tra all’interno della quale il disco è stato rinvenuto, sia un’antica roccaforte o una camera sepolcrale.
Ma il luogo, la cima del Mittelberg, quando ancora la montagna non era stata ricoperta dall’alta vegetazione, potrebbe essere stato utilizzato nel Neolitico, probabilmente come osservatorio astronomico. Il sito si trova a circa 20 chilometri dall’osservatorio solare di Goseck.
Esso era costituito da un circolo del diametro di 75 metri, composto in origine da una collinetta circondata da una serie di quattro anelli concentrici, un fossato e, tutt’intorno, due palizzate realizzate con pali di legno dell’altezza di un uomo. L’interpretazione del sito di Goseck come osservatorio archeoastronomico assume particolare importanza, perché fa da sfondo alla scoperta del disco di Nebra.
 Descrizione e interpretazione dei simboli sul disco.
Il disco di Nebra è stato principalmente esaminato dall’archeologo Harald Meller (Ente per l’Archeologia e la conservazione dei monumenti storici di Halle), dall’astronomo Wolfhard Schlosser (Università di Bochum) e dai chimici esperti in archeologia Ernst Pernicka (archeometallurgia), Heinrich Wunderlich (tecnica e metodo delle costruzioni) e da Miranda J. Aldhouse Green (Università del Galles), archeologa e studiosa delle religioni dell’età del Bronzo.
Secondo le loro interpretazioni, le placchette circolari più piccole rappresentano le stelle. Tra di esse spicca un gruppetto di sette placchette più ravvicinate che rappresenterebbero le Pleiadi, un ammasso stellare visibile a occhio nudo nella costellazione del Toro.
I due dischi maggiori, quello circolare e quello a forma di falce, rappresentano rispettivamente il Sole (ma potrebbe essere anche la Luna piena) e la Luna crescente.
Le linee curve incastonate sui bordi del disco dovevano rappresentare porzioni dell’orizzonte visibili dal sito in cui il manufatto è stato ritrovato.
Questa interpretazione è corroborata dal fatto che esse coprono un angolo di 82°, che è proprio la differenza angolare tra i punti di sorgere e tramonto del Sole sull’orizzonte, alla latitudine del luogo del ritrovamento, nei periodi compresi tra i solstizi d’estate e d’inverno.
Sul bordo del disco è presente un arco dorato che ricorda una barca a vela sul mare, interpretato come la “Barca del Sole”. Le piccole rientranze lungo ogni lato dell’arco potrebbero rappresentare i remi della nave. Molti popoli dell’antichità immaginarono il Sole in viaggio da levante a ponente a bordo di una nave speciale.
Secondo l’archeologa Miranda Aldhouse Green, il disco racchiude i simboli di un tema profondamente religioso come il sole, l’orizzonte per i solstizi, la barca del sole, la luna ed altri esemplari particolari di stelle: le Pleiadi. Gli artefici hanno voluto sicuramente raggruppare tutti gli altri simboli di culto venuti alla luce anche in diverse regioni europee; esso fa parte quindi di un complesso sistema religioso diffuso in tutta Europa; forse indica un messaggio religioso.
Infine, sul bordo del disco sono impressi con estrema precisione 40 fori di circa 3 mm. Lo scopo dei fori laterali non è chiaro; probabilmente servivano a fissarlo, cosa che fa pensare ad un utilizzo del disco anche come oggetto di culto.
Se il disco fosse stato concepito come uno strumento astronomico, l’unica cosa che risulta accurata è la coppia di archi. Posizionando il disco su un piano orizzontale, sarebbe potuto essere utilizzato per esaminare la posizione di alba e tramonto. In alternativa, il disco sarebbe potuto essere uno strumento didattico, destinato a svelare i misteri del cielo notturno a gruppi di iniziati, forse futuri sciamani.
Ad ogni modo, il disco di Nebra rappresenta un artefatto unico nel suo genere, in grado di stabilire con certezza che i cosiddetti popoli primitivi avevanpo una conoscenza avanzata dei cieli. A differenza di siti come Newgrange (3200 a.C.) e Stonehenge (2000 a.C.), il disco di Nebra è il primo almanacco astronomico portatile della storia umana e dimostra che la conoscenza dei cieli non era limitata alle sole popolazioni britanniche, ma era diffusa in tutta l’Europa del secondo millennio a.C.


