martedì 25 novembre 2014

La Piramide di Choulula: La struttura più grande mai costruita dall'uomo.


Si trova a Cholula, vicino a Puebla, in Messico. Con i suoi 4,5 milioni di metri cubi, è la più grande piramide mai costruita sul nostro pianeta.




La Grande Piramide di Cholula, nota in lingua Nahuatl comeTlachihualtepetl (montagna fatta dall’uomo), è un enorme complesso situato a Cholula, Puebla, Messico.
Con i suoi 4,5 milioni di metri cubi, è considerata la più grande struttura mai costruita dall’uomo. Misura 500 metri per lato ed è alta 64 metri. La base della piramide è quattro volte più grande della Grande Piramide di Giza.
Tradizionalmente è considerata come un tempio dedicato al dio Quetzalcoatl, il serpente piumato.
La piramide oggi appare come una collinetta naturale ricoperta d’erba, suddivisa in quattro gradoni. Originariamente aveva, come molte piramidi dell’area messicana, 365 gradini, a simboleggiare i giorni dell’anno.
In realtà, la piramide è il risultato di sei momenti costruttivi sovrapposti, di cui uno solo è stato nuovamente portato alla luce. Oggi, sulla sua sommità, dove una volta si trovava il tempio, si trova una chiesa cattolica dedicata a Nuestra Señora de los Remedios, Nostra Signora dei Rimedi, che risale al 1594.





Non si sa esattamente quando sia iniziata la costruzione della piramide, ma gli archeologi ipotizzano che sia stata eseguita tra il 300 a.C. e l’inizio dell’era cristiana. Si stima che per il completamento del complesso ci siano voluti dai 500 ai 1000 anni.
Secondo il mito, l’avvio della costruzione della piramide fu merito di un gigante di nome Xelhua, dopo essersi messo in salvo da una grande alluvione avvenuta nella vicina Valle di Anáhuac.
La piramide è costituita da sei strutture sovrapposte, una per ogni gruppo etnico che ha dominato la regione. La pratica costruttiva delle culture mesoamericane prevedeva il rimodellamento di vecchi edifici, ristrutturazioni che miravano alla conservazione e all’espansione delle strutture originali.
Delle sei strutture, solo tre sono state studiate in modo approfondito. La piramide stessa è solo una piccola parte di una grande zona archeologica di Cholula, che si stima sia ampia almeno 154 ettari.
Nonostante l’evidente importanza di questo sito precolombiano, la piramide è relativamente sconosciuta e non debitamente studiata, soprattutto in confronto ad altri siti più blasonati come Teotihuacan, Chichen Itza e Monte Albán.
Le poche pubblicazioni in merito sono rapporti tecnici con poche sintesi sui dati raccolti. Per questo motivo, la Piramide di Cholula non ha giocato un ruolo significativo nella comprensione della storia precolombiana dell’America Centrale.



venerdì 21 novembre 2014

Ii gigante di Atacama: Un altro geoglifo che sfida la nostra comprensione del passato.


I geoglifi più conosciuti al mondo sono senza dubbio le Linee di Nazca, in Perù. Eppure, nel deserto di Atacama in Cile, c'è un altro gruppo di geoglifi altrettanto notevole e impressionante. Tra di essi, l'enigmatico Gigante di Atacama.




Il Deserto di Atacama è situato nel Cile settentrionale, nella regione di Antofagasta e la parte settentrionale della regione di Atacama. È un paesaggio aspro e brullo, noto come il deserto più arido del mondo.
Qui si trova un notevole gruppo di geoglifi al quale i ricercatori cercano di dare risposta da anni.
Anche se i geoglifi di Atacama sono meno noti di quelli del pianoro di Nazca, essi sono molto più numerosi, più vari nello stile e coprono un’area molto più grande. Si tratta di una collezione di oltre 5 mila figure geometriche, zoomorfe e antropomorfe.
Secondo le ipotesi più accreditate, i geoglifi di Atacama sono stati tracciati tra il 600 e il 1500 d.C., ma altri pensano che possano essere più antichi. È sempre problematica la datazione dei geoglifi, dato che non è possibile eseguire datazioni al radiocarbonio.
Comunemente, si ritiene che la produzione dei geoglifi di Atacama sia da attribuire a diverse culture che si sono succedute nella regione, tra cui quella Tiahuanaco e quella Inca.


