giovedì 5 marzo 2015

Egitto: Gli enigmi della Terza Piramide di Giza, nota come Micerino.


È decisamente più piccola delle altre due piramidi sorelle della Piana di Giza, fino a un decimo delle dimensioni della Piramide di Cheope. Eppure, la piramide nana fa sorgere questioni pari a quelle delle altre due piramidi.






Nei documentari e nei reportage è spesso trascurata, forse a causa delle sue dimensioni minori.
Il suo nome ufficiale è “Piramide di Menkaure”, più nota in Italia col nome di Micerino (forma italianizzata del greco Mykerinos, forma in cui il nome compare nelle opere dello storico greco Erodoto).
È la terza piramide del complesso di Giza ed è intrigante almeno quanto le sue sorelle giganti più conosciute.
L’altezza totale della Piramide di Micerino è di 65,5 metri, i lati della base quadrata misurano 103,4 metri e il volume totale è pari a 250 mila m³, ovvero un decimo di quella di Cheope, e presentando la curiosa particolarità di blocchi molto più grandi di quella di Chefren.
In origine la piramide doveva essere tutta ricoperta dello spettacolare granito rosso di Assuan, le cui cave si trovano a circa 900 km di distanza. Il lato nord conserva parte del rivestimento, che però verso l’alto non risulta liscio dando così l’impressione di un lavoro non terminato. Ma perché è così piccola?
Alcuni, frettolosamente, affermano che forse non c’era abbastanza spazio a sinistra della Piana di Giza, o che, forse, il costo di costruzione era troppo alto.
In realtà, come oggi si ritiene, le tre piramidi di Giza riproducono la configurazione delle tre stelle della cintura della Costellazione di Orione. La Piramide di Micerino corrisponderebbe alla posizione della stella Mintaka, apparentemente la più piccola delle tre. Quindi le ragioni sarebbero di tipo analogico.


Mintaka è la stella più occidentale della Cintura, in quanto Alnilam e Alnitak sono osservabili, rispettivamente, a poco meno di 2° e a poco meno di 4° a sud-est da essa.
Un altro aspetto davvero curioso che Micerino condivide con le altre due piramidi è il fatto che queste strutture, in realtà, sono costituite da otto lati invece di quattro.
Questo fenomeno è visibile solo dall’alto, durante l’alba e il tramonto degli equinozi di primavera e autunno, quando il sole proietta ombre sulle piramidi che rivelano la particolare conformazione a otto lati.
Perchè i costruttori hanno progettato e realizzato una caratteristica così difficile da vedere? È stata semplicemente una sofisticata scelta estetica, oppure dietro c’è una ragione pratica a noi sconosciuta?
Infine, le pietre di granito che rivestono l’esterno della piramide di Micerino hanno delle curiose sporgenze, caratteristica riscontrata in alcuni siti archeologici dell’America precolombiana, in particolare a Cuzco, Perù, una delle città Inca più conosciute.


Interno della Piramide

Sebbene non sia mai stato trovato nessuna mummia o cadavere, gli egittologi credono che le piramidi fossero luoghi di sepoltura per i faraoni egizi. Ma è davvero così?
L’interno della piramide è molto complesso. Presenta un ingresso a nord a circa 4 metri d’altezza che conduce in un tunnel rivestito di granito rosa di circa 32 metri e con un’inclinazione di 26° ed un successivo grande corridoio di circa 13 metri di lunghezza, 4 metri di larghezza e 4 metri di altezza.
Questo corridoio sbocca nell’originale in una camera posta 6 metri sotto il livello del suolo che presenta una fossa nel pavimento che doveva accogliere un sarcofago e dalla quale parte un corridoio che conduce nel nulla.
Sconcertante la massiccia presenza del granito proveniente dalle lontane cave dell’Alto Egitto, pietra molto dura ed estremamente difficoltosa da lavorare.
Una caratteristica notata dagli studiosi è che i segni lasciati sulle pareti dagli attrezzi degli operai egizi indicano con certezza che il primo corridoio inferiore è stato scavato dall’interno verso l’esterno mentre il secondo, quello superiore esattamente dall’esterno verso l’interno.
Dunque, sebbene piccola e poco valorizzata, la Piramide di Micerino solleva una serie di questioni pari a quelle delle sorelle maggiori, spingendoci a esplorare più profondamente la mentalità di chi ha fatto il lavoro, lo scopo dello sforzo e, soprattutto, il periodo di realizzazione.

Perchè stanno morendo così tanti animali? fenomeno in aumento.


Secondo i ricercatori, le morti di massa sono oggi più frequenti che mai rispetto alla storia del pianeta. Anche se non sono letali come un'estinzione, le morie di massa possono uccidere fino al 90% degli individui di una specie. Ma perché accadono? Tra le cause le modificazioni climatiche e territoriali dovute all'uomo; nei casi più gravi possono essere implicate molteplici cause.





