venerdì 5 settembre 2014

I Nomoli: Statuine di antichi astronauti lasciate da una misteriosa cultura svanita migliaia di anni fa.


La statuine Nomoli sono delle piccole figure scolpite nella pietra trovate dalla popolazione locale del Sierra Leone, tra gli anni '80 e '90, durante la ricerca di diamanti in Africa occidentale. Queste statuine, dall'età stimata di circa 12 mila anni, sono le più insolite, le più eccezionali e le più antiche creazioni mai scoperte in Africa.






Tra i molti reperti antichi che sicuramente minacciano le tradizionali scuole di pensiero dell’archeologia classica ci sono le Statuine Nomoli.
Si tratta di piccole sculture in pietra alte dai 40 ai 70 centimetri che raffigurano in maniera accurata misteriosi esseri umanoidi deformi, spesso dall’aspetto rettile.
Le statuine furono scoperte tra gli anni ’80 e ’90 dalle popolazioni locali del Sierra Leone, durante la corsa ai diamanti nell’Africa occidentale.
L’origine delle figurine, denominate “Nomoli” dalla gente del luogo, è avvolta nel mistero, dato che non sembrano appartenere a nessuna cultura africana nota. Alcune statuine sono state rinvenute alla profondità di 50 metri, nello strato geologico che corrisponde all’età compresa tra gli 11 mila e i 12 mila anni fa.
Questo dato ha lasciato gli archeologi molto perplessi, dato che tale datazione non è conferme alle conoscenze attuali dell’archeologia classica, dal momento che le civiltà più antiche della regione si fanno risalire al 4 mila a.C. Da dove vengono, dunque, questi misteriosi manufatti?
Come spiegano i ricercatori John H. Atherton and Milan Kalous in un articolo comparso sulla rivista The Journal of African History, i Nomoli sono stati realizzati e utilizzati nella zona in cui si trovano. Dunque non sono stati importati.
Ma c’è di più! Come spiega Rossano Segalerba, pare che in una cavità all’interno di alcuni Nomoli vi siano delle palline metalliche e pietre provenienti dallo spazio. Le analisi svolte dal Museo di Storia Naturale di Vienna hanno mostrato che sono fatte di una strana mescolanza di cromo e acciaio.
Alcuni studiosi hanno, oltretutto, trovato tracce di una sostanza chiamata iridio nelle pietre, ma non c’è praticamente iridio nelle rocce del nostro pianeta, a meno che non sia portato dall’esterno, per esempio da un meteorite.


Chi mise lì dentro questi piccoli oggetti? E, cosa ancora più importante, come è stata prodotta la lega metallica di cui sono composti?
Le cosiddette “pietre di colore blu provenienti dal cielo” sono un ulteriore enigma nell’enigma. Una leggenda del posto dice: “La parte di cielo in cui Nomoli visse si trasformò in una pietra, che si scheggiò rotolando sulla terra”.
Tra l’altro, è interessante notare come la parola “Nomoli” abbia un’assonanza con“Nommo”, ovvero come, sempre nell’Africa occidentale, i Dogon del Mali chiamano gli esseri che in un lontano passato, secondo certi miti ancestrali, piovvero sulla Terra dalla stella Sirio.
Una leggenda africana narra che costoro “hanno vagato senza alcun impedimento in luoghi dove nessuno uomo era mai stato prima. Uno non li poteva guardare in faccia perchè i loro occhi erano così luminosi che provocavano cecità in chi li guardava: era come guardare il sole. A queste creature venne vietato l’ingresso nell’impero divino e inviate a Terra”. Quest’ultima parte ci riporta al mito della “caduta degli angeli”, di cui si parla in diverse culture, compresa quella giudeo-cristiana.
Secondo le popolazioni locali, le statuine Nomoli sarebbero un ricordo di queste creature divine esiliate sulla Terra. Esse hanno delle caratteristiche tipiche: sono realizzate in diversi tipi di pietra, presentano grandi nasi come quello di un rapace con le narici, grandi bocche, mostrando talvolta i denti. I loro crani sono piatti.
Alcune figurine ritraggono rettili dall’aspetto antropomorfo.
Altre rappresentazioni mostrano che i Nomoli, agli occhi di chi li ha prodotti, dovevano avere dimensioni considerevoli, tali da poter cavalcare tranquillamente un elefante.
Dunque, cosa rappresentano i Nomoli? Entità partorite dall’immaginazione religiosa di una cultura perduta di 12 mila anni fa, oppure sono la documentazione di una Antichi Astronauti extraterrestri entrati in contatto con i nostri antenati?


