giovedì 21 febbraio 2013

Fotografia naturalista: Konrad Wothe. (Germania).





Da bambino Konrad Wothe preferiva costruire i giocattoli da sé, oppure stare all'aria aperta, nel giardino dei suoi genitori.
"Ho amato la natura e gli animali sin da principio", racconta.
"A otto anni iniziai a fare delle foto, con una macchina fotografica molto semplice. I miei primi soggetti furono i gattini di casa. Poco più avanti, provai a costruirmi una rudimentale macchina fotografica di legno, e anche un'ingranditore per il laboratorio di sviluppo e stampa in bianco e nero che avevo organizzato in cantina.
A scuola vinsi un premio a un concorso, con un modello di macchina fotografica reflex di medio formato a obiettivi intercambiabili che funzionava davvero ed era interamente costruito in legno.
In uno degli anni successivi, vinsi il primo premio costruendo una macchina fotografica panoramica a 360°".






Dopo essersi diplomato, Wothe lavorò come cameraman per il connazionale Heinz Sielmann, che si occupava di documentari sulla natura, ma poco dopo decise di voler diventare anche lui regista di documentari e fotografo naturalista.
Prima di inaugurare la propria attività di fotografo, tuttavia, seguì i corsi di Biologia e Comportamento Animale all'università di Monaco, che si dimostrarono un'ottima base di partenza per il lavoro che svolge attualmente.
Tra il 1984 e il 1992, Wothe, in collaborazione con Michael Herzog, si dedicò prevalentemente alla cinematografia, sia come produttore sia come cameraman.
Lavorava con una telecamera Beaulieu da 16 mm, che gli consentiva di reagire rapidamente a ciò che accadeva sul campo e di documentare la vita degli animali nel modo più spontaneo possibile.






Alcuni dei film da lui girati in India, Costa Rica, Madagascar ed Europa sono stati trasmessi alla televisione sia in Germania che all'estero.
Nel 1995, Wothe decise di sospendere l'attività cinematografica e di dedicarsi esclusivamente alla fotografia, che sentiva ormai come la sua passione dominante.
"Da quel momento ho fatto moltissime spedizioni fotografiche, che mi hanno portato ovunque, fino all'Antartide", dichiara.











"Ho trovato particolarmente affascinanti le foreste pluviali: dopo i tre documentari per la Tv che avevo realizzato in India e Costa Rica, sono tornato due volte nelle foreste pluviali del Borneo e di Sumatra per un libro sugli oranghi che ho pubblicato nel 1996 in Germania. 
Poi ho organizzato altre spedizioni nelle foreste di Irian Java per fotografare gli uccelli del paradiso e gli uccelli giardinieri.





Mi auguro che le mie foto contribuiscano ad accrescere la consapevolezza di tutti riguardo all'importanza di questo splendido habitat, fondamentale per il clima e per l'umanità.
Con le mie immagini, cerco di comunicare le caratteristiche essenziali di un certo animale, di una certa pianta o di un paesaggio.
Voglio che chi li guarda sperimenti la stessa emozione che ho avvertito io quando mi sono trovato di fronte quell'animale, quella pianta o a un'altra qualsiasi meraviglia della natura.
Spero che le mie foto inducano sempre più persone ad amare la natura, perché credo che solo chi ama la natura sia disposto a proteggerla, e a trattarla con rispetto che merita".




Africa: Regni nigeriani.

"Quando il palazzo di un re brucia, quello che prenderà il suo posto sarà ancora più bello".
(proverbio yoruba, Nigeria).