Mondo Sommerso: Inquinamento marino. L'enigma della plastica mancante.


Le correnti oceaniche trasportano la maggior parte dell'enorme quantità di detriti di plastica che ogni anno finisce negli oceani in cinque grandi aree al centro dell'Atlantico e del Pacifico. La massa di questi detriti, però, stimata sulla base di numerosi campionamenti, è almeno cento volte inferiore a ciò che dovrebbe essere. I meccanismi di rimozione sono ancora da chiarire, ma si teme che una parte finisca nella catena alimentare marina.




 Sarebbero fra 10 mila e 40 mila le tonnellate di detriti plastici che galleggiano sulle acque degli oceani: una quantità enorme, ma inferiore di diversi ordini di grandezza alle stime dei flussi di plastica dai continenti verso gli oceani.
La scoperta, effettuata da un gruppo internazionale di oceanografi che firmano un articolo sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” non è una buona notizia perché la differenza non sarebbe dovuta a inesattezze nella valutazione dei flussi, ma a un meccanismo di rapida rimozione della plastica ancora tutto da studiar,e ma che potrebbe coinvolgere la catena alimentare.
Secondo uno studio degli anni settanta, in mare finisce lo 0,1 per cento circa della plastica prodotta, che all’epoca corrispondeva a 45 mila tonnellate all’anno. Da allora la produzione di plastica è quintuplicata, e anche considerando le stime più prudenti, la massa della plastica presente sulla superficie marina in base ai dati raccolti ora da Andrés Cózar e colleghi è almeno cento volte inferiore a quella che dovrebbe esserci.


Le stime degli autori si basano su 3070 campionamenti in acque d’altura realizzate da diverse spedizioni oceaniche nel corso di alcuni anni. Nell’88 per cento dei campionamenti è stata trovata plastica, sia pure in quantità molto variabili.
Le concentrazioni più elevate sono in cinque aree di accumulazione nelle regioni centrali dell’Atlantico e del Pacifico di entrambi gli emisferi, la più grande delle quali è nel Pacifico e raccoglie dal 33 al 35 per cento dei detriti.
La dimensione media dei detriti di plastica è piccola: la maggior parte è fra uno e due millimetri. Analizzando la distribuzione la massa della plastica in funzione delle dimensioni dei frammenti, tuttavia, i ricercatori hanno notato che alcune dimensioni erano decisamente sottorappresentate rispetto a ciò ci si poteva attendere sulla base dei processi di degradazione noti. Inoltre, malgrado l’aumento dei flussi di plastica nell’oceano, nel corso degli anni la quantità del materiale galleggiante in superficie è rimasta sostanzialmente costante.
I ricercatori hanno individuato quattro possibili meccanismi responsabili della rimozione della plastica dalla superficie del mare, il cui peso e importanza relativa sono ancora tutti da stabilire.
Accanto alla nanoframmentazione attraverso processi di degradazione poco conosciuti (in grado di trasformare direttamente i frammenti in parti talmente piccole da sfuggire alle maglie delle reti di campionamento), potrebbero contribuire al fenomeno anche il cosiddetto biofouling, ossia “l’incrostazione”, nella forma di biofilm, delle particelle più minute sulla superficie di organismi marini animali e vegetali, e l’ingestione da parte sia di organismi unicellulari che pluricellulari. L’ultimo meccanismo individuato è la deposizione a riva che però secondo i ricercatori un’importanza minore.


Luoghi: Le antiche grotte di Uplistsikhe. La Fortezza del Signore.


