sabato 3 novembre 2012

Racconti di viaggio: Sri Lanka, la lacrima dell'India.

Pur essendo un'isola così piccola si è guadagnata tanti nomi: Serebid, Ceylon, Lacrima dell'India, Isola Risplendente, Isola di Dharma, perla d'Oriente...
Tanto assortimento è un segno della sua ricchezza, bellezza e dell'intensità del richiamo che ha suscitato in quanti l'hanno visitata.
Da secoli lo Sri Lanka seduce i viaggiatori, che tornano a casa portando con sé incantevoli immagini di una languida isola tropicale.





Chiamatela come volete, ma quest' isola che sorge a fianco del gigante indiano è un vero e proprio Eden, anche se purtroppo il Nord del Paese rimane ancora off limits per la lunga guerra di logoramento con la minoranza Tamil.
Qui si incontrano storia e leggende, da qui parte il buddismo classico che ha mantenuto la sua caratteristica dal III secolo a.C. sino ad oggi, e l'induismo, altra grande dottrina religiosa dell'isola, si esprime attraverso i colori delle statue e delle immagini.
Secondo la leggenda, è in questa terra che si rifugiarono Adamo ed Eva dopo essere stati cacciati dal paradiso, tanto che al picco di Adamo solerti guide vi mostreranno, come hanno fatto a me, l'impronta lasciata dal piede del nostro grande antenato.
Il fascino dell'isola è stato testimoniato nel corso dei secoli da grandi viaggiatori come Marco Polo, o dai commercianti portoghesi e olandesi interessati alle preziose spezie.
Poeti e scrittori si sono ispirati alle suggestioni di questa terra e hanno coniato numerosi appellativi per definirla: paese dei rubini, delle spezie, del tè e della gioia di vivere.









Tra il V e il VI secolo a.C. si stabiliscono sull'isola i primi cingalesi, probabilmente originari dell'India del nord, che entrano in conflitto con gli indigeni di razza Veda, aventi le stesse caratteristiche somatiche degli aborigeni australiani, e li eliminano progressivamente.
Ad oggi ne esiste solo un piccolo gruppo.
Un ruolo chiave nella storia del paese lo svolge il IV secolo a.C., Mahinda, figlia dell'imperatore Ashoka, che propaga nell'intera isola la dottrina e gli insediamenti di Buddha.
L'antica capitale di Anuradhaupura viene abbandonata intorno al 1000 e il centro nodale della nazione viene trasferito a Polonnaruwa.
I portoghesi capitanati da Lorenzo de Almeida sbarcano nel 1505 e acquisiscono il monopolio delle spezie e della cannella, esercitando il pieno controllo dell'isola eccettuate le zone montagnose dell'ultima capitale antica, Kandy.
Nel 1658, su sollecitazione dei regnanti di Kandy, gli olandesi con un colpo di mano cacciano da Ceylon i portoghesi e s'installarono sull'isola, ma l'andirivieni di popoli stranieri finisce qui: infatti nel 1796 comincia la conquista dell'isola da parte inglese e con l'annessione di Kandy nel 1815, l'isola diventa una colonia britannica.









Subito dopo la seconda guerra mondiale Ceylon acquisisce lo statuto di colonia indipendente ( 1948 ) in seno al Commowealth: viene eletto primo ministro Senanayake, capo del partito di unità nazionale.
Nel 1971, nei territori del nord dove vive la minoranza Tamil che rivendica una posizione egualitaria nei confronti dei cingalesi, viene dichiarato lo stato di emergenza.
Le formazioni guerrigliere Tamil si riconoscono nelle Tigri, responsabili di numerosi attentati ai quali l'esercito regolare ha spesso risposto pesantemente.
La spendida Ceylon viene denominata lacrima dell'India, per via della sua conformazione fisica, che sembra aver l'aperto di un smeraldo a goccia.
In effetti è una pietra preziosa, custode di una cultura religiosa, filosofica ma anche enogastronomica antica e raffinata.
Tra le spiagge e la natura incontaminata, i profumi di un mondo colorato e fantasioso, domina il curry, il re della cucina singalese, una miscela di spezie dai mille colori e sapori.
Colombo, la capitale, mi si presenta come un autentico miscuglio di case e palazzi dai diversi stili, tempi buddisti e indù, moschee e chiese cattoliche e ogni popolo conquistatore: arabi, olandesi, inglesi che contribuirono all'immagine della città.