I geoglifi sono stati tracciati utilizzando tre tecniche differenti: estrattiva, additiva e mista. La tecnica estrattiva prevede la rimozione dello strato superiore del terreno, in modo da creare l’immagine desiderata. Questa è la tecnica più comune riscontrata.
La tecnica additiva, invece, comporta la raccolta di materiale, quali pietre o ghiaia, che poi viene accumulato sulla superficie del terreno per formare il contorno della figura desiderata. Infine, la tecnica mista prevede l’impiego di entrambe le tecniche. Fortunatamente, i geoglifi sono sopravvissuti al passare del tempo e all’esposizione agli agenti atmosferici.
Si tratta di una figura antropomorfa situata su una collina conosciuta come la “Cerro Unitas”. Misura 119 metri di altezza ed è il più grande geoglifo conosciuto in tutto il mondo.
È caratterizzato da una grande testa quadrata e da lunghe gambe altamente stilizzate. Da ogni lato della testa del gigante è possibile notare l’uscita di quattro linee, simile a raggi luminosi.
Ad oggi, non esiste nessuna spiegazione o teoria che sveli il mistero delle strane caratteristiche di questo enorme geoglifo. Secondo l’interpretazione di alcuni ricercatori, potrebbe essere una sorta di calendario astronomico che misurava il movimento della Luna.
Un altra ipotesi propone che sia l’icona di una divinità sconosciuta venerata dalla popolazione locale. Altre teorie suggeriscono che possa trattarsi della marcatura di un percorso sacri di iniziazione, l’indicazione di un antico linguaggio o la celebrazione di un paleocontatto alieno.
Accanto al gigante è possibile osservare immagini di lama, lucertole, gatti, uccelli e pesci. In altri casi, si notano sconcertanti figure geometriche che non fanno altro che infittire l’enigma sull’interpretazione e il motivo di una tale sconcertante collezione di figure.


lunedì 10 novembre 2014

La "Nazca del Kazakistan": Scoperti più di 50 geoglifi in Asia Centrale, compresa una svastica.


Più di 50 geoglifi di varie forme e dimensioni, tra cui una svastica enorme, sono stati scoperti in tutto il Kazakistan settentrionale, in Asia centrale. La presenza di tutte queste strutture, per lo più tumuli di terra, creano un paesaggio artistico molto simile a quello visto sull'altipiano di Nazca, in Perù.




Gli archeologi le hanno subito etichettate come le “Linee di Nazca del Kazakistan”.
Si tratta di più di 50 geoglifi formati con tumuli di terra e legname, individuati nel Kazakistan settentrionale, in piena Asia centrale.
Le strutture sono realizzate in un’ampia varietà di forme geometriche, tra cui croci, quadrati, anelli e persino una svastica, un antico simbolo che è stato usato dai nostri antenati per almeno 12 mila anni.
Secondo il resoconto di Live Science, i geoglifi, molto difficili da vedere da terra, sono stati individuati grazie all’ausilio di Google Earth. Da quel momento, un team di archeologi della Kostanay University in Kazakhstan e dell’Università di Vilnius in Lituania, ha cominciato a studiare le strutture gigantesche sorvolando la zona e utilizzando un geo-radar per penetrare il terreno.
I risultati hanno rivelato la presenza di una grande varietà di forme, ampie dai 90 ai 400 metri di diametro, prevalentemente tumuli di terra. Uno di essi – la svastica – ha visto anche l’utilizzo di legno.
I ricercatori non sono ancora in grado di datare le strutture, ma le loro caratteristiche potrebbero farle risalire ad oltre 2 mila anni fa. “Ad oggi possiamo dire solo una cosa: i geoglifi sono stati realizzati da popolazioni molto antiche. Chi fossero e per quale scopo, resta un mistero”, ammettono Irina Shevnina e Andrew Logvin dell’Università di Kostanay.
La svastica è un antico simbolo trovato in tutta Europa e in Asia. ‘Svastica’ è una parola sanscrita che significa “è”, “benessere”, “buona esistenza”. È conosciuta anche in altre culture con nomi diversi, come “Wan” in Cina, “Manji” in Giappone, “Fylfot” in Inghilterra e “Tetraskelion” in Grecia.
Nel 1979, P. R. Sarkar, uno studioso di sanscrito, scrisse che il significato più profondo del simbolo è “vittoria permanente”, e che può avere un valore positivo o negativo a seconda di come viene disegnato. Nell’induismo, infatti, la svastica destrorsa è simbolo del Dio Vishnu e del Sole, mentre la svastica sinistrorsa e simbolo della malvagia dea Kali e della magia oscura.
Il doppio significato dei simboli è comune a molte tradizioni antiche, come per esempio il simbolo del pentagramma (la stella a cinque punte): il suo valore è negativo quando la punta è rivolta verso il basso, mentre è positivo quando rivolta verso l’alto.
Non è la prima volta che viene ritrovato il simbolo della svastica in un geoglifo. Alcuni di essi sono stati scoperti in Giordania e in New Mexico.
Nonostante esistano una grande quantità di studi sul fenomeno dei geoglifi, lo scopo profondo di queste incredibili creazioni scoperte in tutto il mondo continua a rimanere nascosto, alimentando una pletora di congetture.
Alcuni scienziati ritengono che essi abbiano un legame celeste con alcune costellazioni visibili nel cielo notturno. Altri pensano che le linee siano una sorta di sentiero iniziatico sacro. Altri ancora pensano che le linee abbiano a che fare con l’acqua, una sorta di invocazione per ottenere il prezioso elemento. Dunque, la questione è ancora aperta.

Pitture di 40 mila anni fa costringono a rivedere la storia dell'umanità.