Uplistsikhe (in georgiano: უფლისციხე, letteralmente, "fortezza del signore") è una antica città scavata nella roccia nella Georgia orientale, a circa 10 chilometri a est della città di Gori. Costruita su un alto banco roccioso sulla riva sinistra del fiume Mtkvari, la fortezza mostra la stratificazione architettonica di varie epoche, dalla tarda età del bronzo fino al tardo medioevo. Un'opera incredibile che mostra ancora una volta l'abilità costruttiva dei nostri antenati.




Nella Georgia orientale si trova il meraviglioso sito archeologico di Uplistsikhe (letteralmente “fortezza del Signore”), una città abbandonata scavata nella roccia che ha avuto un ruolo importante nella storia antica della regione.
L’insediamento è stato fondato nella tarda età del bronzo, intorno al 1000 a.C., ed è stato abitato fino al 13° secolo d.C. Tra il 6° secolo a.C. e l’11° secoldo d.C., Uplistsikhe è stato uno dei più importanti centri politici e religiosi precristiani della Cartalia, ponendo le basi di quello che poi sarebbe diventato lo stato georgiano.
Con i suoi 3 mila anni di storia, Uplistsike è considerato dagli archeologi come uno dei più antichi insediamenti urbani della Georgia. All’epoca, il complesso era un centro religioso molto importante per i culti pagani. Gli archeologi hanno portato alla luce numerosi templi e reperti relativi ad una dea del sole.


Con l’arrivo della religione cristiana nel 4° secolo d.C., la città perse gradualmente importanza, a seguito dell’ascesa dei centri cultuali eretti dalla nuova religione, in particolare quelli di Mtskheta e Tbilisi.
Tuttavia, la vita continuò a Uplistsikhe: furono costruiti templi cristiani, e per un breve periodo il cristianesimo e la fede pagana coesistettero nella città. Dopo la conquista musulmana di Tbilisi nell’8° secolo d.C., Uplistsikhe riemerse come principale roccaforte georgiana, divenendo la residenza dei re di Cartalia.
Quando Tbilisi fu riconquistata nel 1122, Uplistsikhe subì un calo rapido, il quale si concluse con la distruzione di gran parte della città con la conquista mongola nel 13° secolo.
La grotta-città, che copre una superficie di quasi 40 mila m², può essere suddivisa in tre livelli. Il livello centrale, che contiene la maggior parte della struttura, è collegata alla parte inferiore da uno stretto tunnel.
La parte superiore del complesso è stata modificata in una basilica cristiana risalente al 10° secolo. Le strutture scavate nella roccia includono una grande sala, chiamata Tamaris Darbazi, luoghi di culto pagani adibiti per i sacrifici, abitazioni ed edifici funzionali, come una farmacia, un panificio, una prigione e persino un anfiteatro. Le varie sale sono collegati da una fitta rete di cunicoli.
Di fatto, Uplistsikhe è una notevole combinazione di stili provenienti da diverse culture che si sono avvicendate nei secoli. Nel corso delle esplorazioni sono stati rinvenuti moltissimi reperti, tra cui gioielli, statuine e manufatti, tutti custoditi presso il Museo Nazionale di Tbilisi. 
Inoltre, Uplistsikhe è inserita nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco.


Scoperte ad Orvieto alcune piramidi di origine Etrusca.


Anche gli etruschi costruivano piramidi? Strutture piramidali scavate nel tufo sono state scoperte in una cantina di Orvieto da un team di archeologi americani e italiani. Potrebbe trattarsi di strutture religiose o di una tomba.