Negli ultimi settant’anni, le morti di massa animali sono aumentante in frequenza esponenzialmente.
A rilevarlo è uno studio condotto in collaborazione da tre istituti statunitensi (l’Università di San Diego, l’Università di Yale e l’Università della California, Berkley) e pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences.
La ricerca ha sottolienato come tali eventi siano decisamente in aumento tra gli uccelli, i pesci e gli invertebrati marini, con il rischio di uccidere fino al 90% degli individui di una specie.
I ricercatori hanno esaminato i casi di morie animali di massa documentati nella letteratura scientifica. Anche se esistono sporadici studi che risalgono al 1800, l’analisi degli studiosi si è concentrata sul periodo a partire dal 1940 ad oggi.
Ma cos’è una “moria di massa”? Il termine indica l’evento che si verifica in una specie quando muore una grande percentuale dei suoi individui in un breve lasso di tempo. Sebbene si trattava, fino a poco tempo fa, di eventi rari, essi sono in grado di decimare una specie fino all’estinzione.
Lo studio, infatti, indica che l’enigmatico fenomeno è drammaticamente aumentato in frequenza negli ultimi decenni. Le ragioni che possono innescare una moria sono diverse e concatenate fra loro, come la devastazione ambientale dovuta all’uomo, la quale però rappresenta solo una parte del problema.
Nel complesso, si è notato che la malattia sembra essere il principale colpevole, rappresentando il 26 per cento delle cause di morie di massa. Gli effetti diretti legati all’attività umana, come la contaminazione ambientale, è causa, invece, del 19 per cento delle morie.




La biotossicità innescata da eventi come la proliferazione di alghe rappresenta una quota significativa di morie, così come i processi legati direttamente ai cambiamenti climatici, come condizioni meteorologiche estreme, stress termico, carenza di ossigeno e fame, fattori che aggregati raggiungono il 25 per cento delle cause.
“Lo studio rappresenta il primo tentativo di quantificare i modelli nella frequenza, nell’ampiezza e le cause di tali eventi di morie di massa”, spiega la dottoressa Stephanie Carlson, docente associata presso il Dipartimento di Scienze Ambientali della UC Barkeley e autrice dello studio. “La natura catastrofica delle improvvise morie animali di massa è in grado di catturare l’attenzione umana”.
Lo studio ha rivelato che il numero di eventi di morte di massa è aumentato di circa un evento all’anno negli ultimi 70 anni.
“Anche se potrebbe sembrare poco, l’aggiunta di un evento di mortalità di massa all’anno per oltre 70 anni si traduce in un notevole aumento del numero di eventi”, spiega il dottor Adam Siepielski, assistente alla cattedra di biologia dell’Università di San Diego e coautore dello studio.
Al di là delle statistiche, lo studio suggerisce che il nostro pianeta sta subendo cambiamenti drammatici nella sua ecologia, in parte determinati dall’avidità dell’uomo rispetto alle risorse naturali, in parte determinata da eventi che non sono ancora stati compresi fino in fondo.




Difendere Amazzonia, tutelare natura e popoli. Presentata "Repam", tutela 30 mln persone e 390 popoli indigeni






L'Amazzonia, insieme con la foresta del Congo, è ciò che resta di più prezioso per il pianeta: sei milioni di chilometri quadrati di foresta tropicale, divisi tra Guyana, Suriname e Guyana Francese, Venezuela, Ecuador, Colombia, Bolivia, Perù e Brasile. 
Ma il 20% di questo patrimonio dell'umanità è già andato in fumo, per la deforestazione, a vantaggio dei grandi interessi economici, delle multinazionali, nel totale disprezzo dell'ambiente e dei diritti umani dei popoli amazzonici, tra cui 390 popoli indigeni. La REPAM, rete ecclesiale panamazzonica, presentata in Vaticano è nata, ispirata dalle parole di papa Francesco a Rio, durante la GMG del 2013, per unire le forze in difesa dell'Amazzonia, e per aiutare altre analoghe iniziative, nel mondo, a difesa di situazioni analoghe.

La rete è stata presentata in sala stampa vaticana dal cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio giustizia e pace, dall'arcivescovo peruviano Pedro Ricardo Barreto Jimneo, da segretario generale di Caritas Internationalis Michel Roy, da Maurizio Lopez Oropeza, di Caritas Ecuador, mentre il cardinale Claudio Hummes è intervenuto audiocollegamento.