Anatolia: Un uomo scopre una città sommersa sotto casa sua.


Un uomo di Kayseri, una provincia dell'Anatolia centrale, Turchia, ha scoperto una vasta struttura sotterranea durante la pulizia di una casa ereditata dalla sua famiglia. 
La struttura si estende su cinque livelli, per un'area complessiva di 2500 metri quadrati.






Mustafa Bozdemir, un uomo di 50 anni che vive in Francia, ha ricevuto in eredità dalla sua famiglia una casa nella provincia di Kayseri, Anatolia centrale, Turchia.
Durante i lavori di pulizia dell’interrato, Bozdemir si è imbattuto in una struttura sotterranea che aveva l’area di essere un’antica abitazione romana.
L’uomo ha subito informato l’Ufficio del Governatore di Kayseri e l’Ente per la Cultura e il Turismo. Una volta ottenute le necessarie autorizzazioni, l’uomo ha continuato gli scavi, portando alla luce un immensa struttura sotterranea, quasi una città.
“In un primo momento abbiamo pensato che ci fosse un solo livello sotterraneo, poi abbiamo scoperto che ne esistevano cinque”, spiega Bozdemir sull’Hurriyet Daily News. Per completare l’opera, l’ereditiero ha speso 80 mila euro e rimosso più di 100 camion di terra.
“Quando ho deciso di ripristinare la casa, ho pensato di ripulire anche il piano interrato”, racconta Bozdemir. “Una volta ripulito tutto, ci siamo resi conto dell’esistenza di altri quattro livelli sotto casa”.
Quasi l’80 per cento degli scavi è stato completato. Il terreno è stato rimosso manualmente e dieci persone hanno lavorato alla pulizia di una superficie pari a 2500 m². Durante i lavori di pulizia, sono stati ritrovati anche alcuni resti di ossa umane, sulle quali è in corso un’analisi da parte di un team della Erciyes University.
“Abbiamo pensato che fosse uno spazio destinato alla conservazione del cibo o per il ricovero degli animali”, spiega Nuvit Bayar, direttore del progetto della Guntas, la società responsabile per il restauro. “Ma nessuno si aspettava che facesse parte di una città sotterranea. Alcune aree ricordano i resti sotterranei degli antichi insediamenti in Cappadocia”.
La regione dell’Anatolia è nota per le più spettacolari reti di tunnel sotterranei in tutto il mondo, alcune delle quali che si configurano come delle vere e proprie città, in particolare nella regione della Cappadocia, dove sono state rinvenute più di 40 città sotterranee complete, con tunnel completi di passaggi nascosti, stanze segrete e antichi templi.
Una delle più belle e famose è certamente la città di Derinkuyu, con i suoi undici livelli di profondità, circa 600 ingressi, e la capacità di ospitare migliaia di persone. La città si compone di molti chilometri di tunnel che la collegano ad altre città sotterranee.
Nei livelli sotterranei sono stati trovati sale da pranzo, cucine annerite dalla fuliggine, cantine, botteghe di alimentari, una scuola, numerose saloni e anche un bar.
Secondo molti archeologi e studiosi, è probabile che Derinkuyu servisse come rifugio temporaneo durante le invasioni e che sia stata costruita intorno all’800 a.C. dai Frigi, un popolo dell’Età del Bronzo imparentato con i Troiani.
Altri credono che sia stata costruita dagli Ittiti, popolo guerriero menzionato nella Bibbia e che aveva prosperato centinaia di anni prima. Ma è possibile che la città sotterranea sia ancora più antica.
Sebbene sia improbabile che l’ultima scoperta avvenuta a Kayseri pareggi la magnificenza di Derinkuyu, si tratta comunque di un risultato estremamente significativo, a dimostrazione che il mondo sotterraneo dell’Anatolia custodisce gelosamente ancora molti segreti.


Gli incredibili cerchi di pietra di SeneGambia.


Cerchi di pietra di Senegambia è il nome con cui è noto un sito inserito dal 2006 nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO che si trova sul confine fra il Gambia ed il Senegal. Questa regione, che si estende su di una superficie di circa 35.000 chilometri quadrati nella zona del fiume Gambia, è anche conosciuta col nome di Wassu in Gambia e col nome di Sine-Saloum in Senegal.




