mercoledì 4 giugno 2014

Egitto: Una nuova teoria sulla costruzione delle piramidi in Egitto.


Un ingegnere gallese ha presentato una nuova teoria sulla costruzione della antiche piramidi della piana di Giza che rischia di scuotere il mondo dell'archeologia. A suo parere, il fatto che le piramidi siano state costruite da decine di migliaia di operai che trasportavano blocchi massicci su lunghe rampe è praticamente impossibile.






Peter James, è un ingegnere delle costruzioni di Newport, Galles del Sud.
Soprannominato Indiana James, insieme al team della sua azienda Cintec ha passato gli ultimi diciotto anni a restaurare le piramidi egiziane, avendo l’opportunità di osservare in profondità gli enigmatici monumenti.
Forte di questa esperienza, l’ingegnere gallese ha elaborato una nuova teoria sulla loro costruzione che rischia di mettere in discussione le teorie classiche e far andare su tutte le furie gli archeologi egiziani.
“Secondo le attuali teorie, per impilare i due milioni di blocchi richiesti per la costruzione delle piramidi, gli operai egiziani avrebbero dovuto posizionare un blocco ogni tre minuti”, spiega James.
Inoltre, i blocchi sarebbero dovuti essere spostati su delle ampie rampe che secondo i suoi calcoli, per arrivare a quell’altezza ed evitare che risultassero troppo ripide, avrebbero raggiungo la lunghezza di almeno 400 metri. “Se così fosse, ci sarebbero ancora i segni delle rampe, ma non ce ne sono”, dice James.
Osservando l’interno delle piramidi, James ha innanzitutto ipotizzato che queste furono costruite a cominciare dall’interno, utilizzando i grandi blocchi di pietra per la struttura esterna e materiale più piccolo per la struttura interna, allo stesso modo in cui un costruttore moderno realizzerebbe un muro di pietra.
L’ingegnere ritiene che l’interno delle piramidi è composto di piccoli blocchi facilmente lavorabili e trasportabili. I grossi blocchi visibili all’esterno, sarebbero solo destinati al contenimento dell’intera struttura.
James ha contestato anche la teoria tradizionale su quanto è successo al rivestimento esterno delle piramidi. Gli archeologi sono convinti che la pietra liscia sia stata rubata per la realizzazione di altre costruzioni. L’ingegnere, invece, ritiene che le pietre esterne siano cadute a causa della dilatazione termica causata dalle grandi escursioni termiche tra il giorno e la notte, che possono andare dai 50°C ai 3°C.
“Mi sto preparando ad un dura battaglia con gli archeologi”, ammette l’ingegnere. “Mi accuseranno di non essere un archeologo. Ma se uno vuole costruire una casa chiama un ingegnere o un archeologo? Gli archeologi non hanno mai avuto esperienza di ingegneria”.
Peter James è amministratore delegato della Cintec, azienda leader nel settore del consolidamento strutturale di siti antichi. L’azienda impiega 50 persone e opera in tutto il mondo, ma è stata particolarmente coinvolta nel rafforzamento di antichi monumenti in Iran, Iraq e nel Sahara. Ha contribuito anche a rafforzare le camere sepolcrali delle piramidi a gradoni e della Piramide Rossa.
Certo, non è possibile stabilire se la teoria di James sia corretta oppure no. Però bisogna dargli atto di aver avuto il coraggio di mettere in discussione le idee consolidate dell’archeologia tradizionale e di aver avuto l’animo di affrontare il fuoco di fila di chi si sente investito di difendere queste idee ad ogni costo, anche contro l’evidenza.
Anche altri si sono cimentati nell’ipotizzare tecniche differenti per la costruzione delle piramidi. In un’animazione caricata su youtube, è possibile vedere un sistema per trasportare i blocchi di pietra sulla cima delle piramidi.
Utilizzando una sorta di camera d’aria capace di far galleggiare i blocchi di pietra, gli operai li avrebbero spinti in un condotto verticale pieno di acqua, in modo tale che il galleggiamento li avrebbe poi sospinti verso l’alto.