Il cardinale Turkson ha spiegato la scelta di presentare la REPAM anche in Vaticano, "non solo - ha detto - per l'alto significato simbolico che riveste per la Chiesa la sede di Pietro, ma anche per la volontà di dare visibilità alla REPAM, al suo funzionamento, alle sue priorità di azione, agli alleati e modalità di accreditamento". "Potrebbe servire - ha detto il porporato africano - come modello per altre chiese locali di altri continenti che si trovano a affrontare sfide analoghe a queste: giustizia legalità, - ecco alcune sfide - promozione dei diritti umani, cooperazione tra Chiesa e istituzioni pubbliche, prevenzione dei conflitti, studio delle informazioni, sviluppo inclusivo ed equo, uso delle risorse e preservazione delle culture e modi di vita di diversi popoli". Il cardinale ha apprezzato della REPAM la "transnazionalità della iniziativa e l'elevato numero di paesi coinvolti", la "ecclesialità per la creazione di una collaborazione armoniosa fra le componenti della Chiesa", e "l'impegno per la tutela della vita" di oltre 30 milioni di persone e svariate comunità". Monsignor Fridolin Ambongo, presidente della Commissione giustizia e pace dei Grandi Laghi (Repubblica del Congo, Ruanda e Burundi) e della Commissione per le risorse naturali della Chiesa del Congo, ha raccontato che "nella foresta equatoriale, bande armate stazionano alle zone dove si estraggono i minerali: le sfide - ha detto - sono le tesse Che in Amazzonia, da noi è un problema di vita o di morte perché se hanno trovato petrolio, diamanti, sicuramente sappiamo che l'indomani ci sarà la guerra, lo sappiamo e facciamo l'esperienza in Congo, e anche in altri paesi. Sono contento, - ha aggiunto - che la presentazione di REPAM sia fatta anche qui a Roma per più visibilità, può servire anche per altre chiese, sono contento che lui come nostro capo parla così", (si riferiva al cardinale Turkson, ndr).



La Rete Ecclesiale Panamazzonica (REPAM) è nata nel mese di settembre 2014 a Brasilia, si propone di tutelare l'Amazzonia e di promuovere un modello di sviluppo alternativo solidale, che non organizzi la società e lo sfruttamento della natura in funzione dei soli interessi economici".





Qual'è stata la vera causa della scomparsa degli abitanti dell'Isola di Pasqua?.


Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Phys.org propone una teoria alternativa sulla scomparsa degli abitanti di Rapa Nui, uno degli enigmi più sconcertanti della storia.







Nelle solitarie acque dell’Oceano Pacifico, circa 3600 km ad ovest del Cile, si trova Rapa Nui, più nota come Isola di Pasqua.
Questo piccolo pezzo di terra emersa rappresenta uno dei più grandi enigmi dell’antropologia e dell’archeologia moderna.
Innanzitutto, la presenza dei famosi ed enigmatici Moai, grandi busti antropomorfi scolpiti nella roccia. Sull’isola se ne contano ben 638.
Nonostante le ricerche condotte negli ultimi anni, il loro scopo non è tuttora noto con certezza. Secondo la ricerca alternativa, i coloni polinesiani giunti sull’isola intorno a 1100 d.C. non hanno fabbricato i Moai ma li hanno trovati lì.
Secondo la leggenda, infatti, Rapa Nui sarebbe l’ultimo lembo di terra un tempo appartenuto al continente perduto di Mu, sede della prima civiltà umana sorta sul nostro pianeta circa 50 mila anni fa. Dunque, i Moai sarebbero le reliquie di una civiltà arcaica perduta tra le onde dell’Oceano Pacifico.
All’indomani del cataclisma globale avvenuto 12 mila anni fa, che avrebbe sprofondato il continente sul fondo del Pacifico, buona parte dei superstiti di Mu riparò fondando colonie sulle nuove terre emerse, mentre una piccola parte rimase su Rapa Nui.

Isola di Pasqua

L’Isola di Pasqua è una delle isole abitate più remote al mondo. Essa si trova a 3600 km ad ovest delle coste del Cile e circa 2075 km ad est delle isole Pitcairn.
Nonostante la posizione remota, la convinzione abituale degli antropologi è che poco prima del 1200 d.C., alcuni gruppi polinesiani abbiano navigato verso l’isola per stabilirsi lì.
Si ritiene che la popolazione sia cresciuta rapidamente, rimanendo fiorente per centinaia di anni, fino a raggiungere la ragguardevole cifra di 20 mila persone.
Secondo i ricercatori, la fertilità del terreno avrebbe garantito alla popolazione raccolti abbondanti, permettendo la nascita di una cultura molto ricca e concedendo loro il tempo di scolpire ed erigere i famosi busti di pietra detti Moai.
Secondo la teoria comunemente accettata, intorno al 1200, gli abitanti cominciarono a tagliare le foreste subtropicali dell’isola in maniera crescente, per la costruzione di canoe e il trasporto dei Moai. La deforestazione selvaggia distrusse la fauna selvatica naturale e compromise la fertilità della terra.
Quando la gente cominciò a patire la fame, in un ultimo disperato tentativo di sopravvivenza, i superstiti cominciarono a praticare il cannibalismo. La leggenda vuole che il crollo dell’ecologia dell’isola e della sua civiltà furono completi già quando arrivò l’olandese Jakob Roggeveen, la domenica di Pasqua 1722, motivo per il quale l’isola fu battezzata Isola di Pasqua.
All’epoca, l’Isola di Pasqua appariva come una distesa di sabbia vuota priva di quasi tutta la fauna e la flora selvatica. Gli abitanti si erano ridotti ad una popolazione affamata di 3 mila persone.
L’altro enigma che interroga gli scienziati è il motivo della scomparsa degli ultimi abitanti di Rapa Nui, cioè coloro che secondo l’archeologia ufficiale avrebbero poi eretto i Moai.


