venerdì 5 settembre 2014

Death Valley: Ecco perchè le pietre si muovono da sole.


Sono state un mistero per decenni, le rocce che camminano, o strisciano nel deserto lasciando dietro di sé lunghe tracce sul suolo arido della Death valley, la valle della morte, in Nevada. Un vero e proprio mistero che ora sembra giunto ad una soluzione.




Un fenomeno affascinante che ha attirato l’attenzione per molti anni.
Tante ipotesi sono state fatte nel corso del tempo per le celebri “sailing stone” o “moving rock”, le pietre che si muovono, il fenomeno che riguarda la Death Valley, in California, e che catalizza l’attenzione di molti ricercatori.
A rendere famosi i sassi del deserto californiano è l’inspiegabile attitudine al movimento delle rocce, le quali sembrano muoversi da sole nel deserto, lasciando dietro di loro delle scie nella sabbia.
Ora il mistero sembrerebbe risolto. La scoperta è stata spiegata da Richard Norris, paleoceanografo dell’Istituto di Oceanografia Scripps di San Diego, sulla rivista scientifica online Plos One.
A creare questo particolare effetto sarebbe lo strato di ghiaccio che si forma in inverno sulla Racetrack Playa, un lago asciutto della “Valle della Morte”. Potrà sembrare strano nel luogo tra i più caldi del pianeta, ma in inverno la temperatura scende di parecchi gradi sotto lo zero.
La poca acqua che ricopre la “Racetrack playa” nella stagione fredda gela di notte, formando uno strato di ghiaccio estremamente sottile. Durante lo scioglimento diurno le sottili ma resistenti lastre di ghiaccio che galleggiano sono in grado, sotto la spinta di una leggera brezza, di spostare le rocce che poggiano sul fango morbido. Pochi millimetri alla volta, che diventano nel corso di diversi giorni lunghe ‘passeggiate’ attraverso il deserto.
Il fenomeno era stato teorizzato ma non ancora osservato. I ricercatori della Scripps Institution of Oceanography dell’Università di San Diego hanno posizionato una stazione meteo e una telecamera per riprendere quanto succede durante un lungo periodo di tempo: per la prima volta hanno registrato il movimento delle rocce e ne hanno tracciato lo spostamento attraverso gps.
Norris ha registrato lo spostamento di 224 metri di un sasso tra dicembre 2013 e gennaio 2014, rilevando che di notte in inverno la superficie del lago asciutto si copre di uno strato di ghiaccio spesso tra 3 e 6 millimetri.
Quando il ghiaccio si scioglie nella tarda mattinata e si spezza in placche, queste – spinte dal vento che soffia a 14-18 km all’ora – spostano i sassi che si muovono a una velocità molto bassa: 2-5 metri al minuto. Ecco perché nessuno ha mai visto dal vivo i sassi muoversi.
“È stato l’esperimento più noioso della mia vita”, ha confessato Norris commentando lo studio del fenomeno che per decenni ha arrovellato gli scienziati. Come facevano centinaia di massi pesanti anche 300 chili a spostarsi da soli? Per rispondere alla domanda, ci sono volute ore e ore di noiosissimi appostamenti in uno dei posti più desolati del pianeta.

mercoledì 4 giugno 2014

Egitto: Una nuova teoria sulla costruzione delle piramidi in Egitto.


Un ingegnere gallese ha presentato una nuova teoria sulla costruzione della antiche piramidi della piana di Giza che rischia di scuotere il mondo dell'archeologia. A suo parere, il fatto che le piramidi siano state costruite da decine di migliaia di operai che trasportavano blocchi massicci su lunghe rampe è praticamente impossibile.