Nel corso della storia, l’uomo ha sentito la costante necessità di erigere maestosi monumenti.
Molto spesso, l’esigenza era quella di costruire qualcosa che fosse più grande, costosa e imperitura di qualsiasi altra cosa realizzata in precedenza.
Tuttavia, esistono alcuni monumenti meno importanti che raramente attirano la stessa attenzione, che però sono esempi di grande progettazione architettonica e tecnologica.
Tra questi ci sono i Cerchi di Pietra di Senegambia, un sito inserito dal 2006 nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO che si trova sul confine fra il Gambia ed il Senegal.
In media, le pietre che compongono i cerchi sono alte circa 2 metri e possono pesare fino a 7 tonnellate ciascuna. Anche se non si tratta di strutture massicce come quelle di Stonehenge in Inghilterra, o come le Piramidi d’Egitto, di queste incredibili realizzazioni monolitiche se ne contano più di 1000, sparse su una superficie di 100 km per 350 km.
Dei 1000 cerchi di pietra, 93 sono stati inseriti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco. Questi includono in complesso Sine Ngayène in Senegal, così come i complessi Wanar, Wassu e Kerbatch in Gambia.
Oltre ai cerchi di pietra, i complessi contengono anche numerosi tumuli funerari. Dal materiale ottenuto dagli scavi archeologici, si desume che i cerchi sono stati realizzati tra il 3° secolo a.C. e il 16° secolo d.C. Questo suggerisce che i cerchi sono stati eretti gradualmente nel corso di un lungo periodo di tempo, facendo riferimento ad una tradizione che è stata mantanuta per quasi due millenni.
Per la realizzazione dei cerchi di pietra, gli antichi costruttore hanno dovuto identificare gli affioramenti rocciosi più adatti per l’intaglio delle pietre. Sebbene si tratti di una pietra abbastanza comune nella regione, era comunque necessaria una grande conoscenza geologica della zona.


Una volta identificata la cava più adatta, cominciava il taglio e l’estrazione della pietra, operazione non facile dato che l’obiettivo era quello di ricavare un unico grande monolito. Nei siti di estrazione non è stato trovato nessun attrezzo. Certamente era necessaria una grande abilità per tirare fuori i monoliti dalla cava, ma le tecniche estrattive sono ancora del tutto ignote.
Infine, i monoliti estratti venivano trasportati e eretti in vari siti lungo il fiume Gambia. Questo processo suggerisce che le antiche popolazioni dell’Africa occidentale fossero socialmente molto organizzate, riuscendo a mobilitare un gran numero di operai per la realizzazione del progetto. Basti immaginare che l’intero processo si è ripetuto per migliaia di monoliti.
La funzione dei Cerchi di Pietra di Senegambia rimane sconosciuta. È stato suggerito che avessero una funzione funeraria. In alcuni scavi, sono state scoperte sepolture di massa, in cui i corpi sono stati gettati alla rinfusa nelle fosse. Forse si trattava di vittime di un’epidemia o di guerre tribali.
Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che la posizione dei vari cerchi di pietra rifletta la configurazione di alcune costellazioni. Quello che è certo è che sono necessarie ulteriori ricerche per comprenderne meglio la funzione.

Death Valley: Ecco perchè le pietre si muovono da sole.


Sono state un mistero per decenni, le rocce che camminano, o strisciano nel deserto lasciando dietro di sé lunghe tracce sul suolo arido della Death valley, la valle della morte, in Nevada. Un vero e proprio mistero che ora sembra giunto ad una soluzione.