Luoghi: Le meravigliose montagne colorate della Danxia Cinese.


Danxia è il nome di una regione della Cina caratterizzata da paesaggi formatisi in seguito a maestose forze geologiche. Le formazioni montuose presentano colorazioni spettacolari, uno spettacolo naturale davvero unico nel suo genere.




Il pianeta Terra è straordinariamente bello. Ci sono luoghi capaci di suscitare nel nostro animo il senso della meraviglia, percependone, allo stesso tempo, la maestosa bellezza.
Uno di questi luoghi è la Danxia, una regione montuosa che si trova nella fascia sub-tropicale della Cina.


Il paesaggio si estende per circa 1700 km, formando una mezzaluna che va da Guizhou a ovest, fino alla Provincia di Zhejiang ad est.
La morfologia del territorio è il risultato di una modellazione geologica durata 24 milioni di anni, causata da forze endogene, cioè movimenti interni alla crosta terrestre, e forze esogene, erosione da agenti atmosferici.
Vagando per la regione, è facile imbattersi in pilastri naturali, torri, anfratti, valli e cascate. Ma ciò che più meraviglia è la straordinaria gamma di colori presenti nei vari strati delle rocce, i quali rendono la Danxia un luogo unico sul pianeta.



I colori insoliti delle rocce sono causate dalla presenza di arenaria rossa e da vari depositi minerali accumulatisi nel corso di milioni di anni. Il risultato è una meravigliosa “torta a strati” geologica. Vento e pioggia hanno poi completato il lavoro scolpendo forme strane e maestose, diverse per colore, consistenza, forma e dimensione.
La Danxia Cinese è un paesaggio suggestivo e di grande bellezza, tanto da essere stato inserito nella lista UNESCO del Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Oltre alla bellezza, il territorio è significativo anche sotto l’aspetto biologico, in quanto conserva foreste sempreverdi di latifoglie e ospita molte specie di flora e fauna, circa 400 delle quali sono considerate rare o a rischio estinzione.
Le comunità locali sono a conoscenza del fatto che il territorio è stato inserito nella lista dell’Unesco e tutte le parti sono d’accordo nel sottoscrivere gli impegni finalizzati a garantirne la conservazione a lungo termine.


domenica 1 giugno 2014

Giganti di pietra: Perchè i nostri antenati erigevano i Menhir?


Circa 7 mila anni fa, i nostri antenati hanno cominciato ad erigere maestosi monumenti megalitici denominati Menhir. Ampiamente distribuiti in Europa, Africa ed Asia, queste opere sono più numerosi nell'Europa Occidentale, in particolare in Bretagna e nelle isole britanniche. Sono stati eretti in molti periodi differenti, nel corso della preistoria, ed erano creati nel contesto della cosiddetta cultura megalitica che fiorì in Europa e dintorni. Ma perché?




I ricercatori fanno coincidere il sorgere della Cultura Megalitica europea con la comparsa delle prime comunità nate dalla fusione dei gruppi europeo di cacciatori-raccoglitori con i primi agricoltori provenienti dal Vicino Oriente.
La nuova energia garantita dalla moltiplicazione delle risorse alimentari, i nostri antenati realizzarono qualcosa di veramente straordinario: i primi grandi monumenti in pietra.
All’erezione di queste grandi opere megalitiche, i ricercatori associano lo sviluppo delle prime riflessioni sul rapporto tra materia e spirito e sul senso della vita e della morte.
La regione europea più ricca di strutture megalitiche è certamente il golfo di Morbihan, nel sud della Bretagna. Questo luogo offre delle testimonianze importantissime di quell’epoca: decine e decine di siti con migliaia di megaliti, alcuni dei quali addirittura decorati.
I megaliti erano diffusi in molte altre parti d’Europa, ma quello che colpisce è l’estensione dei siti. Si va dalla Svezia all’Irlanda, dal Portogallo all’Italia, dalla Gran Bretagna alla Francia, e anche al Nord Africa.
Alcuni ricercatori hanno suggerito che l’Europa venne unita per la prima volta dalla tradizione dei megaliti, e in effetti potrebbe essere considerata la prima grande religione diffusa su larga scala in tutto il continente.
Ancora oggi, sorprende la capacità dei nostri antenati primitivi di innalzare questi enormi complessi. Il più famoso è certamente il sito di Stonehenge, risultato di secoli di aggiunte e rimaneggiamenti. Molto diffusa è l’idea che questi complessi venissero utilizzati per la precisa osservazione delle stelle e del movimento del sole.