La mia voglia di curiosità culinaria mi spinge al mercato vicino al porto, nel quartiere di Pettah, ricco di bancarelle che offrono frutta, verdure, spezie, banane rosse e gialle, ananas, mango, papaie e mangosta, rambutan e ancora peperoncini freschi, patate dolci, frutti dell'albero del pane.
Intorno piccoli ristoranti dove si prepara un piatto unico tipico, il butani: composto di riso con anacardi, uva sultanina, coccuma e pezzi di pollo.
La cucina di Ceylon è caratterizzata dal curry e dal riso: kiri bath, riso bollito con latte di 
cocco, il riso al curry, rosso se nella miscela prevale il peperoncino, nero se prevalgono le spezie tostate, bianco se la sua base è il latte di cocco.
Altri piatti ci stupiscono per originalità degli ingredienti e dei sapori come il Paripoo, zuppa di lenticchie al peperoncino rosso, il Vambotu curry, melanzane soffritte con zenzero e curcuma, peperoncino e cannella, l'Ambul trial con tonno, latte di cocco e tamarindo, il Watalappan, budino di cocco speziato di anacardi e cannella, il Kiri hodi con latte di cocco zafferano cipolla e pomodori, lo Stringh hoppers, nidi di farina di riso.







Attraverso l'isola da nord a sud, verso l'interno verde e affascinante e mi dirigo verso Warapola per gustare un delizioso stuzzichino misto dolce e salato, lo Wadde.
Sono nel distretto di Kurunegala, una delle zone più ricche di piantagioni di cocco.
Consiglio ai lettori di Scientia Antiquitatis: se durante il viaggio sarete colti dal fuoco del curry, probabilità non rara, fatevi grattuggiare della polpa di cocco, è un rimedio infallibile.
All'interno della foresta tropicale, scopro resti del passato come il palazzo imperiale della mitica città di Sigiya, il Buddha di Aukana, e l'area archeologica Polonnaruwa.
Lungo la strada che mi conduce a Kandy, l'antica capitale, il profumo delle spezie mi inebria col susseguirsi delle piantagioni di cannella, di cacao, di alberi del pane e di canna da zucchero.
Kandy è circondata da colline di colore verde smeraldo, città nota per custodire una reliquia di Buddha, con sette buddiste e centri d'insegnamento, rappresentando così il simbolo della sovranità.
Faccio una veloce visita al giardino botanico di Kandy, per vedere specie introvabili altrove: orchidee dai mille colori, giacinti d'acqua, bouganville, gelsomini e diverse qualità di alberi da frutta come mango, mongoustina e rambutan.






Vedo le donne cingalesi con i loro vestiti colorati e le gerle, intente nel rito di raccolta ogni 10-15 giorni, delle ultime tre foglie, quelle più tenere dal colore verde chiaro che vengono fatte essiccare, macinate e quindi fatte fermentare tostate e pulite.
Da Kandy mi dirigo verso la costa sud, quella più secca, inebrianti di colori e dia profumi dei melograno, aranci, limoni, manghi, angurie, jak e sapodilla.
Ad un tratto l'orizzonte si apre su spiagge di sabbia bianca toccate qua e là da palme.
Quale miglior modo per concludere il mio viaggio che restare disteso sulla spiaggia e farmi cullare dalle onde verdi e lunghe dell'Oceano sotto un cielo azzurro?






La crepa nei ghiacci del polo sud si sta espandendo





La grande crepa scoperta dalla NASA nei primi mesi del 2012 nel ghiacciaio di Pine Island, il più grande dell'Antartide, cresce sia in lunghezza che larghezza. 
E' evidente nelle ultime immagini satellitari. 
Un blocco di ghiaccio lungo 29 chilometri potrebbe diventare un gigantesco iceberg se si separerà dal ghiaccio del continente.
I ricercatori monitorano costantemente la crepa dal 2011. 
Ad un certo punto la sua crescita ha subito un rallentamento e le sue dimensioni sono rimaste stabili per diversi mesi, ma lo scorso maggio si è aperta una nuova crepa. 
Se la crescita non si fermerà, può staccarsi dal ghiacciaio un iceberg di circa 900 km2.
L’Antartico è in piena forma.
Nonostante la brusca frenata avvenuta nel corso di ottobre, l’estensione della banchisa antartica può ancora vantare oltre 450 mila chilometri quadrati di margine dalla media degli ultimi 30 anni.
Ma allora cosa ci sarà di tanto importante per gli scienziati della NASA che da un anno hanno puntato i riflettori proprio sui grandi crepacci che solcano il Continente di Ghiaccio?
E’ un vero e proprio canyon di ghiaccio che a cadenze più o meno regolari (ultimamente circa 6-8 anni) spalanca le fauci in un punto ben preciso, ovvero nel bel mezzo del Pine Island Glacier, Antartide occidentale.
In questo caso i sensori Modis montati sui satelliti della NASA Acqua e Terra, hanno scansionato la frattura che è poi stata post-elaborata e quindi ricostruita su un piano tridimensionale. 