Un fenomeno affascinante che ha attirato l’attenzione per molti anni.
Tante ipotesi sono state fatte nel corso del tempo per le celebri “sailing stone” o “moving rock”, le pietre che si muovono, il fenomeno che riguarda la Death Valley, in California, e che catalizza l’attenzione di molti ricercatori.
A rendere famosi i sassi del deserto californiano è l’inspiegabile attitudine al movimento delle rocce, le quali sembrano muoversi da sole nel deserto, lasciando dietro di loro delle scie nella sabbia.
Ora il mistero sembrerebbe risolto. La scoperta è stata spiegata da Richard Norris, paleoceanografo dell’Istituto di Oceanografia Scripps di San Diego, sulla rivista scientifica online Plos One.
A creare questo particolare effetto sarebbe lo strato di ghiaccio che si forma in inverno sulla Racetrack Playa, un lago asciutto della “Valle della Morte”. Potrà sembrare strano nel luogo tra i più caldi del pianeta, ma in inverno la temperatura scende di parecchi gradi sotto lo zero.
La poca acqua che ricopre la “Racetrack playa” nella stagione fredda gela di notte, formando uno strato di ghiaccio estremamente sottile. Durante lo scioglimento diurno le sottili ma resistenti lastre di ghiaccio che galleggiano sono in grado, sotto la spinta di una leggera brezza, di spostare le rocce che poggiano sul fango morbido. Pochi millimetri alla volta, che diventano nel corso di diversi giorni lunghe ‘passeggiate’ attraverso il deserto.
Il fenomeno era stato teorizzato ma non ancora osservato. I ricercatori della Scripps Institution of Oceanography dell’Università di San Diego hanno posizionato una stazione meteo e una telecamera per riprendere quanto succede durante un lungo periodo di tempo: per la prima volta hanno registrato il movimento delle rocce e ne hanno tracciato lo spostamento attraverso gps.
Norris ha registrato lo spostamento di 224 metri di un sasso tra dicembre 2013 e gennaio 2014, rilevando che di notte in inverno la superficie del lago asciutto si copre di uno strato di ghiaccio spesso tra 3 e 6 millimetri.
Quando il ghiaccio si scioglie nella tarda mattinata e si spezza in placche, queste – spinte dal vento che soffia a 14-18 km all’ora – spostano i sassi che si muovono a una velocità molto bassa: 2-5 metri al minuto. Ecco perché nessuno ha mai visto dal vivo i sassi muoversi.
“È stato l’esperimento più noioso della mia vita”, ha confessato Norris commentando lo studio del fenomeno che per decenni ha arrovellato gli scienziati. Come facevano centinaia di massi pesanti anche 300 chili a spostarsi da soli? Per rispondere alla domanda, ci sono volute ore e ore di noiosissimi appostamenti in uno dei posti più desolati del pianeta.

mercoledì 4 giugno 2014

Egitto: Una nuova teoria sulla costruzione delle piramidi in Egitto.


Un ingegnere gallese ha presentato una nuova teoria sulla costruzione della antiche piramidi della piana di Giza che rischia di scuotere il mondo dell'archeologia. A suo parere, il fatto che le piramidi siano state costruite da decine di migliaia di operai che trasportavano blocchi massicci su lunghe rampe è praticamente impossibile.






Peter James, è un ingegnere delle costruzioni di Newport, Galles del Sud.
Soprannominato Indiana James, insieme al team della sua azienda Cintec ha passato gli ultimi diciotto anni a restaurare le piramidi egiziane, avendo l’opportunità di osservare in profondità gli enigmatici monumenti.
Forte di questa esperienza, l’ingegnere gallese ha elaborato una nuova teoria sulla loro costruzione che rischia di mettere in discussione le teorie classiche e far andare su tutte le furie gli archeologi egiziani.
“Secondo le attuali teorie, per impilare i due milioni di blocchi richiesti per la costruzione delle piramidi, gli operai egiziani avrebbero dovuto posizionare un blocco ogni tre minuti”, spiega James.
Inoltre, i blocchi sarebbero dovuti essere spostati su delle ampie rampe che secondo i suoi calcoli, per arrivare a quell’altezza ed evitare che risultassero troppo ripide, avrebbero raggiungo la lunghezza di almeno 400 metri. “Se così fosse, ci sarebbero ancora i segni delle rampe, ma non ce ne sono”, dice James.
Osservando l’interno delle piramidi, James ha innanzitutto ipotizzato che queste furono costruite a cominciare dall’interno, utilizzando i grandi blocchi di pietra per la struttura esterna e materiale più piccolo per la struttura interna, allo stesso modo in cui un costruttore moderno realizzerebbe un muro di pietra.
L’ingegnere ritiene che l’interno delle piramidi è composto di piccoli blocchi facilmente lavorabili e trasportabili. I grossi blocchi visibili all’esterno, sarebbero solo destinati al contenimento dell’intera struttura.
James ha contestato anche la teoria tradizionale su quanto è successo al rivestimento esterno delle piramidi. Gli archeologi sono convinti che la pietra liscia sia stata rubata per la realizzazione di altre costruzioni. L’ingegnere, invece, ritiene che le pietre esterne siano cadute a causa della dilatazione termica causata dalle grandi escursioni termiche tra il giorno e la notte, che possono andare dai 50°C ai 3°C.
“Mi sto preparando ad un dura battaglia con gli archeologi”, ammette l’ingegnere. “Mi accuseranno di non essere un archeologo. Ma se uno vuole costruire una casa chiama un ingegnere o un archeologo? Gli archeologi non hanno mai avuto esperienza di ingegneria”.
Peter James è amministratore delegato della Cintec, azienda leader nel settore del consolidamento strutturale di siti antichi. L’azienda impiega 50 persone e opera in tutto il mondo, ma è stata particolarmente coinvolta nel rafforzamento di antichi monumenti in Iran, Iraq e nel Sahara. Ha contribuito anche a rafforzare le camere sepolcrali delle piramidi a gradoni e della Piramide Rossa.
Certo, non è possibile stabilire se la teoria di James sia corretta oppure no. Però bisogna dargli atto di aver avuto il coraggio di mettere in discussione le idee consolidate dell’archeologia tradizionale e di aver avuto l’animo di affrontare il fuoco di fila di chi si sente investito di difendere queste idee ad ogni costo, anche contro l’evidenza.
Anche altri si sono cimentati nell’ipotizzare tecniche differenti per la costruzione delle piramidi. In un’animazione caricata su youtube, è possibile vedere un sistema per trasportare i blocchi di pietra sulla cima delle piramidi.
Utilizzando una sorta di camera d’aria capace di far galleggiare i blocchi di pietra, gli operai li avrebbero spinti in un condotto verticale pieno di acqua, in modo tale che il galleggiamento li avrebbe poi sospinti verso l’alto.