David George di Saint Anselm, un college del New Hampshire, e Claudio Bizzarri del Parco Archeologico Ambientale dell’Orvietano hanno identificato nella cantina una serie di scale antiche scavate nella parete «certamente di costruzione etrusca», ha detto l’americano a Discovery News.
Le pareti della cantina erano a forma piramidale e sotto il locale una serie di gallerie, anche queste di epoca etrusca, hanno lasciato pensare a strutture sottostanti ancora inesplorate.
Lo scavo è sceso finora a circa tre metri di profondità restituendo materiali datati al quinto secolo avanti Cristo. A questo livello è stato rinvenuto un altro tunnel che collegava un’altra struttura piramidale.
Secondo Bizzarri sotto la città di Orvieto si troverebbero almeno cinque piramidi, tre delle quali tuttora inesplorate. «Certamente non sono cisterne o cave. Mai visto nulla del genere in Italia», ha detto Bizzarri. Larissa Bonfante, etruscologa della New York University, ha confermato a Discovery news: «Sono forme non riscontrate mai nell’Etruria antica».

domenica 7 settembre 2014

Un nuovo misterioso cratere negli Stati Uniti e un gigantesco Sinkhole in Inghilterra.


Dopo quello comparso in Siberia poche settimane fa, un nuovo misterioso cratere è comparso improvvisamente nel sud dello stato dello Utah, Stati Uniti. Numerose le teorie proposte, dall'eruzione vulcanica fino all'intervento alieno, ma i geologi pensano che potrebbe esserci una teorie più semplice. In Inghilterra, invece, compare un gigantesco sinkhole apparentemente senza fondo. Cosa sta succedendo?






Negli ultimi tempi, strani fori continuano a comparire sulla superficie del pianeta Terra.
I medie americani riportano la comparsa di un misterioso cratere comparso improvvisamente in uno specchio d’acqua nel sud dello stato dello Utah, lasciando sconcertati gli esperti.
Anche il Regno Unito è alle prese con uno strano fenomeno geologico: un imponente sinkhole è comparso nei pressi di Durham, una contea nel Nord Est dell’Inghilterra.
Solo poche settimane fa, un inspiegabile cratere è comparso in Siberia, mettendo gli esperti di fronte ad un evento geologico sconosciuto. La domanda è: questi fenomeni sono in qualche modo legati fra loro? È in corso qualche fenomeno geologico planetario non ancora compreso?

Il misterioso cratere acquatico dello Utah




Lo strano cratere comparso a Circleville, una cittadina nel Sud Est dello Utah, è stato scoperto il mese scorso da Gary Dalton, un agricoltore locale.
Dopo aver drenato buona parte dell’acqua per irrigare i suoi terreni, Dalton si è accorto della presenza di un misterioso foro circolare sul fondo del lago.
Appena sotto la superficie, l’agricoltore ha notato due cerchi concentrici dal diametro approssimativo di 25 metri. L’anello esterno si presenta come una depressione circolare piena di alghe, mentre il cerchio interno sembra essersi formato a seguito di una qualche esplosione sotterranea.
A seguito della scoperta, Dalton ha interpellato un gruppo di esperti. Nessuno dei geologi è però riuscito a dare una spiegazione sulla natura dei cerchi concentrici. Non si tratterebbe, infatti, né di una sorgente naturale, né di emissioni gassose dal terreno sottostante, né di un cratere “da impatto”.
Gli esperti del Geological Survey sono intervenuti sul posto, rimanendo inizialmente alquanto sconcertati. “Beh, sì, abbiamo diverse teorie”, dice il geologo veterano Bill Lund secondo quanto riportato dal Daily Mail. “Tuttavia, la maggior parte di esse sono andate in fumo”.
Alcuni avevano ipotizzato che la formazione si fosse stata causata da una sorgente naturale, spingendo materiale verso l’alto dopo essere stata sovralimentata dalle recenti piogge. Ma il dottor Lund ha spiegato che la teoria è stata rapidamente smentita dalle foto aeree del lago scattate precedentemente.
Un altra teoria propone che il foro si sia creato a seguito del danneggiamento di una conduttura durante lo scavo del laghetto. Ma gli esperti hanno appurato che non ci sono condutture lì sotto. Lund esclude anche che possa trattarsi di un’eruzione di gas metano prodotto dalla decomposizione di materiale organico sotto il bacino, così come la liquefazione del terreno prodotto da un terremoto o l’impatto con un meteorite.
Durante la visita dei geologi, il signor Dalton ha messo a disposizione una gru con piattaforma in modo da poter ottenere uno sguardo ravvicinato del cratere.
Dalle osservazioni, gli esperti hanno elaborato una teoria secondo la quale potrebbe trattarsi di un cedimento della terra del lago che avrebbe incamerato aria prima di essere riempito nuovamente dall’acqua.
Questa, al momento, sembra la spiegazione più probabile, anche se il dottor Lund ha ammesso di non aver mai visto un fenomeno del genere. “Voglio dire, ci sono ancora alcune domande senza risposta. Questo è sicuro”, conclude il geologo.