Quanto appare è allora davvero impressionante: una fenditura lunga oltre 30 chilometri con una larghezza massima di 200 metri e una profondità media intorno ai 60. Insomma un vero e proprio canyon.
Le immagini satellitari mostrano che è ormai imminente la nascita di un enorme grande iceberg che finirà alla deriva nel Mare di Amundsen, bacino posto sul settori occidentale del Continente.
Un distacco che verrà agevolato dal progredire dell’estate australe ma che non è provocato dal clima. Le temperature sull’emisfero australe sono infatti lievemente inferiori alla media degli ultimi 30 anni, contrariamente a quando avviene dalle nostre parti. 

La causa del distacco dunque è da ricercarsi nello scorrimento plastico del ghiaccio per la forza di gravità, anche a seguito del peso accresciuto per via degli accumuli nevosi particolarmente importanti fatti registrare soprattutto nell’ultimo anno solare.






Chile: Moai dell'Isola di Pasqua "camminavano" fino al mare.





La comprensione di come le antiche civiltà siano riuscite ad erigere strutture monumentali, come piramidi, templi e complessi rituali, non rientra in quella che potrebbe essere definita "scienza esatta". 
Possiamo avanzare ipotesi, formulare teorie più o meno credibili, ma in assenza di un'abbondanza tracce storiche del processo di costruzione non possiamo far altro che armarci di immaginazione e sfruttare le risorse a disposizione dei nostri antenati per tentare di imitarli.
E' il caso dei moai dell'Isola di Pasqua, sui quali molto si è fantasticato, ma molto si è anche sperimentato. 








Tralasciando i vari metodi di distacco del tufo roccia vulcanica (già ampiamente indagati dall'archeologia), il mistero sulla loro costruzione è principalmente questo: come fecero gli antichi abitanti dell'isola (di origine polinesiana) a trasportare queste statue gigantesche dalla montagna al mare?
Per chi non conoscesse i moai dell' Isola di Pasqua, stiamo parlando di circa un migliaio di statue di tufo vulcanico che costellano i 163 km quadrati dell'isola, blocchi di pietra che possono arrivare a pesare 74 tonnellate e raggiungere un'altezza di 10 metri.
I primi esploratori si chiesero come i locali avessero trasportato queste statue dalla cava di pietra al mare, dato che l'isola era del tutto priva di alberi. Ma le più recenti analisi dei pollini prelevati da alcuni reperti ha dimostrato che l'isola, nel periodo precedente alla prima metà del 1600, aveva ospitato alberi in abbondanza.





Gli alberi sono un punto fondamentale per il trasporto delle statue: i loro tronchi possono essere utilizzati per creare slitte e rulli, lubrificanti, cordame, e tutto il necessario per lo spostamento "a braccia" di un blocco di pietra enorme. 
Dopo il 1600, le palme sembrano sparire completamente dall'Isola di Pasqua: furono gli stessi abitanti a decimarli per costruire moai? E' possibile, anche se potrebbe esserci lo zampino di un animale non autoctono (il ratto polinesiano, Rattus exulans, che si ciba di semi di palma), ma il vero punto intrigante della storia dell'Isola di Pasqua è il metodo di trasporto delle statue di pietra giganti.




Una delle teorie più discusse è che gli antichi abitanti dell'isola facessero "camminare" le statue: tramite movimenti ondulatori, la base della statua, posta in verticale, avanzava centimetro per centimetro grazie alla trazione di corde e braccia umane.
Perché escludere che il popolo di Rapa Nui non abbia mai utilizzato rulli e slitte? "E' una bella storia, ma non è supportata da prove archeologiche" spiega Carl Lipo, uno dei primi a proporre l'ipotesi delle "statue danzanti".
Secondo Lipo, la posizione di molti moai rimasti incompleti e abbandonati dimostrerebbe che gli abitanti dell'isola li trasportavano verticalmente, senza adagiarli in posizione orizzontale su supporti di legno.
Ma la teoria e la pratica spesso differiscono: i ricercatori hanno quindi creato un moai moderno del peso di 4,4 tonnellate e alto 3 metri, e lo hanno spostato tramite l'ausilio di tre funi e qualche decina di persone.