Dodici disegni di mani umane e due di grandi animali, scoperti in una grotta calcarea sull'isola indonesiana di Sulawesi nel 1950, sono stati sottoposti a datazione uranio-torio, rivelando un'età di almeno 40 mila anni. La scoperta indica che l'arte indonesiana è antica quanto quella delle grotte europee dell'Era Glaciale, mettendo in discussione molte teorie finora acquisite.






La nuova datazione eseguita su alcuni disegni rupestri trovati nella grotta di Sulawesi nel 1950 dimostra che 40 mila anni fa i nostri antenati praticavano l’arte in tutto il mondo.
Dunque, le pitture rupestri non sono state una prerogativa degli uomini europei vissuti durante l’ultima era glaciale.
“Questo ci permette di allontanarci dall’idea che l’Europa sia stata speciale”, spiega a Nature News l’archeologo Maxime Aubert della Griffith University. “Si è pensato che gli europei fossero più consapevoli di se stessi e dell’ambiente circostante. Ora possiamo dire che non è vero: la capacità artistica potrebbe essere sorta indipendentemente, oppure l’uomo moderno sapeva già creare arte quando migrò dall’Africa”.
Gli archeologi hanno calcolato che una dozzina di segni di mani umane realizzate con gelso rosso e due disegni dettagliati di un animale descritto come un “maiale-cervo”, hanno un’età compresa tra i 35 mila e i 40 mila anni fa.
Questo significa che l’arte rupestre indonesiana è contemporanea a quella rappresentata dai disegni ritrovati nelle grotte di Spagna e di Francia. Anzi, una delle impronte indonesiane è ora considerata la più antica rappresentazione rupestre nota alla scienza.
“Tutto ciò non era previsto”, continua Aubert. “Guardando i dipinti, ci si rende conto che i dettagli sono davvero ben fatti. Poi, se si considera il contesto e la datazione, i disegni sembrano davvero incredibili”.


Il paleoantropologo John Shea della Stony Brook University di New York, non coinvolto nello studio, ha dichiarato che questa scoperta importante cambia ciò che la scienza pensava sui primi esseri umani e l’arte rupestre.
Prima di questo studio, i ricercatori avevano una visione “eurocentrica” di come, dove e quando l’uomo ha iniziato a creare forme artistiche. Conoscere quando è cominciata l’arte è molto importante, perché “è un aspetto che ci definisce come specie”, spiega Aubert.
La collezione nella grotta indonesiana di Sulawesi si compone di più di 100 disegni, conosciuti dai ricercatori fin dal 1950. In una spedizione del 2011, si sono notati alcuni strani affioramenti sui disegni.
Si trattava di depositi minerali accumulatisi nel corso del tempo e che hanno permesso l’utilizzo di una nuova tecnologia di decadimento dell’uranio, in modo da scoprire la vera datazione delle opere. Così, i ricercatori hanno scoperto che i minerali hanno cominciato a depositarsi sui dipinti almeno 40 mila anni fa.

giovedì 9 ottobre 2014

Gobekli Tepe è il più antico laboratorio di scultura del mondo.


Sono passati vent'anni da quando sono iniziati gli scavi archeologici di Göbekli Tepe. I risultati raggiunti rivelano che il sito è la più antica bottega di scultura del mondo. Ci si aspetterebbe di trovare sculture primitive, invece si vedono creazioni artistiche esteticamente molto avanzate.




Come ormai noto, Göbekli Tepe è un sito archeologico situato nella parte superiore di un costone di montagna nella regione sud-orientale dell’Anatolia, Turchia.
Qui si trova il tempio più antico mai scoperto (risalente almeno a 12 mila anni fa), così importante da essere considerato “il punto zero” della storia.
Da quando è stato scoperto – quasi due decenni fa – è stato oggetto di uno studio intenso da parte dei ricercatori dell’Istituto Archeologico Tedesco e del Ministero della cultura e del turismo della Turchia.
Secondo quanto riporta l’Hurriyet Daily News, i risultati più recenti di anni di scavi suggeriscono che Göbekli Tepe sia il più antico laboratorio scultoreo del pianeta, mostrando del l’uomo del neolitico era molto più raffinato di quanto si pensasse.
“Göbekli Tepe è la culla delle arti plastiche”, spiega Cihat Kürkçüoğlu, professore associato della vicina Harran University, dipartimento di Arti e Storia. “Si tratta di un tempio, ma allo stesso tempo è anche la più antica bottega di scultura del mondo. Ci si aspetta di trovare sculture primitive, invece si vedono creazioni artistiche esteticamente molto avanzate”.
Göbekli Tepe è composto da numerosi templi realizzati con pilastri dal peso compreso tra le 40 e le 60 tonnellate, assieme a numerose stele a forma di T con intricate raffigurazioni di tori, serpenti, volpi, leoni e altri animali scolpiti nella pietra.
“Questo ci ha molto sorpreso”, continua Kürkçüoğlu. “Alcune composizioni in Göbekli Tepe sono talmente buone da competere con il gusto grafico di oggi. Man mano che gli scavi archeologici andranno avanti, credo che troveremo prototipi più antichi”.
Infatti, nel corso degli scavi sono state già trovate alcune figurine di Venere risalenti a 20 mila anni da, simili a quelle trovate in Europa datate fino a 30 mila anni fa. È proprio l’età delle sculture monumentali a catturare maggiormente l’interesse dei ricercatori.
Kürkçüoğlu non ha dubbi sul fatto che i rilievi sulle stele a forma di T siano le più antiche sculture mai trovate sul nostro pianeta. Il ricercatori ha anche detto che presto gruppi di studenti universitari cominceranno a visitare il sito, così impareranno che la storia della scultura è cominciata a Göbekli Tepe: “proprio come l’alfabeto comincia con la A, la storia delle arti plastiche inizia a Göbekli Tepe”.