Il Sinkhole in Inghilterra.




Una voragine larga 30 metri si è aperta nella contea di Durham, nel Nord Est dell’Inghilterra, così profondo da non riuscire a vedervi il fondo.
A scoprirla è stato Sam Hillyard, un accademico dell’Università di Durham, mentre era impegnato in battuta di caccia al coniglio. “Sam è tornato e sembrava scioccato”, racconta al Guardian John Hensby, allevatore settantunenne amico di Hillyard. “Mi ha detto che c’era un buco enorme a cui dovevo dare un’occhiata”.
“Quando l’abbiamo vista – giovedì sera della settimana scorsa – era ampia circa cinque metri”, racconta Hensby. “Ma quando siamo tornati venerdì mattina era diventata circa quattro volte più grande. Ora è larga più di 30 metri e non è possibile vederne il fondo”.
Per precauzione, i due hanno informato il Durham County Council e la polizia di Durham. Gli esperti ipotizzano che possa trattarsi del cedimento di una vecchia miniera, ma ulteriori indagini sono in corso. La prima cosa che gli esperti vogliono capire è quanto sia profonda la voragine, apparentemente senza fondo.

Natura: Il volo superfluido degli storni.


In uno stormo di uccelli in volo, la decisione di cambiare direzione viene presa da un piccolo gruppo di uccelli, e nel giro di mezzo secondo l'informazione si propaga a tutti gli altri secondo leggi matematiche che descrivono fenomeni della materia condensata, come le transizioni di fase che portano alla superfluidità. Lo ha scoperto uno studio di ricercatori italiani analizzando le riprese video in tre dimensioni di circa 400 storni.





Il volo di uno stormo di storni, e in particolare la trasmissione delle informazioni tra i membro del gruppo che ne consentono i cambiamenti di direzione, ha molte somiglianze con il comportamento quantistico degli atomi che si osserva nella materia condensata in fenomeni critici, come per esempio il cambiamento di stato che permette la transizione dell'elio liquido allo stato di superfluido, in cui l'elio scorre praticamente senza attrito. È il risultato di uno studio pubblicato su “Nature Physics” a firma di Alessandro Attanasi e colleghi della Sapienza Università di Roma e dell'Istituto dei sistemi complessi del CNR di Roma.

In natura, molti animali vivono in socirtà o in gruppi, e le decisioni su quali comportamenti collettivi debbano essere seguiti nelle varie situazioni è estremamente rilevante. Per esempio, nel caso in cui un gruppo sia minacciato da un predatore, è importante che durante la fuga venga mantenuta la coesione del gruppo. Questo significa che deve esserci un meccanismo efficace e affidabile non solo per decidere in che direzione fuggire, ma anche per fare in modo che l'informazione sui cambiamenti di direzione si propaghi molto rapidamente a tutti i membri del gruppo.





Finora le ricerche non hanno chiarito in che modo gruppi di animali possano raggiungere un alto grado di affidabilità. Uno dei modelli studiati per chiarire questo aspetto è lo stormo di uccelli, in particolare di storni (Sturnus vulgaris). 

In quest'ultimo studio, Attanasi e colleghi hanno filmato, usando tre diverse videocamere, il volo di uno stormo composto da circa 400 storni. Dall'analisi delle riprese, i ricercatori hanno poi ricavato le traiettorie in tre dimensioni dei singoli uccelli in funzione del tempo.