Molti hanno proposto teorie alternative sull’origine dei monumenti, invocando addirittura l’intervento degli extraterrestri. Gli scettici, tuttavia, fanno notare che proporre un’ipotesi del genere equivarrebbe a dire che questi uomini non fossero in grado di costruirli.
Eppure, si rimane sconcertati quando si pensa che delle società analfabete, che non conoscevano la ruota, né i metalli, furono capaci di innalzare capolavori che ancora oggi lasciano senza fiato. Quali tecniche siano state utilizzate per innalzare tali monumenti megalitici è ancora oggetto di speculazione.
 I Menhir
I menhir (dal bretone men e hir “lunga pietra”) sono dei megaliti monolitici eretti solitamente durante il Neolitico, che potevano raggiungere anche più di venti metri di altezza . Essi sono ampiamente distribuiti in Europa, Africa ed Asia, ma sono più numerosi nell’Europa Occidentale, in particolare in Bretagna e nelle isole britanniche.
Potevano essere eretti singolarmente o in gruppi, e con dimensioni che possono considerevolmente variare, anche se la loro forma è generalmente squadrata, alcune volte assottigliandosi verso la cima.
Nel famoso sito di Carnac, situato nel dipartimento del Morbihan nella regione della Bretagna , sono stati contati 3 mila Menhir. Eretti circa 6 mila anni fa, i Menhir di Carnac sembrano comporre un vero e proprio esercito in pietra, lungo oltre un chilometro e disposto su più file.
Il materiale roccioso da cui vennero tirati fuori i menhir di Carnac è granito chiaro, una pietra particolarmente dura da lavorare. Una volta scelto il megalito, bisognava trasportarlo fino al sito prescelto ed innalzato. Il problema è che molto spesso questo si trovava a molti chilometri di distanza. Come ci riuscivano, se i nostri antenati non conoscevano la ruota?
Alcuni hanno ipotizzato che i costruttori facessero scivolare le enormi rocce su rulli di legno, spalmando un lubrificante naturale come il grasso animale. Naturalmente, alla base di tutto c’era la forza umana: ci volevano davvero tante persone.
Secondo i ricercatori, queste tecniche sono bastate anche per erigere uno dei Menhir più colossali che si conoscano: il Grande Menhir spezzato di Locmariaquer (Morbihan) . Oggi è a terra, spezzato in quattro enormi blocchi, ma a quell’epoca era lungo 21 metri.
Interrato per 3 metri, il Menhir si ergeva per 18 metri di altezza, quanto un palazzo di sei piani, e pesava 280 tonnellate. E non era il solo: ce n’erano altri 18 posizionati in fila, allineati in modo decrescente. Il più grande rimase in piedi per secoli, per poi venire abbattuto dagli stessi uomini neolitici. Il motivo della distruzione è avvolto nel mistero.
Importanti siti con Menhir si trovano anche in Italia. In Sardegna, ad esempio, dove i menhir prendono il nome di “perdas fittas” o “pedras fittas” (pietre conficcate ), sono presenti a Laconi e a Villa Sant’Antonio, in provincia di Oristano, ma anche a Goni e Sant’Antioco, in provincia di Cagliari. Importanti siti si trovano anche in Puglia, Liguria, Piemonte e Lombardia.