Göbekli Tepe, secondo la storiografia ufficiale, non dovrebbe esistere. I risultati dei test sostengono l’ipotesi che Gobleki Tepe risalga a 11 mila anni fa, ossia quasi 6 mila anni prima della comparsa delle prime civiltà nella mezza luna fertile in Mesopotamia (a lungo considerata la culla della civiltà) e ben 8,5 mila anni prima della costruzione della Grande Piramide di Cheope, diventando così il più antico esempio noto di architettura monumentale.
Göbekli Tepe, e altri siti mediorientali, stanno cambiando le nostre idee su una svolta fondamentale nella storia umana: la rivoluzione neolitica, quando i cacciatori-raccoglitori nomadi si trasformarono in agricoltori stanziali.
Gli archeologi continuano a scavare e a discutere sul suo significato: come è stato realizzato? Qual è la sua storia? Chi l’ha costruito e perché? Per certi aspetti, la struttura sembra venire fuori dalle tenebre dell’ultima era glaciale, entrando di colpo sulla scena storica.


mercoledì 24 settembre 2014

Nuove ipotesi sulla straordinaria lavorazione microscopica dei manufatti d'oro scoperti a Stonehenge.


Alcuni manufatti in oro scoperti intorno a Stonehenge nel 1808 hanno interrogato per lungo tempo i ricercatori sulla straordinaria tecnica microscopica di lavorazione. Uno studio sui manufatti ha avanzato nuove ipotesi sulla loro realizzazione.




Nel 1808, William Cunnington, uno dei primi archeologi professionisti della Gran Bretagna, scoprì quelli che divennero noti come i gioielli della corone del Re di Stonehenge.
I manufatti si trovavano all’interno di un grande tumulo dell’Età del Bronzo, a poca distanza dal famoso cerchio di Stonehenge, conosciuto come Bush Barrow.
La scoperta di Cunnington riguardava alcuni gioielli decorati, una placca d’oro che veniva applicata ad un mantello e un pugnale finemente decorato.
La lavorazione estremamente raffinata dei manufatti in oro ha interrogato i ricercatori per lunghissimo tempo. Basti pensare che la decorazione del manico del pugnale fu realizzata con il posizionamento di decine di migliaia di minuscoli singoli componenti, ciascuno lungo appena un millimetro e dal diametro di un quinto di millimetro, praticamente come la punta di un ago.
Secondo quanto riporta The Indipendent, il processo stupefacente ha richiesto il posizionamento di circa 140 mila piccole borchie dorate dalle dimensioni descritte. La prima fase della lavorazione ha comportato la produzione di un filo d’oro finissimo, spesso quanto un capello umano.
L’estremità del filo veniva appiattita per creare un perno per il fissaggio, poi veniva tagliato con una selce affilata o un rasoio di ossidiana, ad appena un millimetro dalla base. Questa delicata procedura è stata poi ripetuta letteralmente decine di migliaia di volte.
“Con un minuscolo punteruolo di bronzo venivano creati i fori per alloggiare le fibre d’oro”, scrive The Indipendent. “Poi veniva applicato un sottile strato di resina sulla superficie come adesivo per il fissaggio delle fibre. Ogni singolo elemento è stato accuratamente inserito nel suo buco, forse utilizzando una pinzetta in legno o in osso, dato che le fibre sono troppo piccole per essere inserite direttamente dalla mano dell’artigiano”.
“Stimiamo che l’intera operazione, dalla fabbricazione del filo d’oro fino al fissaggio, abbia richiesto almeno 2500 ore di lavorazione”, ha detto David Dawson, direttore del Museo del Wiltshire.
Ronald Rabbets, un esperto di ottica dell’occhio umano, esaminando il minuzioso lavoro sul manico del pugnale, ha spiegato che solo dei bambini o degli adolescenti potrebbero aver eseguito tale operazione.
Secondo quanto scrive Discovery News, se tale attività fosse stato eseguita da un adulto, le lunghe ore di lavoro ravvicinato e le continue messe a fuco avrebbero certamente danneggiato gravemente la sua vista.


lunedì 22 settembre 2014

Atlantide si trovava in Bolivia?. Le riverche di Jim Allen.


Anche se la questione di Atlantide sembra essere passata di moda, ci sono ancora ricercatori indipendenti che sono alla ricerca di prove della sua esistenza. Tra questi, Jim Allen, le cui ricerche farebbero pensare che la leggendaria città perduta si trovasse in Bolivia.