Peter James, è un ingegnere delle costruzioni di Newport, Galles del Sud.
Soprannominato Indiana James, insieme al team della sua azienda Cintec ha passato gli ultimi diciotto anni a restaurare le piramidi egiziane, avendo l’opportunità di osservare in profondità gli enigmatici monumenti.
Forte di questa esperienza, l’ingegnere gallese ha elaborato una nuova teoria sulla loro costruzione che rischia di mettere in discussione le teorie classiche e far andare su tutte le furie gli archeologi egiziani.
“Secondo le attuali teorie, per impilare i due milioni di blocchi richiesti per la costruzione delle piramidi, gli operai egiziani avrebbero dovuto posizionare un blocco ogni tre minuti”, spiega James.
Inoltre, i blocchi sarebbero dovuti essere spostati su delle ampie rampe che secondo i suoi calcoli, per arrivare a quell’altezza ed evitare che risultassero troppo ripide, avrebbero raggiungo la lunghezza di almeno 400 metri. “Se così fosse, ci sarebbero ancora i segni delle rampe, ma non ce ne sono”, dice James.
Osservando l’interno delle piramidi, James ha innanzitutto ipotizzato che queste furono costruite a cominciare dall’interno, utilizzando i grandi blocchi di pietra per la struttura esterna e materiale più piccolo per la struttura interna, allo stesso modo in cui un costruttore moderno realizzerebbe un muro di pietra.
L’ingegnere ritiene che l’interno delle piramidi è composto di piccoli blocchi facilmente lavorabili e trasportabili. I grossi blocchi visibili all’esterno, sarebbero solo destinati al contenimento dell’intera struttura.
James ha contestato anche la teoria tradizionale su quanto è successo al rivestimento esterno delle piramidi. Gli archeologi sono convinti che la pietra liscia sia stata rubata per la realizzazione di altre costruzioni. L’ingegnere, invece, ritiene che le pietre esterne siano cadute a causa della dilatazione termica causata dalle grandi escursioni termiche tra il giorno e la notte, che possono andare dai 50°C ai 3°C.
“Mi sto preparando ad un dura battaglia con gli archeologi”, ammette l’ingegnere. “Mi accuseranno di non essere un archeologo. Ma se uno vuole costruire una casa chiama un ingegnere o un archeologo? Gli archeologi non hanno mai avuto esperienza di ingegneria”.
Peter James è amministratore delegato della Cintec, azienda leader nel settore del consolidamento strutturale di siti antichi. L’azienda impiega 50 persone e opera in tutto il mondo, ma è stata particolarmente coinvolta nel rafforzamento di antichi monumenti in Iran, Iraq e nel Sahara. Ha contribuito anche a rafforzare le camere sepolcrali delle piramidi a gradoni e della Piramide Rossa.
Certo, non è possibile stabilire se la teoria di James sia corretta oppure no. Però bisogna dargli atto di aver avuto il coraggio di mettere in discussione le idee consolidate dell’archeologia tradizionale e di aver avuto l’animo di affrontare il fuoco di fila di chi si sente investito di difendere queste idee ad ogni costo, anche contro l’evidenza.
Anche altri si sono cimentati nell’ipotizzare tecniche differenti per la costruzione delle piramidi. In un’animazione caricata su youtube, è possibile vedere un sistema per trasportare i blocchi di pietra sulla cima delle piramidi.
Utilizzando una sorta di camera d’aria capace di far galleggiare i blocchi di pietra, gli operai li avrebbero spinti in un condotto verticale pieno di acqua, in modo tale che il galleggiamento li avrebbe poi sospinti verso l’alto.




Luoghi: Le meravigliose montagne colorate della Danxia Cinese.


Danxia è il nome di una regione della Cina caratterizzata da paesaggi formatisi in seguito a maestose forze geologiche. Le formazioni montuose presentano colorazioni spettacolari, uno spettacolo naturale davvero unico nel suo genere.




Il pianeta Terra è straordinariamente bello. Ci sono luoghi capaci di suscitare nel nostro animo il senso della meraviglia, percependone, allo stesso tempo, la maestosa bellezza.
Uno di questi luoghi è la Danxia, una regione montuosa che si trova nella fascia sub-tropicale della Cina.