Trovare la tecnica adatta è stato un risultato ottenuto dopo alcuni giorni di tentativi. "Un ingegnere aeronautico può spiegare perché un aereo vola, ma nessuno lo vorrebbe alla guida di un aereo. Abbiamo qui questo affare gigante di cinque tonnellate, ora cerchiamo di capire come muoverlo. E' stato frustrante".
Dopo diversi tentativi, il team è riuscito a spostare la statua tramite tre funi di canapa che impedivano al blocco di roccia di cadere in avanti, e 18 persone che fornivano la forza muscolare necessaria a far avanzare il moai.
La statua si è spostata di 100 metri all'ora con l'aiuto di sole 18 persone, dimostrando che la camminata è un metodo di trasporto relativamente efficiente. Di parere opposto è Jo Anne Van Tilburg, direttrice della Easter Island Statue Project. "Quello che hanno fatto è stato uno stunt, non un esperimento. 
Hanno distaccato la statua dal suo contesto archeologico, e credo che ogni volta che si procede in questo modo, anche in buona fede, si entra nella fantasia e nella speculazione a livelli non scientifici".
E se la realtà stesse a metà tra le due tecniche di trasporto? Statue più piccole potevano essere trasportate a forza di braccia e con un gruppo di operai relativamente ristretto, mentre i moai più grandi richiedevano un tipo di trasporto orizzontale basato da rulli e slitte.
Il dibattito probabilmente non terminerà molto presto. 
E il mistero sul vero metodo di trasporto dei moai dell'Isola di Pasqua rimane ancora irrisolto.





venerdì 2 novembre 2012

Giappone: Allarme di uno scienziato: il vulcano Fuji potrebbe esplodere.





Il monte Fuji potrebbe a breve esplodere. 
A lanciare l’allarme è uno scienziato giapponese, il professor Toshitsugu Fujii che è a capo del dipartimento giapponese di vulcanologia. 
Tutta colpa del terremoto che nel marzo 2011 generò lo tsunami che ha messo in ginocchio il paese del sol levante.
”Il monte Fuji è tranquillo da quasi 300 anni e tutto ciò è anomalo,  ha spiegato in un’ intervista il professor Toshitsugu Fujii. 
Precedentemente, infatti, aveva emesso lava e lapilli a un intervallo di circa 30 anni. 
Per questo il timore che la prossima eruzione possa essere su vasta scala è piuttosto fondato”.
Il sisma di magnitudo 9.0 della scala Richter dell’anno scorso aveva aumentato i controlli sul vulcano giapponese. 

A pochi giorni dal primo terremoto ne era, infatti, seguito un altro, di magnitudo 6.2, con epicentro proprio alle pendici del gigante dormiente.
L’allarme del professore è già stato preso in considerazione dalle autorità e sono stati elaborati  bilanci preventivi di quello che un simile evento potrebbe significare. 
In termini umani: un’esplosione del Fuji si tradurrebbe in una vera e propria carneficina che coinvolgerebbe milioni di persone. 
Altrettanto drammatici sarebbero i danni alle strutture. 
Solo per il comparto agricolo la stima dei danni sarebbe di 30 miliardi di dollari. E conseguenze ci potrebbero essere anche sulla circolazione ferroviaria e sul traffico aereo: i trasporti rimarrebbbero paralizzati a causa della cenere che “pioverebbe” anche su Tokyo, a oltre 100 chilometri dal Monte Fuji.





Guatemala: scoperta una delle più antiche tombe Maya nel sito archeologico di Tak' alik Ab'aj.





Nel sito archeologico di Tak’alik Ab’aj, dopo 10 anni di continue ricerche, è stata ritrovata una delle più antiche tombe maya conosciute. 
Tra i sorprendenti risultati centinaia di perle di Giada, cucite su stoffa o pelle, ricamate su braccialetti e cavigliere. 
Il sito del ritrovamento si trova nel sud-ovest del Guatemala, a circa 45 km dal confine con lo stato messicano del Chiapas e 40 km dall’Oceano Pacifico. 
Tak ‘Alik Ab’aj, rappresentativa della prima fioritura della cultura Maya, significa nella lingua locale, “la pietra in piedi“. 
La datazione al radiocarbonio,  secondo le prime analisi, confermerebbe la data del 700-400 a.C., e per questa ragione considerata la più antica sepoltura reale Maya con un tale abbigliamento sofisticato trovato in Mesoamerica.