Jim Allens è un ex interprete di fotografie aeree per l’esercito britannico.
A suo avviso, l’enorme deserto boliviano di Salar de Uyuni e la vicina montagna di Pampa Auallagas, potrebbero essere il luogo dove una volta sorgeva la perduta città di Atlantide.
Analizzando le caratteristiche morfologiche del terreno circostante, Allen ha notato alcune analogie fondamentali tra questa regione e le antiche descrizione greche di Atlantide, in particolare quelle fornite dal filosofo Platone nelle opere “Crizia” e “Timeo”.
Allen conclude che l’intero Sud America sia da identificare con il continente di Atlantide, mentre l’omonima città sommersa sarebbe stata situata sull’altura di Pampa Auallagas.
Come spiega l’ex interprete, le caratteristiche del territorio da lui individuato corrispondono molto bene alla descrizione fornita da Platone. Inoltre, alcune leggende locali parlano di un diluvio avvenuto in tempo remoto, durante il quale una grande città è stata sommersa.

Dimensioni

Secondo la descrizione di Platone, il continente di Atlantide era grande quanto il Nord Africa e l’Asia messe insieme. Allen ha spiegato che è più facile immaginare una città-isola sommersa dalle acque piuttosto che l’inabbisamento di una grande massa di terra come il continente descritto.

La piana rettangolare.

Nella sua descrizione, Platone riporta di una pianura rettangolare posizionata lungo il lato maggiore del continente. Secondo Allen, questa piana è da identificare con il deserto di Salar de Uyuni, in quanto corrisponde in dimensioni a quelle fornite da Platone: “lungo 3.000 stadi e largo 2.000 stadi”. Lo stadio è un’unità di misura in uso presso l’antica Grecia e pari a circa 180 metri.
Il Salar de Uyuni è un enorme deserto di sale che, con i suoi 10.582 km², è la più grande distesa salata del mondo. Secondo le leggende Inca nel deserto vi sono gli Ojos de Salar (occhi del deserto di sale) che inghiottivano le carovane. Si tratta di buchi nella superficie salata dai quali esce l’acqua sottostante che in certe condizioni di luce sono quasi invisibili diventando così pericolosi.
Secondo quanto scrive Platone nel Timeo, la regione interna del continente era costituita da una vastissima pianura delimitata a nord da alte montagne. La pianura, quasi rettangolare, era circondata da un canale perimetrale, largo uno stadio, che consentiva di raccogliere le acque provenienti dalle montagne.

Strisce di terra divise dalle acque.

Atlantide è descritta come una serie di strisce di terra circolari separate da mare e collegate da ponti. La parte superiore della Pampa Auallagas mostra segni di anelli di terra e aqua in parte erosi.
Questo per dire che se un tempo il livello delle acque del vicino lago di Poopo erano superiori a quelle odierne, gli anelli della Pampa Auallagas sarebbero stati collegati con il lago da un canale lungo 50 stadi.

Metalli preziosi

Oro, argento, rame, stagno e il misterioso oricalco erano metalli che in Atlantide si trovavano in abbondanza, tanto da poter ricoprire le pereti del tempio e le mura concentriche che circondavano l’Acropoli.
Secondo Allen, tutti questi metalli si trovano nella zona di Pampa Auallagas. Tuttavia, gli archeologi e gli storici non sanno se il leggendario oricalco si riferisse ad un metallo di origine naturale o artificiale. Il termine in seguito è stato ripreso per altri usi. Nella numismatica, l’oricalco è una lega di rame e zinco.
Allen teorizza che l’oricalco facesse riferimento ad una lega naturale rame-oro che si trova nelle Ande, conosciuta localmente come Tumbaga, un metallo molto apprezzato nella regione nel corso della storia, in quanto più duro del rame, pur rimanendo malleabile.

Sulle montagne, vicino al mare.

Secondo le descrizioni antiche, la città-isola di Atlantide si trovava a circa 8 km dal mare. Tuttavia, allo stesso tempo, la città era posizionata a picco sul mare, circondata da montagne. Allen risolve l’apparente contraddizione facendo notare che la descrizione si adatta bene alla Pampa Auallagas, se si considera il lago salino Poopa come un mare interno. Poopo si trova a circa 8 km da Pampa Auagallas.
Inoltre, nella regione di Pampa Auagallas vi sono sorgenti naturali di acqua calda e fredda, così come riportato nelle descrizioni di Atlantide.
Leggende boliviane.
Secondo la tradizione greca, Atlantide è stata distrutta dal dio Poseidone, signore degli oceani, a causa dell’immoralità raggiunta dai suoi abitanti.
Allo stesso modo, antiche leggende tramandate nella regione di Pampa Auagallas raccontano della degenerazione morale degli abitanti locali e il conseguente diluvio inviato dal dio dell’acqua Tunupa.
Secondo le osservazioni di Allen, la catastrofica alluvione potrebbe essere stata causata dal vicino Lago Titicaca, a nord, dove un gigantesco travaso di acqua è giunto fino a Pampa Auagallas. Allen ha mostrato alcuni segni morfologici ancora visibili che indicherebbero la prova di un’antica inondazione.
Il nome di Atlantide
Prima della conquista spagnola, parte della regione di Pampa Auagallas era chiamata “Antisuyo”, parola che significava “regno del rame”. “Antis”, in lingua quechua, è la parola che indica il rame. Allen fa notare che il suffisso “antis” (Atl – antis) potrebbe risalire direttamente alla cultura antica di Pampa Auagallas.