L’opinione corrente è che la popolazione dell’isola si sia autodistrutta a causa della deforestazione selvaggia, la quale avrebbe compromesso la fertilità del terreno e costretto la popolazione a darsi al cannibalismo.
Per tale motivo, il crollo della civiltà dell’Isola di Pasqua viene spesso usata come un ammonimento contro la follia dell’essere umano che sfrutta senza controllo l’ambiente in cui vive.
Ma un gruppo di scienziati statunitensi del Virginia Commonwealth University ritiene che l’ipotesi del crollo dovuto alla deforestazione è completamente falso e ingannevole.
Nello studio pubblicato su phys.org, il gruppo di ricerca riferisce che la popolazione è stata letteralmente decimata dall’arrivo degli europei sull’isola nel 1722, i quali hanno portato la sifilide, il vaiolo e la deportazione per schiavitù.
Gli scienziati ritengono che un gruppo significativo di individui è riuscito a sopravvivere perfettamente sull’isola dopo che l’ultimo albero fu tagliato. La conclusione è stata suggerita dopo aver trovato numerosi strumenti agricoli sparsi sull’isola, che presumibilmente sono stati utilizzati dagli isolano per il sostentamento.
Le indagini hanno rivelato che invece di esserci stato un crollo improvviso dell’attività agricola, si è registrato un calo molto più graduale in alcune aree. Lo studio è stato salutato con soddisfazione da coloro che non hanno mai creduto alla stupidità estrema degli abitanti dell’Isola di Pasqua.


Wwf, il 22% degli eco-reati sono su animali. Associazione Panda chiede stop a 'crimini di natura'.






Deforestazione, bracconaggio, pesca illegale: sono ''crimini di natura'' che mettono a rischio la sopravvivenza di centinaia di specie, di cui anche l'Italia è vittima. 
Lo ricorda il Wwf in occasione della giornata mondiale della wildlife, #worldwildlifeday, giunta alla seconda edizione (le Nazioni Unite hanno deciso di proclamarla il 3 marzo, anniversario dell'adozione della Convenzione internazionale sul commercio di specie in pericolo, la Cites). 
Il Wwf fa presente che dallo scorso ottobre c'è la campagna 'Stop ai crimini di natura'; ha lanciato in questi mesi una petizione per introdurre il nuovo 'delitto di uccisione di specie selvatiche protette', ''violazione punita sinora con una semplice contravvenzione''. I reati contro la fauna selvatica rappresentano ''il 22% del totale dei reati ambientali''. Finora sono state raccolte oltre 55.000 firme. 
Nel nostro Paese rischiano specie simbolo come il lupo (si calcola che ogni anno siano circa 300 i lupi vittime di questi crimini), orsi, aquile, tartarughe marine.

''Le specie protette, così come gli ambienti naturali e tutta la biodiversità sono un valore e una risorsa che appartiene alla comunità intera - osserva Isabella Pratesi, direttrice conservazione Wwf Italia - i crimini di natura sono un vero e proprio atto contro la democrazia, contro un mondo più equo e giusto e contro un futuro sostenibile e intelligente a cui tutti aspiriamo. I crimini di natura producono nel mondo un fatturato di 213 miliardi di dollari l'anno, un business che alimenta i sistema criminali. 

Fermare questa strage di natura e animali deve essere uno degli obiettivi prioritari nelle agende di governi''. 




Mondo Sommerso: Scoperto un incredibile tempio dell'acqua Maya.


Nei pressi del sito di Cara Blanca, gli archeologi hanno scoperto un incredibile complesso immerso nella foresta del Belize: un tempio maya posto accanto ad una profonda piscina sacra, dove i pellegrini offrivano sacrifici al dio dell'acqua e forse anche ai demoni degli inferi.





Immerso nella tranquillità della foresta del Belize, nei pressi del sito di Cara Blanca, giace uno straordinario, e finora sconosciuto, santuario Maya dedicato alle divinità dell’acqua.
La scoperta è stata fatta da un gruppo internazionale di ricercatori, i quali pubblicheranno i risultati del loro lavoro sul prossimo numero delCambridge Archaeological Journal.
Il complesso sacro si compone di un tempio principale e di due strutture minori, tutte posto accanto ad una piscina profonda, dove i pellegrini offrivano sacrifici a Chaac, la divinità maya della pioggia.
«I pellegrini venivano qui per purificarsi e portare le loro offerte», spiega alNational Geographic la team-leader Lisa Lucero, archeologa dell’Università dell’Illinois. «Era considerato un posto speciale con una funzione sacra».
Lucero e i suoi colleghi hanno esplorato il fondo della piscina sacra per quattro anni, trovando sul fondo numerosi utensili di pietra, cocci di ceramica, denti e artigli fossili, tutti oggetti sacrificati in onore di Chaac.
I ricercatori hanno notato che gli oggetti offerti nei tempi più antichi erano in numero molto minore rispetto a quelli offerti nei periodi tardivi della civiltà Maya. Questo aspetto suggerisce che nel corso dei secoli le siccità diventarono sempre più estreme e i Maya disperati, di conseguenza, chiedevano più aiuto al dio della pioggia Chaac.
Gli studiosi, infatti, pensano che nella prima metà del 1° millennio d.C., i Maya furono sferzati da una serie devastante di siccità, che alla fine ha portato al crollo della loro civiltà. È plausibile pensare che molti maya abbiano risposto a queste condizioni estreme chiedendo aiuto agli dei. Anzi, è possibile che proprio la siccità abbia dato il via ai cosiddetti “culti della siccità”.
«Si tratta del primo esempio di architettura inglobata nel territorio che abbia mai visto», racconta Brent Woodfill, archeologo dell’Università del Minnesota. «È davvero affascinante, e dimostra ancora una volta quanto le grotte e le piscine erano correlate alla visione del mondo dei Maya». Grotte e cenote, infatti, erano considerati dai Maya ingressi al mondo sotterraneo.
Sul fondo della piscina sono stati trovati anche alcuni resti umani. Alcuni ricercatori ipotizzano che si tratti dei resti di sacrifici rituali umani, altri pensano che la piscina sia stata semplicemente utilizzata come luogo di sepoltura per qualche rappresentante dell’elite della società.