L’abbigliamento di questa seconda sepoltura, che, come la prima, non presenta ossa conservate a causa del tempo trascorso, contiene pochi vasi, ma meravigliose statuette femminili. 
La collana, con forme particolari di perle simili a quelle che si trovano nella zona Olmechi, è un pezzo unico centrale: una cosiddetta “figura alata in piedi” o “figura umana con testa di uccello”, in analogia con i vari pezzi della collezione del Museo del Costa Rica. 
Questi ritratti di figura umana con testa di uccello, molto probabilmente un avvoltoio, potrebbero rappresentare una prima indicazione che il possessore sarebbe stato un uomo di alto rango. 
Questa sepoltura è di grande importanza per considerare la connessione tra la via commerciale lungo la costa del Pacifico e l’apparente sviluppo socio-culturale in questa regione geografica, e fornisce inoltre l’opportunità di stabilire gradi di similitudine e differenze tra caratteristiche culturali e le relative diffusioni. 
Presso il sito archeologico è in corso di costruzione un museo.




Lucy non era solo una "camminatrice", ma anche una "scalatrice".




Un po’ camminatori, un po’ scalatori. Gli Australopithecus afarensis, ominidi vissuti oltre tre milioni di anni fa diventati famosi grazie a Lucy, avevano abitudini locomotorie a metà tra quelle degli uomini moderni e delle scimmie antropomorfe
Nonostante fossero bipedi, infatti, questi ominidi continuavano a salire sugli alberi, e molto probabilmente erano ottimi arrampicatori
A sostenerlo in uno studio pubblicato su Scienze sono David Green della Midwestern Univesity e Zeresenay Alemseged della California Academy of Sciences, entrambe negli Stati Uniti. 
A supporto della loro ipotesi ci sono prove concrete: due scapolecomplete appartenenti allo scheletro di Selam, il fossile di una bambina afarensisrinvenuto nel 2000 a Dikika, in Etiopia. 





“Sono trent’anni che la comunità scientifica cerca di capire se gli Australopithecus afarensis fossero esclusivamente bipedi o se si arrampicassero anche sugli alberi”, ha spiegato David Green:  “I nostri straordinari ritrovamenti fossili dimostrano che in questo stadio dell’evoluzione umana gli individui erano ancora in parte degli scalatori”. 

I ricercatori hanno speso 11 anni per separare le scapole di Selam dal resto dello scheletro incastonato dentro a un blocco di arenaria. 
Un’operazione delicata ed eccezionale, dal momento che si tratta delle prime scapole di A. afarensis a esser ritrovate integre. 
Queste ossa, in effetti, sono molto sottili e raramente fossilizzano se non in modo molto frammentario. 





Dopo averle isolate, i ricercatori le hanno digitalizzate e accuratamente misurate per cercare di ricostruirne i movimenti. Le hanno inoltre comparate con quelle appartenenti a parenti più o meno lontani: scimpanzè, gorilla, oranghi, esemplari diHomo ergaster, Homo floresiensis, Australopithecus africanus, Australopithecus afarensis adulti e uomini moderni. 
Dall’analisi è emerso che le scapole di Selam sono molto simili a quelle delle scimmie antropomorfe
In particolare, la cavità articolare scapola-spalla è rivolta verso l’alto come nelle antropomorfe, chiaro segno di abitudini arboricole. 
Negli uomini, invece, l’articolazione guarda inizialmente verso il basso per poi rivolgersi all’esterno man mano che l’individuo matura. 
D’altra parte, il bacino, gli arti inferiori e il piede di Lucy avevano già dimostrato che gli A. afarensis erano bipedi. 





Questi ominidi sarebbero dunque un mix di vecchie e nuove abitudini, ancora non perfettamente umani ma sulla buona strada per diventarlo, almeno per ciò che riguarda la locomozione. 

Una cosa è certa, gli antenati degli uomini moderni hanno abbandonato gli alberi più tardi di quanto si pensava, probabilmente perché erano ancora un ottimo posto dove cercare cibo e protezione in un ambiente ostile.