Luoghi: Le meravigliose montagne colorate della Danxia Cinese.


Danxia è il nome di una regione della Cina caratterizzata da paesaggi formatisi in seguito a maestose forze geologiche. Le formazioni montuose presentano colorazioni spettacolari, uno spettacolo naturale davvero unico nel suo genere.




Il pianeta Terra è straordinariamente bello. Ci sono luoghi capaci di suscitare nel nostro animo il senso della meraviglia, percependone, allo stesso tempo, la maestosa bellezza.
Uno di questi luoghi è la Danxia, una regione montuosa che si trova nella fascia sub-tropicale della Cina.


Il paesaggio si estende per circa 1700 km, formando una mezzaluna che va da Guizhou a ovest, fino alla Provincia di Zhejiang ad est.
La morfologia del territorio è il risultato di una modellazione geologica durata 24 milioni di anni, causata da forze endogene, cioè movimenti interni alla crosta terrestre, e forze esogene, erosione da agenti atmosferici.
Vagando per la regione, è facile imbattersi in pilastri naturali, torri, anfratti, valli e cascate. Ma ciò che più meraviglia è la straordinaria gamma di colori presenti nei vari strati delle rocce, i quali rendono la Danxia un luogo unico sul pianeta.



I colori insoliti delle rocce sono causate dalla presenza di arenaria rossa e da vari depositi minerali accumulatisi nel corso di milioni di anni. Il risultato è una meravigliosa “torta a strati” geologica. Vento e pioggia hanno poi completato il lavoro scolpendo forme strane e maestose, diverse per colore, consistenza, forma e dimensione.
La Danxia Cinese è un paesaggio suggestivo e di grande bellezza, tanto da essere stato inserito nella lista UNESCO del Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Oltre alla bellezza, il territorio è significativo anche sotto l’aspetto biologico, in quanto conserva foreste sempreverdi di latifoglie e ospita molte specie di flora e fauna, circa 400 delle quali sono considerate rare o a rischio estinzione.
Le comunità locali sono a conoscenza del fatto che il territorio è stato inserito nella lista dell’Unesco e tutte le parti sono d’accordo nel sottoscrivere gli impegni finalizzati a garantirne la conservazione a lungo termine.


domenica 1 giugno 2014

Giganti di pietra: Perchè i nostri antenati erigevano i Menhir?


Circa 7 mila anni fa, i nostri antenati hanno cominciato ad erigere maestosi monumenti megalitici denominati Menhir. Ampiamente distribuiti in Europa, Africa ed Asia, queste opere sono più numerosi nell'Europa Occidentale, in particolare in Bretagna e nelle isole britanniche. Sono stati eretti in molti periodi differenti, nel corso della preistoria, ed erano creati nel contesto della cosiddetta cultura megalitica che fiorì in Europa e dintorni. Ma perché?