martedì 3 marzo 2015

L'origine ignota dei "Popoli del Mare". I veri discendenti di Atlantide?.


Secondo le fonti egiziane risalenti alla 19° dinastia, un tempo remoto esisteva una confederazione di “Popoli del Mare” che, navigando verso il Mar Mediterraneo orientale, sul finire dell'età del bronzo invasero l'Anatolia, la Siria, Palestina, Cipro e l'Egitto. In realtà, non si sa molto su di loro, né quale fosse il luogo di provenienza. Le fonti egiziane descrivono queste popolazioni solo dal punto di vista militare: “Sono venuti dal mare sulle loro navi da guerra, e nessuno poteva andare contro di loro”!




I “Popoli del Mare” sono oggetto di un infinito dibattito tutt’ora in corso tra gli studiosi di storia antica.
Si tratta, infatti, di un gruppo umano di cui si sa molto poco, la cui scarsità di notizie ha favorito il fiorire di numerose di teorie ed ipotesi.
Non si sa chi fossero, nè il loro luogo di origine e nemmeno che fine abbiano fatto. Dunque, la precisa identità di queste “popolazioni del mare” è ancora un enigma per gli studiosi.
Alcuni indizi suggeriscono invece che per gli antichi egizi l’identità e le motivazioni di queste popolazioni erano note. Le poche informazioni che abbiamo, infatti, ci vengono da fonti dell’antico Egitto risalenti alla 19° dinastia.
In realtà, le fonti egizie descrivono tali popoli solo dal punto di vista militare. Sulla stele di Tanis si legge un’iscrizione attribuita a Ramses II, nella quale si legge:
«I ribelli Shardana che nessuno ha mai saputo come combattere, arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, nessuno è mai riuscito a resistergli».
Il fatto che varie civiltà tra cui la civiltà Ittita, Micenea e il regno dei Mitanni scomparvero contemporaneamente attorno al 1175 a.C. ha fatto teorizzare agli studiosi, che ciò fu causato dalle incursioni dei Popoli del Mare.
I resoconti di Ramses sulle razzie dei Popoli del Mare nel mediterraneo orientale sono confermati dalla distruzione di Hatti, Ugarit, Ashkelon e Hazor.
È da notare che queste invasioni non erano soltanto della operazioni militari ma erano accompagnate da grandi movimenti di popolazioni per terra e mare, alla continua ricerca di nuove terre in cui insediarsi.

I Popoli del Mare

Il termine “Popoli del Mare” fa riferimento ad un gruppo composto da dieci popolazioni provenienti dall’Europa meridionale, una sorta di confederazione, che sul finire dell’Età del Bronzo, navigando verso il Mar Mediterraneo orientale, invasero l’Anatolia, la Siria, Palestina, Cipro e l’Egitto.
Le fonti antiche più importanti nelle quali vengono citati i Popoli del Mare sono l’Obelisco di Biblo, databile tra il 2000 e il 1700 a.C., le Lettere di Amarna, la Stele di Tanis e le iscrizioni del faraone Merenptah.
Tra le popolazioni citate nelle iscrizioni antiche, le più intriganti sono certamente i Lukka, gli Shardana, i Šekeleš e i Danuna.


I Lukka

La prima menzione di queste genti compare nell’obelisco di Biblo, dove viene nominato Kwkwn figlio di Rwqq, transliterato Kukunnis figlio di Lukka.
Le terre di Lukka vengono spesso citate anche nei testi ittiti a partire dal II millennio a.C. Denotano una regione situata nella parte sud-occidentale dell’Anatolia. Le terre di Lukka non furono mai poste in modo permanente sotto il controllo ittita, e gli stessi Ittiti le consideravano ostili.
I soldati di Lukka combatterono alleati agli Ittiti nella famosa battaglia di Qadeš (ca. 1274 a.C.) contro il faraone egizio Ramesse II. Tuttavia, un secolo dopo, Lukka si rivolse contro gli Ittiti. Il re ittita Šuppiluliuma II tentò invano di sconfiggere Lukka, i quali contribuirono al collasso dell’impero ittita.