Il paesaggio si estende per circa 1700 km, formando una mezzaluna che va da Guizhou a ovest, fino alla Provincia di Zhejiang ad est.
La morfologia del territorio è il risultato di una modellazione geologica durata 24 milioni di anni, causata da forze endogene, cioè movimenti interni alla crosta terrestre, e forze esogene, erosione da agenti atmosferici.
Vagando per la regione, è facile imbattersi in pilastri naturali, torri, anfratti, valli e cascate. Ma ciò che più meraviglia è la straordinaria gamma di colori presenti nei vari strati delle rocce, i quali rendono la Danxia un luogo unico sul pianeta.



I colori insoliti delle rocce sono causate dalla presenza di arenaria rossa e da vari depositi minerali accumulatisi nel corso di milioni di anni. Il risultato è una meravigliosa “torta a strati” geologica. Vento e pioggia hanno poi completato il lavoro scolpendo forme strane e maestose, diverse per colore, consistenza, forma e dimensione.
La Danxia Cinese è un paesaggio suggestivo e di grande bellezza, tanto da essere stato inserito nella lista UNESCO del Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Oltre alla bellezza, il territorio è significativo anche sotto l’aspetto biologico, in quanto conserva foreste sempreverdi di latifoglie e ospita molte specie di flora e fauna, circa 400 delle quali sono considerate rare o a rischio estinzione.
Le comunità locali sono a conoscenza del fatto che il territorio è stato inserito nella lista dell’Unesco e tutte le parti sono d’accordo nel sottoscrivere gli impegni finalizzati a garantirne la conservazione a lungo termine.


domenica 1 giugno 2014

Giganti di pietra: Perchè i nostri antenati erigevano i Menhir?


Circa 7 mila anni fa, i nostri antenati hanno cominciato ad erigere maestosi monumenti megalitici denominati Menhir. Ampiamente distribuiti in Europa, Africa ed Asia, queste opere sono più numerosi nell'Europa Occidentale, in particolare in Bretagna e nelle isole britanniche. Sono stati eretti in molti periodi differenti, nel corso della preistoria, ed erano creati nel contesto della cosiddetta cultura megalitica che fiorì in Europa e dintorni. Ma perché?




I ricercatori fanno coincidere il sorgere della Cultura Megalitica europea con la comparsa delle prime comunità nate dalla fusione dei gruppi europeo di cacciatori-raccoglitori con i primi agricoltori provenienti dal Vicino Oriente.
La nuova energia garantita dalla moltiplicazione delle risorse alimentari, i nostri antenati realizzarono qualcosa di veramente straordinario: i primi grandi monumenti in pietra.
All’erezione di queste grandi opere megalitiche, i ricercatori associano lo sviluppo delle prime riflessioni sul rapporto tra materia e spirito e sul senso della vita e della morte.
La regione europea più ricca di strutture megalitiche è certamente il golfo di Morbihan, nel sud della Bretagna. Questo luogo offre delle testimonianze importantissime di quell’epoca: decine e decine di siti con migliaia di megaliti, alcuni dei quali addirittura decorati.
I megaliti erano diffusi in molte altre parti d’Europa, ma quello che colpisce è l’estensione dei siti. Si va dalla Svezia all’Irlanda, dal Portogallo all’Italia, dalla Gran Bretagna alla Francia, e anche al Nord Africa.
Alcuni ricercatori hanno suggerito che l’Europa venne unita per la prima volta dalla tradizione dei megaliti, e in effetti potrebbe essere considerata la prima grande religione diffusa su larga scala in tutto il continente.
Ancora oggi, sorprende la capacità dei nostri antenati primitivi di innalzare questi enormi complessi. Il più famoso è certamente il sito di Stonehenge, risultato di secoli di aggiunte e rimaneggiamenti. Molto diffusa è l’idea che questi complessi venissero utilizzati per la precisa osservazione delle stelle e del movimento del sole.