Innanzitutto, Attanasi e colleghi hanno scoperto che un ristretto numero di uccelli, tra loro vicini durante il volo in formazione, cambiano direzione per primi. L'informazione sulla direzione successivamente raggiunge tutti gli altri membri nell'arco di circa mezzo secondo. La distanza percorsa dall'informazione aumenta linearmente nel tempo: questo significa che la velocità dell'informazione attraverso lo stormo è pressoché costante e raggiunge il valore di 20-40 metri al secondo. Inoltre, la velocità di propagazione può variare in misura significativa tra uno stormo e un altro.

Da un punto di vista teorico, lo stormo ha di solito dimensioni rilevanti e l'informazione deve attraversare un certo numero di passaggi intermedi. In queste condizioni, ci si aspetterebbe un certo grado di attenuazione, con una conseguente dispersione degli uccelli in posizione più periferica e una perdita di coesione dello stormo. Tutto questo però non si verifica: l'analisi delle riprese video ha mostrato che la propagazione dell'informazione avviene con una dissipazione trascurabile.






La mancanza di dissipazione è la chiave per arrivare a una formalizzazione matematica del modo in cui avviene il trasporto dell'informazione nello stormo. In primo luogo, questa mancanza di dispersione consente di escludere che si tratti di un un trasporto di tipo diffusivo, paragonabile cioè alla dispersione di una goccia d'inchiostro un bicchiere d'acqua. Inoltre, permette anche di escludere che l'informazione si propaghi come un suono, per effetto di fluttuazioni della densità dello stormo che, come si è verificato, non hanno influenza sulla propagazione.

Piuttosto, le fluttuazioni che si propagano durante un cambiamento di direzione riguardano l'orientamento nello spazio che ciascun membro del gruppo deve mantenere durante il volo, regolandosi rispetto agli uccelli vicini. Sviluppando questi dati con l'aiuto di considerazioni fisico-matematiche generali, Attanasi e colleghi hanno definito una serie di equazioni che descrivono egregiamente il comportamento degli storni. 

Si tratta di equazioni matematiche simili a quelle usate per descrivere le transizioni di fase, per esempio il passaggio dell'acqua liquida allo stato solido, o altri fenomeni critici squisitamente di natura quantistica, come quelli che interessano l'elio superfluido, che dipendono dalle interazioni tra l'orientazione degli spin degli atomi che costituiscono il materiale e che permettono all'elio in questo stato di avere di fatto viscosità nulla e quindi scorrere senza attrito.

Al di là dei tecnicismi matematici, i risultati gettano una luce sull'evoluzione di un comportamento collettivo adattativo di estrema importanza per la sopravvivenza di degli uccelli.






Miti e leggende della Torre del Diavolo.


È una montagna improbabile, che torreggia per un chilometro e mezzo come un gigante in piedi nella valle. I nativi americani, da tempi remotissimi, la considerano un luogo sacro. Stephen Spielberg l'ha usata come sfondo per il film campione di incassi “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Ogni anni, migliaia di turisti vengono ad ammirare la sua forma insolita. Il nome di questa strana formazione geologica è Torre del Diavolo.






Nell’angolo nordorientale del Wyoming, Stati Uniti, c’è una montagna impressionante di rocce ignee che sembra un gigantesco tronco d’albero pietrificato.
Si tratta della Torre del Diavolo, un’insolita formazione geologica che si innalza per 1588 metri sul livello del mare.
Ciò che rende la Torre del Diavolo così insolita è la sua superficie praticamente piatta e i singolari solchi verticali al suo fianco, così regolari che i nativi ci vedevano i graffi provocati dalle zampe di un orso.
Il suo aspetto inconsueto ha dato vita a numerose leggende e nel 1977 è stata utilizzata come location per la scena finale del film Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg.
Una leggenda lakota racconta che mentre sette bambine giocavano vicino al loro villaggio, alcuni orsi si avvicinarono per divorarle. Le ragazze saltarono su una roccia bassa e gridarono ad essa: “Roccia, abbi pietà di noi, salvaci!”.
Il Grande Spirito le udì e fece innalzare la roccia verso il cielo. Gli orsi le inseguirono cercando di arrampicarsi sulla roccia, lasciando con gli artigli le lunghe incisioni visibili ancora oggi. Tuttavia, gli animali non riuscirono a raggiungerle. La roccia divenne così alta che le ragazze divennero stelle, formando la costellazione che oggi chiamiamo delle Pleiadi (Le sette sorelle).
Certamente, è una leggenda suggestiva. Ma cosa dice la scienza circa la creazione di questa strana formazione geologica?