Israele: Scoperto un monumento megalitico di 5 mila anni fa, più antico delle piramidi e di Stonehenge.


Gli archeologi dell'Università Ebraica di Gerusalemme hanno identificato un grande monumento in pietra risalente a circa 5 mila anni fa. Secondo i ricercatori, la struttura sarebbe più antica delle Piramidi d'Egitto e di Stonehenge.




A circa 13 km a nord-ovest del Mare di Galilea, gli archeologi dell’Università Ebraica di Gerusalemme hanno identificato un gigantesco monumento in pietra a forma di mezza luna.
La struttura ha un volume di quasi 14 mila m³ e una lunghezza di circa 150 metri, il che la rende più grande di un campo da calcio.
Nel corso dello scavo sono stati rinvenuti alcuni oggetti in ceramica che, secondo i ricercatori, sono databili tra il 3050 a.C. e il 2650 a.C., rivelando così che la struttura potrebbe essere più antica delle Piramidi d’Egitto e molto più antica di Stonehenge.
Come rivela Live Science, precedentemente gli archeologi credevano che la struttura fosse parte delle mura perimetrali di una città, ma i recenti scavi condotti da Ido Wachtel, ricercatore presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, indicano che non c’è nessuna città nei paraggi e che la struttura è un monumento a se stante.
“L’interpretazione proposta per il sito è che esso costituiva un punto di riferimento importante nella regione, utilizzato per segnare il possesso e l’autorità sullo sfruttamento delle risorse naturali da parte di una popolazione locale”, ha scritto Wachtel nella relazione presentata al Congresso Internazionale di Archeologia del Vicino Oriente Antico.
La forma a mezzaluna della struttura è un carattere distintivo: potrebbe aver avuto un’importanza simbolica, simile alla falce lunare, simbolo del dio Sin, una divinità lunare della Mesopotamia. Inoltre, un’antica città chiamata Bet Yerah (che si traduce “Casa del dio della Luna”) si trova a solo un giorno di cammino dal monumento.
Dunque, il monumento potrebbe aver indicato i confini del territorio di appartenenza della città. Data la sua distanza dall’insediamento urbano, è improbabile che facesse parte di un sistema di fortificazione.

Una struttura molto grande

La struttura misura circa 150 metri di lunghezza e 20 metri di larghezza alla base, mentre l’altezza sembra raggiungere i 7 metri. “Abbiamo stimato che la sua costruzione ha richiesto tra i 35 mila e i 50 mila giorni lavorativi”, ha detto Wachtel a Live Science.
Se la stima inferiore è corretta, significa che una squadra di 200 operai avrebbe avuto bisogno di più di cinque mesi per costruire il monumento, un compito che sarebbe stato difficile per un popolo che dipendeva dall’agricoltura per il suo sostentamento. “Non dobbiamo dimenticare che le persone erano impegnate per la maggior parte dell’anno nel lavoro nei campi”, ricorda Wachtel.

Bet Yerah

Al momento della costruzione del monumento, l’insediamento di Bet Yerah era situato a circa 29 km di distanza.
Secondo uno studio dettagliato condotto nel 2012, Bet Yerah era una grande città con un efficace sistema di fortificazione. I suoi abitanti commerciavano con i primi faraoni egiziani, come si è potuto appurare da diversi manufatti che riportano iscrizioni geroglifiche.
Il nome Bet Yerah indica che la città era associata al dio della Luna mesopotamico. Tuttavia, è incerto se la città portava questo nome 5 mila anni fa. Lo studio del 2012 rivela che il nome “Bet Yerah” è stato riscontrato per la prima volta in documenti rabbinici risalenti a 1500 anni fa, così che l’antica denominazione della città potrebbe essere perduta.

Paesaggio Megalitico

Non lontano dal monumento a forma di mezzaluna, sono stati trovate altre struttura in pietra di grandi dimensioni. Una di esse, denominata Rujum el-Hiri, dispone di quattro cerchi concentrici con un tumulo al centro.
La datazione di questa struttura è oggetto di dibattito; una recente ricerca condotta da Mike Freikman, archeologo presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, suggerisce che potrebbe precedere la struttura a mezzaluna di diversi secoli.
Un altro enigmatico monumento in pietra, un gigantesco tumulo da peso di oltre 600 mila tonnellate, è stato trovato di recente sotto le acque del Mar di Galilea. La data della sua creazione è sconosciuta, ma anch’essa si trova vicino a Bet Yerah.
Attualmente, le persone che vivono nella zona chiamano il monumento scoperta da Wachtel con il suo nome arabo, Rujum en-Nabi Shua’ayb.


giovedì 11 settembre 2014

Pianeta scimmia: Il lato genetico dell'intelligenza degli scimpanzé.