Molti hanno proposto teorie alternative sull’origine dei monumenti, invocando addirittura l’intervento degli extraterrestri. Gli scettici, tuttavia, fanno notare che proporre un’ipotesi del genere equivarrebbe a dire che questi uomini non fossero in grado di costruirli.
Eppure, si rimane sconcertati quando si pensa che delle società analfabete, che non conoscevano la ruota, né i metalli, furono capaci di innalzare capolavori che ancora oggi lasciano senza fiato. Quali tecniche siano state utilizzate per innalzare tali monumenti megalitici è ancora oggetto di speculazione.
 I Menhir
I menhir (dal bretone men e hir “lunga pietra”) sono dei megaliti monolitici eretti solitamente durante il Neolitico, che potevano raggiungere anche più di venti metri di altezza . Essi sono ampiamente distribuiti in Europa, Africa ed Asia, ma sono più numerosi nell’Europa Occidentale, in particolare in Bretagna e nelle isole britanniche.
Potevano essere eretti singolarmente o in gruppi, e con dimensioni che possono considerevolmente variare, anche se la loro forma è generalmente squadrata, alcune volte assottigliandosi verso la cima.
Nel famoso sito di Carnac, situato nel dipartimento del Morbihan nella regione della Bretagna , sono stati contati 3 mila Menhir. Eretti circa 6 mila anni fa, i Menhir di Carnac sembrano comporre un vero e proprio esercito in pietra, lungo oltre un chilometro e disposto su più file.
Il materiale roccioso da cui vennero tirati fuori i menhir di Carnac è granito chiaro, una pietra particolarmente dura da lavorare. Una volta scelto il megalito, bisognava trasportarlo fino al sito prescelto ed innalzato. Il problema è che molto spesso questo si trovava a molti chilometri di distanza. Come ci riuscivano, se i nostri antenati non conoscevano la ruota?
Alcuni hanno ipotizzato che i costruttori facessero scivolare le enormi rocce su rulli di legno, spalmando un lubrificante naturale come il grasso animale. Naturalmente, alla base di tutto c’era la forza umana: ci volevano davvero tante persone.
Secondo i ricercatori, queste tecniche sono bastate anche per erigere uno dei Menhir più colossali che si conoscano: il Grande Menhir spezzato di Locmariaquer (Morbihan) . Oggi è a terra, spezzato in quattro enormi blocchi, ma a quell’epoca era lungo 21 metri.
Interrato per 3 metri, il Menhir si ergeva per 18 metri di altezza, quanto un palazzo di sei piani, e pesava 280 tonnellate. E non era il solo: ce n’erano altri 18 posizionati in fila, allineati in modo decrescente. Il più grande rimase in piedi per secoli, per poi venire abbattuto dagli stessi uomini neolitici. Il motivo della distruzione è avvolto nel mistero.
Importanti siti con Menhir si trovano anche in Italia. In Sardegna, ad esempio, dove i menhir prendono il nome di “perdas fittas” o “pedras fittas” (pietre conficcate ), sono presenti a Laconi e a Villa Sant’Antonio, in provincia di Oristano, ma anche a Goni e Sant’Antioco, in provincia di Cagliari. Importanti siti si trovano anche in Puglia, Liguria, Piemonte e Lombardia.


Perché?

Perché mettere in atto un tale sforzo fisico e intellettuale? Qual era il significato di queste immense distese di massi? In realtà, non lo sappiamo. Alcuni ipotizzano che ognuno dei massi potrebbe rappresentare un antenato importante, un capo defunto, oppure un eroe del passato, l’equivalente delle statue degli imperatori e dei santi.
Se fosse vero, i siti megalitici del neolitico rappresenterebbero la storia dei nostri antenati, con tanto di dinastie, eroi e figure leggendarie. Ma, purtroppo, di loro non sappiamo nulla. 
A quell’epoca, infatti, la scrittura non era stata ancora inventata e quindi non esistono documenti scritti e steli incise che raccontano cronache e eventi: si tratta di capitoli di storia perduti nell’oblio.
Queste popolazioni megalitiche innalzarono megaliti per venti secoli di fila. Poi, cominciarono ad abbandonarli e a non erigerne più. I motivi non sono chiari. Qualunque sia il motivo, intorno a 5 mila anni fa, la tradizione dei megaliti si spense in tutta Europa: l’era dei giganti di pietra era finita per sempre.


Anche i cacciatori in difesa dell’orso marsicano, accordo col ministero dell’Ambiente.