Teorie sulla formazione della Torre del Diavolo

La Torre del diavolo è stata studiata fin dal tardo 19° secolo. I geologi dell’epoca ritennero che il monte si fosse formato da un’intrusione di materiale igneo. I geologi moderni, sostanzialmente concordano con questa teoria, ma non esattamente sul processo che ha avuto luogo.
Molti credono che la roccia fusa che compone la Torre non sarebbe emersa dal terreno; altri ritengono che la Torre è tutto ciò che rimane di quello che una volta era un grande vulcano esplosivo.
Nel 1907, gli scienziati Darton e O’Harra proposero che la Torre del Diavolo doveva essere un residuo eroso di un laccolite. Il laccolite è una massa rocciosa formata dall’intrusione di magma fra due strati di rocce sedimentarie.
La pressione è tale da sollevare lo strato di roccia superiore mentre lo strato inferiore rimane pressoché orizzontale, dando luogo così alla tipica forma a cappella di fungo. Nel caso della Torre, si pensa che le colonne basaltiche sui lati del monte si siano formati a seguito del lentissimo raffreddamento della roccia fusa.
Altre teorie hanno suggerito che si tratti di una spina vulcanica, ovvero di una protrusione solida costituita da lave solide o semisolide estruse in un camino vulcanico. Quando si formano, durante un’eruzione vulcanica, possono ostacolare completamente la fuoriuscita dei gas e dar luogo ad eruzioni esplosive.

Cosa c’è sotto la Torre?

Esiste una leggenda, però, che non riguarda la creazione della roccia, ma ciò che c’è al di sotto di essa.
Anni fa, un residente di quella parte nordorientale del Wyoming, era in visita a Yankton, South Dakota. Mentre era lì, mostrava la foto della Torre del Diavolo agli anziani indiani Sioux che incontrava. Uno di loro sembrava particolarmente interessato alla foto chiedendo: “È stato trovato il passaggio alla base della torre”?
Quando il residente rispose di no, l’uomo sioux sembrava deluso. Incuriosito dalla domanda, il residente riusci a farsi raccontare dall’anziano indiano la leggenda della Torre che pochi bianchi conoscono.
Molti anni prima, tre guerrieri erano impegnati in una battuta di caccia vicino alla torre. Mentre esploravano le rocce alla base della montagna, scoprirono un passaggio al di sotto di essa. Costruirono torce con rami di pino e cominciarono ad esplorare il tunnel.
Il pavimento del tunnel era cosparso di ossa, forse umane. Il tunnel terminava dando su un’ampia cavità con un lago sotterraneo, al cui interno erano depositate grandi quantità d’oro. Impreparati a trasportare tale tesoro, i guerrieri lasciarono il tunnel e nascosero l’ingresso in modo che nessuno altro potesse trovarlo.
Promisero a loro stessi si tornare a prendere l’oro, ma non l’hanno mai fatto. Uno dei guerrieri, sul letto di morte, raccontò la storia ad altri membri della sua tribù, così che la storia venne tramandata per diverse generazioni prima di giungere al vecchio indiano.
Dunque, c’è dell’oro sotto la Torre del Diavolo? Se c’è, nessuno lo ha mai trovato. Inoltre, la geologia della montagna, un’intrusione ignea, non sembra permettere l’esistenza di grotte sotto la montagna. Il racconto somiglia molto a quelli sulle miniere perdute che si tramandavano nel vecchio West.
Tuttavia, è anche vero che nella zona di Black Hills, in cui si trova la Torre del Diavolo, ci sono alcune delle grotte più grandi del mondo, tra cui la Wind Cave e la Jewel Cave. Inoltre, Black Hills è nota per l’estrazione dell’oro, ispirando la grande corsa all’oro nel 1880.
Quindi, come per molte altre leggende, è possibile che sia qualcosa di vero nella storia della Torre del Diavolo. Forse la caverna perduta non è sotto la torre, ma nelle vicinanze, in attesa di essere trovata da qualcuno.