Gli Shardana

Gli Shardana compaiono per la prima volta nelle fonti egiziane nelle lettere di Amarna (1350 a.C. circa) durante il regno di Akhenaton. Vengono poi menzionati durante il regno di Ramses II, Merenptah e Ramses III con i quali ingaggiarono numerose battaglie navali.
Nella raffigurazione vengono dipinti con lunghe spade triangolari, pugnali, lance e uno scudo tondo. Il gonnellino è corto, sono dotati di corazza e di un elmo provvisto di corna.
Le similitudini fra i guerrieri Shardana e quelli dei nuragici della Sardegna, nonché l’assonanza del nome Shardana con quello di Sardi-Sardegna, hanno fatto ipotizzare, ad alcuni, che gli Shardana fossero una popolazione proveniente dalla Sardegna o che si fosse insediata nell’isola in seguito alla tentata invasione dell’Egitto.

I Šekeleš

I Šekeleš, detti anche Sakalasa, vengono citati insieme ad altri otto componenti dei Popoli del Mare nelle iscrizioni commissionate dal faraone Merenptah (13° secolo a.C.).
Sono stati associati ai Siculi, popolazione indoeuropeea che si stanziò nella tarda età del bronzo in Sicilia orientale scacciando verso occidente i Sicani.
Non è escluso che la loro emigrazione in Sicilia possa essere stata precedente agli scontri con l’Egitto di Merenptah, se è affidabile l’alta cronologia della cultura Pantalica I (datata a partire dal 1270 a.C.) e la testimonianza di Ellanico di Mitilene, riportata da Dionigi di Alicarnasso, secondo cui lo sbarco dei Siculi in Sicilia sarebbe avvenuto tre generazioni prima della guerra troiana, intorno al 1275 a.C.; Dionigi riporta anche la datazione fissata da Filisto (ventiquattro anni prima della Guerra di Troia) più o meno contemporanea al conflitto tra il faraone Merneptah e i Popoli del mare.
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I Danuna

I Danuna, o Denyen, sono certamente i più enigmatici. Secondo la leggenda, i Danuna avrebbero lasciato il continente di Atlantide per stabilirsi sull’isola di Rodi.
Questo popolo adorava la dea Danu, una dea primordiale presente nella mitologia di molte culture (da quella celtica a quella indiana). Veniva rappresentata come una luna avvolta dal serpente e che si suppone era considerata la dea madre delle acque.
La mitologia greca tramanda che gli abitanti primordiali dell’isola di Rodi erano chiamati Telchini. Secondo lo storico greco Diodoro, questo popolo aveva il potere di guarire le malattie, di modificare le condizioni atmosferiche e assumere qualsiasi forma desiderassero. Ma non desideravano rivelare le proprie capacità, mostrandosene assai gelosi.
Erano rappresentati sotto forma di esseri anfibi, metà marini e metà terrestri. Avevano la parte inferiore del corpo a forma di pesce o di serpente, oppure i piedi con dita palmate.
Un po’ prima del Diluvio, ebbero il presentimento della catastrofe e lasciarono Rodi, la loro patria, per disperdersi nel mondo. È possibile che la mitologia e le leggende tramandino la storia di un popolo tecnologicamente avanzato, percepito dagli antichi come in possesso di poteri magici?
È possibile che ci sia un collegamento tra i Danuna e i Talchini? Potrebbero essere davvero i superstiti del continente di Atlantide?

C'è una testata nucleare intrappolata da qualche parte in Groenlandia.


Sembra che la storia se ne sia dimenticata, ma nel 1968 un bombardiere B-52 dell'US Air Force con a bordo quattro testate all'idrogeno si schiantò in Groenlandia, a 1118 km a nord del Circolo polare artico.




Nel 1968, in piena guerra fredda, un bombardiere B-52 con a bordo quattro bombe nucleari precipitò nei pressi della base aerea di Thule, in Groenlandia.
Il disastro fu provocato da un incendio nella cabina di pilotaggio che costrinse l’equipaggio ad abbandonare l’aereo. Dei sette militari a bordo, sei riuscirono a salvarsi, mentre uno perse la vita.
Tre delle quattro bombe furono recuperate grazie allo sforzo congiunto e meticoloso che coinvolse sia gli Stati Uniti che i funzionari danesi. Fortunatamente, le bombe rimasero inesplose perché non erano mai state armate dall’equipaggio.
E la quarta bomba dov’è? In un recente documentario trasmesso dalla BBC, si dice chiaramente che la quarta testata nucleare fu abbandonata nel ghiaccio, dopo una massiccia operazione di ricerca.
In realtà, il Pentagono aveva detto per anni che tutte le bombe erano state recuperate e disarmate, fino a quando la BBC, grazie al Freedom of Information Act, ha scoperto la vera storia.
Secondo il Daily Mail, in una sezione declassificata del documento si fa riferimento ad una sezione annerita nel ghiaccio, probabilmente i segni lasciati dall’impatto del bombardiere.
A quanto pare, le ricerche non andarono come dovevano, e la quarta bomba non fu recuperata. Ancora oggi, secondo quanto riporta Jens Zinglersen, ex funzionario della Groenlandia, la zona è ancora off-limits.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, per porre un ulteriore contrappeso alla crescente minaccia sovietica, gli Stati Uniti pensarono di porre un’installazione militare nell’emisfero settentrionale.
Nel 1953 gli Stati Uniti acquistarono il territorio necessario per la base dal governo danese, gli Inuit che risiedevano in quell’area furono indotti dal governo danese a trasferirsi a 110 km a nord, dove attualmente è costituito il villaggio di Qaanaaq.
Pur avendo acquistato il territorio furono conservati i diritti di sovranità della Groenlandia, per cui l’uso della base comporta per gli Stati Uniti il pagamento di un “affitto” ovvero di “cessione temporanea della sovranità”, di 300 milioni di dollari annui.
Tuttavia, nel 1965 il governo danese scoprì che gli americani avevano creato a Thule un deposito di armi nucleari, in barba agli accordi presi in precedenza. L’episodio causò molto attrito diplomatico tra i due stati. L’incidente del bombardiere, avvenuto tre anni dopo, non fece altro che alimentare ulteriori polemiche per quasi 40 anni.