Il ministero dell’Ambiente, l’Ispra, la Federazioni italiana della Caccia, l’Associazione Nazionale Libera Caccia, l’Enalcaccia, l’Anuu Migratoristi e l’Arci Caccia hanno firmato un protocollo d’intesa per la tutela dell’Orso bruno marsicano attraverso un programma condiviso di implementazione di buone pratiche di gestione venatoria.





Secondo il ministero dell’Ambiente «l’accordo trova piena sintonia con quanto disposto dal Piano d’azione Patom (Piano d’Azione per la tutela dell’orso bruno Marsicano, ndr) e dal Protocollo d’intesa firmato il 27 marzo scorso da Ministero, Regioni Abruzzo, Lazio, Molise e Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise».
L’accordo tra ministero, Ispra e cacciatori prevede impegni unilaterali da parte delle associazioni «Per ridurre l’impatto della pratica venatoria e delle attività connesse, promuovendo l’informazione e la formazione dei cacciatori sulle corrette modalità di gestione delle specie di interesse venatorio e le criticità di conservazione dell’Orso bruno marsicano».
Nel protocollo si legge che «Le associazioni condividono la necessità di procedere, ai fini della tutela dell’Orso bruno marsicano e sulla base di apposita cartografia di presenza della specie aggiornata, alla rapida sostituzione della “braccata”, caratterizzata da un elevato disturbo e rischio di impatto su specie “non target”, con forme a minor impatto come la “girata” e la “caccia di selezione”, attraverso la formazione e l’aggiornamento dei cacciatori». Viene anche prevista «La promozione di una più corretta organizzazione della gestione venatoria, a partire dalla stesura dei Piani Faunistici Venatori e dei Regolamenti specifici di gestione delle diverse specie, appoggiando le amministrazioni competenti nella definizione delle prescrizioni, il coinvolgimento degli “ambiti territoriali di caccia” (ATC) a supporto delle amministrazioni per la revisione della programmazione venatoria, la formazione-aggiornamento per una ‘corretta cultura della gestione delle specie di interesse, secondo i criteri scientifici definiti dai documenti tecnici dell’Ispra».
Il ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti ha detto che «con questo protocollo facciamo tutti un altro passo in avanti nel percorso avviato per la tutela dell’Orso marsicano. Ogni istituzione e ogni gruppo d’interesse ha il dovere di concorrere alla difesa di questo straordinario simbolo della biodiversità italiana. Oggi mi sembra si sia dato un segnale significativo in questo senso».


sabato 31 maggio 2014

Sahara: TAssili N'Ajjer; 15 mila opere d'arte rupestre raccontano di un paleocontatto nel passato remoto del Sahara?


A sudest dell'Algeria, su un altopiano nel deserto del Sahara, si trovano un gran numero di incisioni e pitture rupestri: le più antiche risalgono a ben 12 mila anni fa. Realizzate dai nostri antenati raccoglitori-cacciatori, queste figure raccontano di un passato sconosciuto a noi moderni. Secondo la teoria del paleocontatto, gli antichi artisti hanno cercato di rappresentare antichi astronauti entrati in diretto contatto con loro.