La variabilità delle capacità cognitive negli scimpanzé è spiegata per il 50 per cento da fattori genetici. La componente attribuibile all'ambiente è quindi rilevante, ma meno importante di quanto ritenuto finora. Il risultato apre la strada alla comprensione dell'origine genetica dell'intelligenza in tutto il gruppo dei primati e può aiutare a determinare i geni responsabili delle capacità specifiche dell'essere umano.





Alcuni scimpanzé sono più intelligenti di altri e metà della variabilità individuale che si rileva statisticamente è dovuta alla componente genetica, che si trasmette di generazione in generazione. È questa la conclusione di uno studio apparso sulla rivista “Current Biology” a firma di William Hopkins della Georgia State University, ad Atlanta, che aiuta a capire come si sono sviluppate le abilità cognitive dei primati.
Nel caso degli esseri umani, l'importanza della genetica rispetto a quella dell'ambiente nel determinare il livello di intelligenza è un tema che è stato dibattuto ampiamente nel grande alveo del dilemma “Nature vs Nurture”. Le ricerche di genetica del comportamento, in particolare con gli studi sui gemelli, in cui si misurano i quozienti intellettivi (QI) di gemelli omozigoti che hanno vissuto in famiglie diverse e li si confrontano tra di loro e  con quelli dei genitori naturali e adottivi, hanno dimostrato che le prestazioni nei test d'intelligenza di un soggetto dipendono dai fattori genetici, anche se il contributo dell'ambiente è comunque considerevole.

Il rapporto tra geni e intelligenza per altri animali invece non ha ricevuto finora la stessa attenzione. In quest'ultimo studio sono stati considerati i dati relativi alle abilità cognitive di 99 scimpanzé di età compresa tra 9 e 54 anni. I ricercatori hanno trovato che circa il 50 per cento della variabilità delle prestazioni degli scimpanzé in una serie di test cognitivi standardizzati è attribuibile a fattori genetici. In particolare, è emerso che gli animali vissuti in cattività, e quindi cresciuti e accuditi da esseri umani, non si sono comportati meglio di quelli vissuti allo stato brado e quindi svezzati e cresciuti dalla madre.

Gli studi sull'intelligenza degli scimpanzé sono importanti per capire le radici genetiche delle capacità cognitive nell'intera famiglia dei primati, e offrono un canale privilegiato per chiarire molti aspetti di questo problema. Per esempio, consentono agli studiosi di mettere da parte tutti i problemi di valutazione delle differenze socio-culturali tra i diversi individui o delle differenze nei sistemi scolastici frequentati. 

I risultati di questo studio in particolare permettono di ipotizzare che le differenze nelle capacità cognitive nei primati derivano da un comune antenato di esseri umani e scimpanzé vissuto cinque milioni di anni fa. 

“Per ora non è noto quali geni o gruppi di geni possano essere responsabili delle differenze cognitive individuali”, spiega Hopkins. “Tuttavia, cercare di capire quali siano può portarci a individuare i
cambiamenti genetici da cui possono essere scaturite alcune capacità prettamente umane”.



Natura: Luce polarizzata per l'orientamento dei pipistrelli.


Per orientarsi negli spostamenti sulle lunghe distanze, quando l'ecolocalizzazione è inutile, i pipistrelli sfruttano una bussola magnetica accoppiata a un sistema di rilevazione dello stato di polarizzazione della luce al crepuscolo. Resta però ancora da scoprire come facciano a percepire questa proprietà della luce, unici fra tutti i mammiferi.



Per orientarsi, il vespertilio maggiore, il pipistrello insettivoro della specieMyotis myotis diffuso in tutta Europa e buona parte dell'Asia, sfrutta la polarizzazione della luce, una capacità – scoperta da ricercatore della Queen’s University a Belfast e dellUniversity di Tel Aviv - che lo rende l'unico mammifero noto in grado di rilevare e usare questa proprietà della luce del cielo. 

L'uso della polarizzazione come indizio per orientarsi è abbastanza diffuso fra gli invertebrati e gli uccelli ma finora non era stato dimostrato in nessun mammifero. 

Per orientarsi e navigare nello spazio circostante i pipistrelli normalmente usano l'ecolocalizzazione, ossia la capacità di sfruttare come un radar i riflessi delle onde sonore a ultrasuoni che emettono. Questo sistema sensoriale, però, permette loro di muoversi con sicurezza in un raggio compreso fra i cinque e i 50 metri, ma non serve a nulla per spostamenti di raggio più ampio, mentre nelle battute di caccia notturne i pipistrelli volano anche a decine di chilometri di distanza dalle loro tane. 





Recenti ricerche hanno dimostrato che in questi viaggi i pipistrelli usano una bussola magnetica che tarano ogni sera, al momento della partenza, sfruttando in qualche modo la luce solare residua. In questa ricerca –pubblicata su “Nature Communications” - Stefan Greif e colleghi sono riusciti a scoprire che per effettuare questa taratura i pipistrelli usano lo schema di polarizzazione della luce, una proprietà che è possibile rilevare anche se il disco del Sole è oscurato dalle nubi. 