Perché?

Perché mettere in atto un tale sforzo fisico e intellettuale? Qual era il significato di queste immense distese di massi? In realtà, non lo sappiamo. Alcuni ipotizzano che ognuno dei massi potrebbe rappresentare un antenato importante, un capo defunto, oppure un eroe del passato, l’equivalente delle statue degli imperatori e dei santi.
Se fosse vero, i siti megalitici del neolitico rappresenterebbero la storia dei nostri antenati, con tanto di dinastie, eroi e figure leggendarie. Ma, purtroppo, di loro non sappiamo nulla. 
A quell’epoca, infatti, la scrittura non era stata ancora inventata e quindi non esistono documenti scritti e steli incise che raccontano cronache e eventi: si tratta di capitoli di storia perduti nell’oblio.
Queste popolazioni megalitiche innalzarono megaliti per venti secoli di fila. Poi, cominciarono ad abbandonarli e a non erigerne più. I motivi non sono chiari. Qualunque sia il motivo, intorno a 5 mila anni fa, la tradizione dei megaliti si spense in tutta Europa: l’era dei giganti di pietra era finita per sempre.


Anche i cacciatori in difesa dell’orso marsicano, accordo col ministero dell’Ambiente.


Il ministero dell’Ambiente, l’Ispra, la Federazioni italiana della Caccia, l’Associazione Nazionale Libera Caccia, l’Enalcaccia, l’Anuu Migratoristi e l’Arci Caccia hanno firmato un protocollo d’intesa per la tutela dell’Orso bruno marsicano attraverso un programma condiviso di implementazione di buone pratiche di gestione venatoria.





Secondo il ministero dell’Ambiente «l’accordo trova piena sintonia con quanto disposto dal Piano d’azione Patom (Piano d’Azione per la tutela dell’orso bruno Marsicano, ndr) e dal Protocollo d’intesa firmato il 27 marzo scorso da Ministero, Regioni Abruzzo, Lazio, Molise e Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise».
L’accordo tra ministero, Ispra e cacciatori prevede impegni unilaterali da parte delle associazioni «Per ridurre l’impatto della pratica venatoria e delle attività connesse, promuovendo l’informazione e la formazione dei cacciatori sulle corrette modalità di gestione delle specie di interesse venatorio e le criticità di conservazione dell’Orso bruno marsicano».
Nel protocollo si legge che «Le associazioni condividono la necessità di procedere, ai fini della tutela dell’Orso bruno marsicano e sulla base di apposita cartografia di presenza della specie aggiornata, alla rapida sostituzione della “braccata”, caratterizzata da un elevato disturbo e rischio di impatto su specie “non target”, con forme a minor impatto come la “girata” e la “caccia di selezione”, attraverso la formazione e l’aggiornamento dei cacciatori». Viene anche prevista «La promozione di una più corretta organizzazione della gestione venatoria, a partire dalla stesura dei Piani Faunistici Venatori e dei Regolamenti specifici di gestione delle diverse specie, appoggiando le amministrazioni competenti nella definizione delle prescrizioni, il coinvolgimento degli “ambiti territoriali di caccia” (ATC) a supporto delle amministrazioni per la revisione della programmazione venatoria, la formazione-aggiornamento per una ‘corretta cultura della gestione delle specie di interesse, secondo i criteri scientifici definiti dai documenti tecnici dell’Ispra».
Il ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti ha detto che «con questo protocollo facciamo tutti un altro passo in avanti nel percorso avviato per la tutela dell’Orso marsicano. Ogni istituzione e ogni gruppo d’interesse ha il dovere di concorrere alla difesa di questo straordinario simbolo della biodiversità italiana. Oggi mi sembra si sia dato un segnale significativo in questo senso».