Tassili n’Ajjer è un vasto altopiano situato nel deserto del Sahara, a sudest dell’Algeria, che copre una superficie di 72 mila km².
Situato in uno strano paesaggio lunare di grande interesse geologico, questo sito contiene la più grande e importante collezione di arte rupestre preistorica del mondo.
Fino ad oggi, sono state identifica 15 mila incisioni e disegni, nei quali sono registrati cambiamenti climatici, migrazioni animali e l’evoluzione della vita umana in un arco di tempo compreso tra i 12 mila e i 6 mila anni fa.
La densità eccezionale di dipinti e incisioni, e la presenza di numerose vestigia preistoriche, hanno guadagnato al sito di Tassili n’Ajjer la fama di “miglior museo a cielo aperto della preistoria del mondo”, tanto da essere stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO.
Scoperta nel 1933, la collezione artistica riguarda una serie di opere rupestre realizzate su pareti rocciose a vista e comprende immagini di animali selvaggi e domestici, esseri umani e disegni geometrici.
A fare scalpore è stata anche l’individuazione di misteriosi esseri mitici, come uomini con teste di animali, divinità o esseri spirituali. All’occhio dei visitatori moderni, molte figure sembrano avere una verta somiglianza con dispositivi quali caschi, antenne o armi tecnologiche, tanto che i sostenitori della Teoria degli Antichi Astronauti ritiene quello di Tassili n’Ajjer uno dei siti più importanti dove trovare tracce sicure del paleocontatto extraterrestre.
Chiaramente, ogni teoria in proposito entra nell’alveo delle speculazioni, dato che non esistono documenti scritti che possano chiarire la natura, l’identità e il significato degli esseri raffigurati nella roccia. Si tratta di informazioni perdute per sempre.
Quello che è certo è che l’arte di Tassili n’Ajjer copre cinque periodi distinti, ciascuno dei quali corrisponde ad una particolare fauna e può essere individuato grazie alle differenze stilistiche. Tuttavia, anche la precisa datazione sui vari periodi è argomento di dibattito tra gli studiosi, dato che a volte gli stili sembrano sovrapporsi. La cronologia proposta da Ancient Origins, come ammesso dai curatori del sito, non è detto che possa cambiare negli anni a venire.
Primo periodo: l’arte più antica appartiene a quello che è stato definito “periodo naturalista”, e si stima sia stata realizzata tra il 12000 e il 6000 a.C. Si caratterizza per la raffigurazione della fauna della savana, caratterizzata da una condizione ambientale più umida rispetto ad oggi. Si riconoscono elefanti, giraffe, ippopotami, rinoceronti e altri animali.
Secondo periodo: detto della “testa tonda” o “periodo arcaico”, compreso tra il 9500 e il 6000 a.C. Tale periodo è associato alla raffigurazione di enigmatiche figure, i Testa Tonda, che evocano probabili pratiche magico-religiose. In generale, i Testa Tonda sono raffigurati di profili e apparentemente fluttuanti nell’aria.
In una scena, le donne sono raffigurate con le mani alzate, come se cercassero la benedizione da una struttura enorme che torreggia sopra di loro. Fabrizio Mori, paleontolgo italiano, descriveva così la scena: “Si avverte in essi un senso di affettuosa sudditanza, senza paura del divino, di pura adorazione”. A questo periodo, i teorici degli Antichi Astronauti fanno coincidere l’ipotesi del paleocontatto.




Terzo periodo: classificato come “periodo pastorale” o “Bovidiano”, compreso tra il 7200 e il 3000 a.C. Si tratta del periodo più prolifico in termini di numero di dipinti, nei quali sono raffigurate scene di allevamenti bovini e di vita quotidiana. Il realismo estetico ne fanno tra gli esempi più noti di arte preistorica.
Quarto periodo: detto “del cavallo”; si fa risalire ad un’epoca compresa tra il 3200 e il 1000 a.C., comprendo la fine del Neolitico e corrispondente alla scomparsa di numerose specie animali, a seguito del progressivo inaridimento del clima al mutamento del cavallo.
In alcune scene sono rappresentanti cavalli che traiano carri guidati da aurighi disarmati, il che suggerisce che i carri non venissero utilizzati per combattere, ma forse per la caccia. Tuttavia, carri con ruote di legno non avrebbero potuto essere condotti agevolmente attraverso il territorio roccioso del Sahara. Anche in questo caso, ci troviamo davanti ad un enigma.
Quinto periodo: l’ultima parte dei dipinti corrisponde al “Periodo del Cammello”, collocato tra il 2000 e il 1000 a.C. Questo periodo coincide con la comparsa del deserto iper-arido e con la comparsa del dromedario.
Nonostante il grande numero di opere trovate dai ricercatori, sebbene rappresentino uno squarcio sulla vita degli antichi popoli del Sahara, molte domande rimangono ancora aperte su chi abbia realizzato le incisioni e i dipinti di Tassili n’Ajjer e cosa rappresentino.


“Dama di Elchè", oppure Dama di Atlantide?