Per il loro studio, i ricercatori hanno collocato settanta femmine di vespertilio maggiore in appositi contenitori prima di liberarle per il loro volo notturno. Dal contenitore i pipistrelli potevano osservare il cielo al tramonto, ma davanti alle fenditure di osservazione erano stati messi dei filtri che permettevano ai ricercatori di manipolare l'orientamento della banda di massima polarizzazione. I percorsi seguiti dai pipistrelli per tornare alla tana hanno fornito la conferma cercata.

Resta tuttavia da capire in che modo i pipistrelli riescano a percepire gli schemi di polarizzazione della luce. Negli insetti, la visione della polarizzazione è infatti chiaramente collegata alla particolare struttura morfologica dei fotorecettori, ma l'identificazione di strutture dalla funzione analoga nei vertebrati che percepiscono la polarizzazione, fra cui numerosi anfibi, rettili e uccelli, è molto più problematica. E nell'unico altro mammifero che mostra una certa sensibilità alla polarizzazione, l'essere umano, sembra che essa sia legata alla distribuzione e all'orientamento dei coni sensibili al blu situati nella macula, struttura retinica di cui però i pipistrelli non sembranno essere dotati.





Scansioni radar rivelano l'incredibile impero nascosto sotto Stonehenge.


Utilizzando potenti georadar capaci di penetrare il suolo fino ad una profondità di quattro metri, un gruppo di archeologi ha scoperto un complesso di santuari e tumuli funerari che mostrano chiaramente che esistono ancora decine di monumenti sconosciuti intorno a Stonehenge.




L’enigmatico cerchio di pietre giganti di Stonehenge è sempre stato considerato dagli studiosi come un complesso isolato ai margini della piana di Salisbury.
Ma gli archeologi della Birmingham University hanno scoperto che Stonehenge è il centro di una più vasta rete di monumenti religiosi.
L’utilizzo della tecnologia di scansione radar del terreno ha permesso agli studiosi di individuare un grande complesso di santuari nascosti appena sotto la superficie.
I ritrovamenti includono l’esistenza di 17 strutture in legno o in pietra completamente sconosciute. L’indagine è durata quattro anni, con la mappatura di un area di circa 8 km², la più grande indagine geofisica mai intrapresa.
Secondo quanto riporta The Independent, la scoperta altera drasticamente l’opinione prevalente secondo cui Stonehenge sarebbe l’unico sito del paesaggio. La scoperta, invece, presenta la piana di Salisbury come un centro religioso attivo con più di 60 luoghi chiave dove i popoli antichi svolgevano i loro rituali sacri.
“Questo non è solo un altro ritrovamento”, spiega il professor Vince Gaffney, dell’Università di Birmingham. “Si tratta di un cambiamento del modo in cui interpretiamo Stonehenge”. I ricercatori hanno presentato le loro scoperte al British Science Festival di Birmingham.
Tra i ritrovamenti più significativi, la scoperta di 50 grosse pietre disposte su una linea lunga 330 metri a più di 4 metri di profondità. “Fino ad ora non avevamo assolutamente idea che fossero lì”, ha detto Gaffney. Ogni pietra è lunga circa 3 metri e larga 1,5 metri ed è posizionata orizzontalmente, anche se gli esperti non escludono che in origine fossero verticali come quelle di Stonehenge.
Le pietre dovrebbero essere state portate nel sito intorno al 2500 a.C. e pare formassero il braccio meridionale di un recinto per rituali realizzato a forma di “C”. Il monumento fu poi trasformato e reso circolare; ora è noto con il nome di “Durrington Walls” ed è stato definito il più grande complesso preistorico della Gran Bretagna: sembra fosse ben 12 volte più vasto di Stonehenge.
Sono stati anche dissotterrati enormi pozzi preistorici, alcuni dei quali sembrano avere legami astronomici e solari con Stonehenge. “Stonehenge è chiaramente parte di una struttura rituale molto grande, capace di attirare persone provenienti da molte regioni del paese”, continua Gaffney.


Un’altra scoperta significativa è una collinetta situata tra Walls Durrington e Stonehenge, che poi si è rivelata essere una struttura in legno battezzata “Casa dei morti”. Gli archeologi hanno trovato tracce di pratiche rituali che prevedevano la scarnificazione del defunto, rito durante il quale la pelle e gli organi del defunto venivano rimossi.
Il team di ricerca è ora impegnato ad analizzare i dati, nel tentativo di ricostruire esattamente come i popoli del neolitico e dell’età del bronzo abbiano usato il complesso di Stonehenge. Utilizzando modelli computerizzati, si sta cercando di capire in che modo erano collegati tra loro tutti i monumenti scoperti.
Al momento, le strutture non possono ancora essere datate con precisione, almeno fino a quando non verranno scavate, e qualsiasi decisione in merito spetta all’English Heritage.