Una sorprendente scoperta archeologica in Irlanda.


Cercavano reperti di 700 anni fa e invece ne hanno trovati di 7000 anni fa! I frammenti di selce scoperti dai ricercatori dimostrano che il sito di Tullyhogue Fort era abitato già nel 5000 a.C.






Presso il sito di Tullyhogue Fort, la collina dove i sovrani della dinastia O’Neill sono stati incoronati tra il 14° e il 17° secolo, gli archeologi hanno scoperto la prova sorprendente di insediamenti risalenti al 5000 a.C., epoca in cui i primi gruppi umani si insediarono in Irlanda.
«Cercavamo reperti di 700 anni fa e invece ne abbiamo trovati alcuni che risalgono a 7000 anni fa», ha detto l’archeologo John O’Keefe al Belfast Telegraph.
I lavori di scavo, che si sono concentranti attorno ai pittoreschi alberi circondati da un tumulo di terra, hanno permesso il ritrovamento di frammenti di utensili in selce risalenti agli albori dell’insediamento umano in Irlanda.
I ricercatori hanno anche scoperto altri preziosi reperti che aiuteranno a ricostruire la storia del sito prima dell’arrivo dei potenti O’Neill. «Credevamo che dagli scavi emergesse una migliore comprensione della storia degli O’Neill, ma ora abbiamo trovato dei reperti che raccontano una storia che non ci aspettavamo di trovare», dice ancora O’Keefe.
«Quello che possiamo dire per ora è che la collina dove sorge Tullyhogue è stato occupato anche da gruppi di cacciatori-raccoglitori, i primi a stabilirsi su quest’isola», continua l’archeologo. «Pensiamo che i primi coloni abbiamo raggiunto il sito seguendo i sistemi fluviali».


In epoca medievale, il sito è stato utilizzato per l’incoronazione dei sovrani della dinastia O’Neill, un gruppo di famiglie che nelle loro mani hanno avuto titoli e posizioni di prestigio.
Essi devono il loro nome a Niall Glúndub un Re supremo d’Irlanda vissuto nel X secolo discendente da Cenél nEógain.
È possibile che il sito, nel corso dei millenni, abbia acquisito una qualche importanza particolare, motivandone la scelta come luogo di incoronazione.
Il toponimo Tullyhogue significa “Collina del giovane guerriero”, o anche “Collina della gioventù”, dal gaelico “Tulloch Oc”.
Certamente, le nuove scoperte spingeranno i ricercatori a più approfondite analisi, cercando di ricostruire la storia di un sito che ha rappresentato qualcosa di significativo per gli antenati irlandesi. «È una scoperta piuttosto interessante», conclude O’Keefe.

I Viaggiatori nel tempo dell'antichità.


Il viaggio nel tempo non è solo la conseguenza teorica delle moderne acquisizioni della fisica. Miti greci narrano di misteriosi personaggi in grado di volare per migliaia di chilometri e di infrangere le barriere dello spazio-tempo. Ecco la straordinaria vicenda di Aristea di Proconneso.