Esiste un controverso artefatto le cui origini restano oscure. È quella che viene definita la “Dama di Elche”, dal nome del paese spagnolo dove è stata ritrovata. Nonostante il dibattito tra gli studiosi, forse la statua rimarrà per sempre un pezzo di arte antica dalle origini e datazione sconosciute.




Il 4 agosto del 1897, durante alcuni lavori in una azienda agricola di L’Alcúdia, a circa due chilometri a sud di Elche, Valencia, Spagna, un giovane operaio di 14 anni, Manuel Campello Esclapez, con la sua vanga urtò qualcosa di duro nel terreno.
Il giovane chiamò altri operai e cominciarono a scavare freneticamente, fino a quando non portarono alla luce un meraviglioso busto raffigurante una dama dell’antichità.
Questa versione “popolare” della storia differisce dal rapporto ufficiale redatto da Pedro Ibarra Ruiz, un funzionario locale, secondo il quale lo scopritore è stato un certo Antonio Maciá.
Il busto, ribattezzato come “La Dama di Elche”, misura 56 cm di altezza e sul dorso presenta una cavità sferica di circa 18 cm di diametro e profonda 16 cm, probabilmente utilizzata per conservarvi reliquie, oggetti sacri o le ceneri di un defunto.
Originariamente, il busto era completamente colorato, con vernici policrome. La donna raffigurata indossa una tunica di colore rosso, sulla quale poggia un ampio mantello marrone con rifiniture in rosso. Le labbra della donna conservano ancora pochi pigmenti rossi.
La Signora di Elche è generalmente creduta essere un pezzo di scultura iberica del 4° secolo a.C., anche se l’artigianalità suggerisce forti influenze ellenistiche. Le caratteristiche del viso, infatti, rivelano una forte influenza greca, in contrasto con l’abbigliamento completamente nativo.
Secondo l’Enciclopedia delle Religioni, la Signora di Elche avrebbe una connessione diretta con Tanit, una dea di Cartagine adorata dai punici-iberici. Tanit era una delle consorti di Baal, quello che secondo i testi di Ras Shamra era padre degli anni e dell’uomo, ed era considerato il progenitore degli Dei.
Il simbolo di Tanit era la piramide tronca portante una barra rettangolare sulla sommità. Su questa barra appaiono il sole e la luna crescente.
Tanit era la dea che deteneva il posto più importante a Cartagine e significativamente, per una città prettamente commerciale, la sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della città punica.
Lo stesso fenomeno è accaduto con la scoperta della Signora di Elche, avviando un interesse popolare per la cultura iberica pre-romana, tanto da apparire nel 1948 sulla banconota spagnola da un peseta. Secondo alcuni, la tradizione continuerebbe con la banconota americana da un dollaro, dato che il simbolo della “piramide con l’occhio che tutto vede” avrebbe una matrice comune con il simbolo di Tanit.
Sebbene il manufatto sia datato al 4° secolo a.C., alcuni ricercatori hanno ammesso che la statua potrebbe raffigurare una sacerdotessa, una nobildonna o forse una regina sconosciuta, comunque una creazione artistica della quale non si conoscono le origini. Anche la datazione è oggetto di speculazione: nessuno sa per certo quanto sia antica.
Alcuni, spingendosi oltre le possibili verifiche storiche e archeologiche, hanno ipotizzato che le origini del busto possano avere connessioni con tradizioni artistiche riconducibile al continente perduto di Atlantide.
La dama è stata trovata vicino Elche, in un tumulo che gli arabi chiamavano Alcudia (collina) e che in tempi antichi era circondata da un fiume. Sappiamo, inoltre, che l’insediamento in epoca ellenica era chiamato Helike (poi Illici dai romani), diventando “Elche” per gli arabi.
È possibile che il tumulo di Elche un tempo fosse una città appartenente ad un colonia atlantidea? Il simbolo solare associato alla dea Tanit ci ricorda che il culto del Sole era la religione dominante di Atlantide, e più tardi ereditato da tutte le culture antiche del mondo, dagli Egizi agli Inca.
Inoltre, il sereno volto quasi divino di questa dama di pietra è avvolto in un ornamento insolito, con due rotoli ai lati del viso stranamente molto simili alle antiche decorazioni utilizzate dalle giovani donne Hopi non sposate.
Si tratta solo di suggestioni, ma quello che è certo è che l’enigmatico volto della Dama di Elche è l’icona del mistero che la circonda. Molto probabilmente, rimarrà per sempre un reperto controverso dell’arte antica dalle origini e datazione oscure.



giovedì 22 maggio 2014

Antichi manufatti cinesi rivelano un composto estremamente raro di ossido di ferro.