Una data certa per la scomparsa dei Neanderthal.


Le ultime tracce dei neanderthaliani risalgono a un periodo compreso tra 42.000 e 39.000 anni fa: lo ha stabilito un nuovo studio grazie a una sofisticata tecnica di datazione dei reperti. Il risultato definisce una data certa per la scomparsa dei nostri antichi cugini dal continente europeo e implica che vi fu un lungo periodo di coabitazione, durato alcune migliaia di anni, con Homo sapiens. 





Quarantamila anni: è l'arco di tempo che ci separa dalla scomparsa dell'uomo di Neanderthal dall’Europa. È questa la conclusione di unnuovo studio apparso sulla rivista “Nature” a firma di Tom Higham, dell’Università di Oxford, nel Regno Unito, e colleghi di un’ampia collaborazione internazionale.

Il risultato è stato ottenuto grazie a una datazione estremamente precisa di reperti archeologici provenienti da più di 40 siti sparsi per il continente, dalla Spagna alla Russia. Trova così conferma l'ipotesi che i nenaderthaliani non si siano estinti rapidamente, ma siano coesistiti conHomo sapiens per alcune migliaia di anni: l’Europa dell’epoca doveva perciò apparire come un complesso mosaico biologico e culturale.


La determinazione delle relazioni spaziali e temporali tra Nearderthaliani e umani moderni è cruciale per capire la scomparsa dei nostri antichi cugini. Finora tuttavia le ricerche hanno trovato un ostacolo difficilmente superabile nella scarsa accuratezza della convenzionale tecnica di datazione con carbonio radioattivo quando è applicata a reperti risalenti a più di 50.000 anni fa. In quei campioni infatti la percentuale di C-14, l’isotopo radioattivo, è troppo bassa per arrivare a una misurazione precisa.

Gli autori hanno aggirato il problema applicando la tecnica della spettrometria di massa con acceleratore, in grado di determinare l’abbondanza di isotopi molto rari, a campioni di ossa e altri reperti dell'industria mousteriana e della successiva industria castelperroniana.

La prima, che prende il nome dalla grotta di Le Moustier, in Francia, e si estende tra 300.000 e 30.000 anni fa, si riferisce alla produzione di utensili in pietra, realizzati scheggiando la selce, da parte dell'uomo di Neanderthal. La seconda, collegata al sito di Châtelperron, nella Franca occidentale, si riferisce invece a una fase di lavorazione più raffinata, con produzione anche di utensili di forma curvilinea usati probabilmente come coltelli, che viene considerata come testimonianza dall'ultima fase della presenza dei neanderthaliani in Europa. 

Il confronto con manufatti uluzziani (dal sito di Uluzzo, in Puglia), attribuiti esclusivamente a Homo sapiens, ha poi portato a concludere che la scomparsa dell'uomo di Neanderthal e la fine della cultura mousteriana sono databili, nei diversi siti diffusi dal Mar Nero alle coste dell'Oceano, tra 42.000 e 39.000 anni fa.

Queste conclusioni implicano una sovrapposizione tra neanderthaliani ed esseri umani moderni durata tra 2600 e 5400 anni, con possibili scambi culturali ed eventualmente anche genetici, tra le due specie di Homo.