Nei suoi scritti, l’autore greco Strabone cita l’enigmatica figura diAristea di Proconneso, che a suo parere sarebbe stato addirittura il maestro di Omero.
Si ritiene che Strabone sia un personaggio realmente esistito, nonostante la natura leggendaria di molte delle tradizioni che lo riguardano.
Infatti, nella letteratura è ricordato come una persona misteriosa in possesso di straordinari poteri.
I suoi leggendari viaggi sono rimasti impressi nella coscienza e nelle menti degli antichi greci, tanto da sentire la necessità di tramandarne il ricordo alle generazioni successive.
Originario dell’isola del Proconneso (oggi isola di Marmara, nel mare omonimo), secondo quanto riportato dal lessico Suda, le sue attività si sarebbero svolte principalmente durante la cinquantesima Olimpiade (580 a.C.-577 a.C.).
Molte delle testimonianze che lo riguardano riferiscono dei suoi viaggi nelle regioni settentrionali. Secondo Teopompo avrebbe visitato la mitica Iperborea, patria dell’anch’esso mitico popolo degli Iperborei.
Nei miti greci, questa regione viene descritta come era un paese perfetto, illuminato dal sole splendente per sei mesi all’anno. Alcuni autori hanno identificato Iperborea come l’estremità settentrionale del continente perduto di Atlantide, altri ancora con Thule, altri semplicemente con la Scandinavia e il Nord Europa, terre sconosciute e misteriose per gli antichi Greci.
Le modalità di questo lungo viaggio sono riportate da Erodo, il quale credeva che Aristea fosse stato posseduto da Apollo e che lo avrebbe seguito sotto forma di corvo fino alle estreme regioni settentrionali. Così scrive nelle sue “Storie” (IV, 13):
«Aristea di Proconneso, figlio di Castrobio, componendo un poema epico, disse di essere arrivato, invasato da Febo, presso gli Issedoni e che al di là degli Issedoni abitano gli Arimaspi, uomini monocoli, e al di là di questi i grifi custodi dell’oro, e oltre a questi gli Iperborei, che si estendono fino ad un mare.
Tutti costoro, eccetto gli Iperborei, a cominciare dagli Arimaspi aggrediscono di continuo i loro vicini; e così dagli Arimaspi furono scacciati dal loro paese gli Issedoni, dagli Issedoni gli Sciti; e i Cimmeri, che abitano sul mare australe, premuti dagli Sciti, abbandonarono il paese».
Si dice che Aristea avesse il dono dell’ubiquità, cioè la capacità di trovarsi in più luoghi contemporaneamente. Forse, questo suo potere è associato ad un’altra sua straordinaria caratteristica: Aristea era un viaggiatore del tempo.
È sempre Erodoto a raccontare un fatto davvero curioso (Storie, IV, 13-16). Un giorno, Aristea entrò in un negozio di Proconneso e lì, improvvisamente, cadde a terra morto. Subito, il negoziante uscì dal negozio diffondendo la notizia della sua morte.
Tuttavia, un uomo di Cizico, contraddisse la notizia affermando di aver incontrato e parlato con Aristea qualche istante prima. Nessuno credette alla versione fornita dall’uomo.
Quando i familiari di Aristea si mobilitarono per recuperare il corpo nel negozio e organizzare il funerale, con somma meraviglia scoprirono che il corpo del defunto era scomparso. Nessuno era in grado di affermare se Aristea fosse ancora vivo o morto.
Colpo di scena, Aristea ricompare su Proconneso sette anni più tardi, scrivendo il poema nel quale sono descritti i suoi viaggi verso le regioni del nord. Ma non finisce qui! Dopo aver scritto la sua opera, Aristea scompare una seconda volta, per poi ricomparire ben 240 anni dopo!
Il secondo ritorno avvenne nel Metoponto, nei pressi di Taranto. Aristea ordinò la fabbricazione di una statua raffigurante se stesso e la costruzione di un nuovo altare dedicato al dio Apollo, con il quale era stato in viaggio sotto le sembianze di un corvo sacro.
Una storia incredibile! Può un uomo mortale viaggiare attraverso il tempo, comparendo secoli dopo la morte della sua famiglia? È una storia simile al paradosso dei gemelli di Albert Einstein! Aristea ha viaggiato con Apollo a velocità prossime a quelle della luce, rallentando il suo tempo? [Ora qualcuno penserà: «Ma dai!»].
In realtà, Aristea non è l’unico crononauta dei tempi antichi. Proteo, divinità del mare figlio di Poseidone, oltre ad avere la capacità di trasformare se stesso in qualsiasi forma, possedeva il dono di prevedere il futuro. Il suo nome allude al “primo nato”.
Nell’Odissea si racconta che Proteo era solito uscire dal mare verso mezzogiorno per sdraiarsi a riposare all’ombra delle rocce, circondato dal gregge di foche di Poseidone che accudiva.
Chi desiderava sapere dal dio il proprio destino, ricorrendo alle sue facoltà di veggente sincero e veritiero, doveva accostarglisi a quell’ora e coglierlo nel sonno, utilizzando anche la forza bruta per trattenerlo, poiché egli era in grado di trasformarsi per tentare di sfuggire al compito talvolta ingrato di prevedere.
Qual è, dunque, il significato di questi antichi miti? Secondo i ricercatori “ortodossi”, si tratta di semplici racconti immaginifici, il cui significato simbolico non è sempre così chiaro.
Tuttavia, non manca chi crede che questi racconti, arricchiti da elementi leggendari, facciano riferimento a nuclei storici realmente accaduti, tanto impressionanti da spingere i nostri antenati a raccoglierli e a tramandarli in forma scritta ai posteri.
Se così fosse, si tratta di uomini in possesso di tecnologie antiche provenienti dai discendenti di una qualche perduta civiltà avanzata di cui non abbiamo ancora prove certe?
Se invece di tratta solo di racconti immaginari, resta il fatto interessante che i nostri antenati abbiano avuto la capacità di partorire storie su uomini capaci di sfidare le barriere del tempo, indice di una concezione molto sofisticata della quarta dimensione!