Uno studio pubblicato sulla rivista Nature rende noti i risultati delle analisi eseguite sul rivestimento insolito di alcune antiche tazze cinesi da tè, note come Ciotole Jian, rivelando che si tratta di una forma estremamente rara di ossido di ferro, molto difficile da ottenere, anche con le tecniche moderne.




Le Ciotole Jian sono tazze da tè cinesi prodotte sotto la dinastia Song (960-1279), fino all’inizio del 14° secolo, principalmente per uso domestico.
Le ciotole sono in ceramica, abbastanza uniformi nella modellatura, generalmente smaltate con smalto bluastro, nero o marrone.
Di tanto in tanto, capita di osservare alcune ciotole con una superficie iridescente, la quale produce giochi di luce multicolore.
Come riporta un articolo comparso su livescience.com, un nuovo studio si è occupato di analizzare l’insolito rivestimento delle antiche tazze cinesi, scoprendo che si tratta di manufatti molto più sofisticati di quanto si fosse inizialmente creduto.
Un team di ricercatori guidato da Catherine Dejoie del Lawrence Berkeley National Lab, California, ha preso in esame la microstruttura atomica e la composizione chimica del rivestimento esterno della ceramica, scoprendo che si tratta di un tipo di ossido di ferro estremamente raro e difficile da ottenere anche con le attrezzature tecnologiche oggi a disposizione.
Il segreto è nella stupefacente tecnica di lavorazione. Le ciotole venivano realizzate con un’argilla ricca di ferro e rivestite con una miscela di argilla, calcare e cenere di legno. Poi erano cotte a temperature estremamente elevate, causando l’indurimento dell’argilla e lo scioglimento del ferro all’interno.
La dilatazione dell’ossigeno all’interno dell’argilla, provocato dall’intenso calore, provocava la fuoriuscita degli ioni di ferro fuso, ricoprendo così l’intera superficie della ciotola. Una volta raffreddata, la glassa attorno alla ciotola si cristallizzava nel caratteristico ossido di ferro, denominato “epsilon”.
Questo tipo di ossido di ferro è molto apprezzato per la sua magnetizzazione persistente, elevata resistenza alla corrosione ed è completamente atossico. Tuttavia, è difficile da ottenere con le attrezzature moderne. “Il prossimo passo sarà capire come sia possibile riprodurre la qualità dell’ossido di ferro delle ciotole Jian con le tecniche moderne”, annuncia la Dejoie, il cui studio è stato pubblicato sulla rivista Nature.
“Quello che è sorprendente è che si sono riscontrate condizioni di sintesi perfette per l’ossido di ferro epsilon in manufatti prodotti 1000 anni fa”, continua la Dejoie. Questo tipo di ossido, infatti, è stato pienamente concepito solo negli ultimi dieci anni. Gli scienziati non sono mai stati in grado di produrlo in laboratorio nella sua forma più pura. Con le moderne tecniche si è riusciti solo a creare piccoli cristalli contaminati con ematite.
La magnetizzazione persistente di questo ossido di ferro, la sua persistenza e atossicità, lo rendono un materiale economico e sicuro per una migliore archiviazione permanenti di dati nei dispositivi elettronici. Bisogna solo riuscire a riprodurre una tecnica utilizzata dai nostri antenati orientali circa un millennio fa.
Attualmente, le collezioni Jian possono essere osservate in musei come le gallerie Smithsonian Freer e Sackler, Washington, e anche al Metropolitan Museum of Art di New York. In passato, le ciotole furono molto apprezzate anche in Giappone, dove venivano utilizzate nelle cerimonie del tè e conosciute con il nome Yohen Tenmoku.