I ricercatori fanno coincidere il sorgere della Cultura Megalitica europea con la comparsa delle prime comunità nate dalla fusione dei gruppi europeo di cacciatori-raccoglitori con i primi agricoltori provenienti dal Vicino Oriente.
La nuova energia garantita dalla moltiplicazione delle risorse alimentari, i nostri antenati realizzarono qualcosa di veramente straordinario: i primi grandi monumenti in pietra.
All’erezione di queste grandi opere megalitiche, i ricercatori associano lo sviluppo delle prime riflessioni sul rapporto tra materia e spirito e sul senso della vita e della morte.
La regione europea più ricca di strutture megalitiche è certamente il golfo di Morbihan, nel sud della Bretagna. Questo luogo offre delle testimonianze importantissime di quell’epoca: decine e decine di siti con migliaia di megaliti, alcuni dei quali addirittura decorati.
I megaliti erano diffusi in molte altre parti d’Europa, ma quello che colpisce è l’estensione dei siti. Si va dalla Svezia all’Irlanda, dal Portogallo all’Italia, dalla Gran Bretagna alla Francia, e anche al Nord Africa.
Alcuni ricercatori hanno suggerito che l’Europa venne unita per la prima volta dalla tradizione dei megaliti, e in effetti potrebbe essere considerata la prima grande religione diffusa su larga scala in tutto il continente.
Ancora oggi, sorprende la capacità dei nostri antenati primitivi di innalzare questi enormi complessi. Il più famoso è certamente il sito di Stonehenge, risultato di secoli di aggiunte e rimaneggiamenti. Molto diffusa è l’idea che questi complessi venissero utilizzati per la precisa osservazione delle stelle e del movimento del sole.


Molti hanno proposto teorie alternative sull’origine dei monumenti, invocando addirittura l’intervento degli extraterrestri. Gli scettici, tuttavia, fanno notare che proporre un’ipotesi del genere equivarrebbe a dire che questi uomini non fossero in grado di costruirli.
Eppure, si rimane sconcertati quando si pensa che delle società analfabete, che non conoscevano la ruota, né i metalli, furono capaci di innalzare capolavori che ancora oggi lasciano senza fiato. Quali tecniche siano state utilizzate per innalzare tali monumenti megalitici è ancora oggetto di speculazione.
 I Menhir
I menhir (dal bretone men e hir “lunga pietra”) sono dei megaliti monolitici eretti solitamente durante il Neolitico, che potevano raggiungere anche più di venti metri di altezza . Essi sono ampiamente distribuiti in Europa, Africa ed Asia, ma sono più numerosi nell’Europa Occidentale, in particolare in Bretagna e nelle isole britanniche.
Potevano essere eretti singolarmente o in gruppi, e con dimensioni che possono considerevolmente variare, anche se la loro forma è generalmente squadrata, alcune volte assottigliandosi verso la cima.
Nel famoso sito di Carnac, situato nel dipartimento del Morbihan nella regione della Bretagna , sono stati contati 3 mila Menhir. Eretti circa 6 mila anni fa, i Menhir di Carnac sembrano comporre un vero e proprio esercito in pietra, lungo oltre un chilometro e disposto su più file.
Il materiale roccioso da cui vennero tirati fuori i menhir di Carnac è granito chiaro, una pietra particolarmente dura da lavorare. Una volta scelto il megalito, bisognava trasportarlo fino al sito prescelto ed innalzato. Il problema è che molto spesso questo si trovava a molti chilometri di distanza. Come ci riuscivano, se i nostri antenati non conoscevano la ruota?
Alcuni hanno ipotizzato che i costruttori facessero scivolare le enormi rocce su rulli di legno, spalmando un lubrificante naturale come il grasso animale. Naturalmente, alla base di tutto c’era la forza umana: ci volevano davvero tante persone.
Secondo i ricercatori, queste tecniche sono bastate anche per erigere uno dei Menhir più colossali che si conoscano: il Grande Menhir spezzato di Locmariaquer (Morbihan) . Oggi è a terra, spezzato in quattro enormi blocchi, ma a quell’epoca era lungo 21 metri.
Interrato per 3 metri, il Menhir si ergeva per 18 metri di altezza, quanto un palazzo di sei piani, e pesava 280 tonnellate. E non era il solo: ce n’erano altri 18 posizionati in fila, allineati in modo decrescente. Il più grande rimase in piedi per secoli, per poi venire abbattuto dagli stessi uomini neolitici. Il motivo della distruzione è avvolto nel mistero.
Importanti siti con Menhir si trovano anche in Italia. In Sardegna, ad esempio, dove i menhir prendono il nome di “perdas fittas” o “pedras fittas” (pietre conficcate ), sono presenti a Laconi e a Villa Sant’Antonio, in provincia di Oristano, ma anche a Goni e Sant’Antioco, in provincia di Cagliari. Importanti siti si trovano anche in Puglia, Liguria, Piemonte e Lombardia.


Perché?

Perché mettere in atto un tale sforzo fisico e intellettuale? Qual era il significato di queste immense distese di massi? In realtà, non lo sappiamo. Alcuni ipotizzano che ognuno dei massi potrebbe rappresentare un antenato importante, un capo defunto, oppure un eroe del passato, l’equivalente delle statue degli imperatori e dei santi.
Se fosse vero, i siti megalitici del neolitico rappresenterebbero la storia dei nostri antenati, con tanto di dinastie, eroi e figure leggendarie. Ma, purtroppo, di loro non sappiamo nulla. 
A quell’epoca, infatti, la scrittura non era stata ancora inventata e quindi non esistono documenti scritti e steli incise che raccontano cronache e eventi: si tratta di capitoli di storia perduti nell’oblio.
Queste popolazioni megalitiche innalzarono megaliti per venti secoli di fila. Poi, cominciarono ad abbandonarli e a non erigerne più. I motivi non sono chiari. Qualunque sia il motivo, intorno a 5 mila anni fa, la tradizione dei megaliti si spense in tutta Europa: l’era dei giganti di pietra era finita per sempre.


Anche i cacciatori in difesa dell’orso marsicano, accordo col ministero dell’Ambiente.


Il ministero dell’Ambiente, l’Ispra, la Federazioni italiana della Caccia, l’Associazione Nazionale Libera Caccia, l’Enalcaccia, l’Anuu Migratoristi e l’Arci Caccia hanno firmato un protocollo d’intesa per la tutela dell’Orso bruno marsicano attraverso un programma condiviso di implementazione di buone pratiche di gestione venatoria.





Secondo il ministero dell’Ambiente «l’accordo trova piena sintonia con quanto disposto dal Piano d’azione Patom (Piano d’Azione per la tutela dell’orso bruno Marsicano, ndr) e dal Protocollo d’intesa firmato il 27 marzo scorso da Ministero, Regioni Abruzzo, Lazio, Molise e Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise».
L’accordo tra ministero, Ispra e cacciatori prevede impegni unilaterali da parte delle associazioni «Per ridurre l’impatto della pratica venatoria e delle attività connesse, promuovendo l’informazione e la formazione dei cacciatori sulle corrette modalità di gestione delle specie di interesse venatorio e le criticità di conservazione dell’Orso bruno marsicano».
Nel protocollo si legge che «Le associazioni condividono la necessità di procedere, ai fini della tutela dell’Orso bruno marsicano e sulla base di apposita cartografia di presenza della specie aggiornata, alla rapida sostituzione della “braccata”, caratterizzata da un elevato disturbo e rischio di impatto su specie “non target”, con forme a minor impatto come la “girata” e la “caccia di selezione”, attraverso la formazione e l’aggiornamento dei cacciatori». Viene anche prevista «La promozione di una più corretta organizzazione della gestione venatoria, a partire dalla stesura dei Piani Faunistici Venatori e dei Regolamenti specifici di gestione delle diverse specie, appoggiando le amministrazioni competenti nella definizione delle prescrizioni, il coinvolgimento degli “ambiti territoriali di caccia” (ATC) a supporto delle amministrazioni per la revisione della programmazione venatoria, la formazione-aggiornamento per una ‘corretta cultura della gestione delle specie di interesse, secondo i criteri scientifici definiti dai documenti tecnici dell’Ispra».
Il ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti ha detto che «con questo protocollo facciamo tutti un altro passo in avanti nel percorso avviato per la tutela dell’Orso marsicano. Ogni istituzione e ogni gruppo d’interesse ha il dovere di concorrere alla difesa di questo straordinario simbolo della biodiversità italiana. Oggi mi sembra si sia dato un segnale significativo in questo senso».