La foresta nigeriana ha visto il succedersi di diversi regni, fra loro connessi, che hanno lasciato importanti testimonianze artistiche.
Stretti sono i rimandi fra il regno di Ife (X-XV secolo), il regno di Benin (XIV-XIX secolo) e quello di Oyo (XVII-XIX secolo).
Tutti trovano la loro origine mitico-religiosa in Ife: da lì passa l'"ombelico del mondo", il punto in cui su incarico del dio del cielo Olorum è discesa la divinità Obatala ( o secondo altre versioni, il fratello minore, l'usurpatore Oduduwa, primo re di Ife e progenitore dell'umanità) per stabilire la terraferma sulla palude originaria.
Di lì sono partiti i sedici figli di Oduduwa per fondare altrettante città yoruba.
La città di Ife probabilmente doveva il suo potere alla mediazione commerciale fra le foreste meridionali, il Medio Niger e vie trans-sahariane.
La sua graduale estromissione da questo circuito, a vantaggio dei regni di Benin e di Oyo, potrebbe spiegarne il declino.





Quello della città di Benin era invece un regno di popolazione deo ma retto da un re divinizzato ( oba ) la cui dinastia era di origine straniera; il primo re della linea regnante sarebbe infatti venuto da Ife, perché inviato a dirigere la città degli anziani stanchi del malgoverno della dinastia precedente.
La sua estraneità contribuisce ad accrescere la sacralità del suo potere.
I poteri dell'oba includevano la sfera legislativa, esecutiva e giudiziaria.
Poteva decretare le esecuzioni capitali, era proprietario di tutte le terre del regno e aveva il monopolio del commercio estero.





Statua di Oni, Ife (Nigeria), XIV-XV secolo. Museo Nazionale.


Questa statua che misura 47 cm, rappresenta il sovrano di Ife (Oni) nella tenuta per il cerimoniale dell'incoronazione.
Le corone degli Oni di Ife sono di diversa forma ma presentano tutte un emblema a cresta sulla fronte.
L'importanza del personaggio è sottolineata dalla profusione dei giri di perline: alle caviglie intorno al collo e sul petto.
Nella mano sinistra stringe un corno di bufalo contenente sostanze magiche.
Nella mano destra porta un'insegna di legno rivestita di tessuto ricoperto di perline.





Testa coronata, Ife (Nigeria). XII-XV secolo. Museo Nazionale.


Nel volto si ritrova il naturalismo idealizzato dell'arte di Ife.
Le forme sono piene, i tratti del volto distesi, la bocca carnosa, gli occhi a mandorla, senza rappresentazione della pupilla.
Caratteristiche che si sarebbero poi trasferite alla successiva scultura in bronzo.
La corona di forma conica, si compone di diversi cerchi di perline cilindriche mentre i capelli sono raccolti in treccine che scendono sulla nuca.
Sulla fronte appaiono le tracce dell'attaccatura di un ornamento centrale che è andato perso, probabilmente simile a quello che possiamo vedere su altre teste e figure in bronzo.



Testa commemorativa, regno di Benin (Nigeria), XV-XVI secolo, Lagos, 
Museo Nazionale.


Un elemento centrale della simbologia del potere, come già a Ife, era rappresentato dalle teste in bronzo poste sugli altari reali.
Si tratterebbe di rappresentazioni commemorative o trofei di guerra: a partire dalle teste dei nemici più pericolosi uccisi si sarebbero realizzate delle fusioni in ottone poi collocate sugli altari della guerra o inviate ai successori dei capi sconfitti per dissuaderli dal ribellarsi.



Londra: Il più grande archivio archeologico del mondo.




Il London Archaeological Archive and Research Centre (LAARC), parte del Dipartimento degli archivi e delle collezioni archeologiche del Museum of London, è entrato ufficialmente nel Guinness dei Primati come il più grande archivio archeologico del mondo.
Il LAARC è pieno di tesori nascosti: gli oltre 5 milioni di reperti e le documentazioni di quasi 8.500 scavi rendono questi archivi una miniera d’oro. 
Nelle 120.000 scatole disposte su 10 chilometri di scaffali ci sono scarpe che vanno dall’epoca romana ai giorni nostri, un paio di denti finti di 200 anni, ampolle di streghe (una delle quali completa di denti umani e unghie dei piedi) e ossa di animali esotici. 

Roy Stephenson, responsabile degli archivi e delle collezioni archeologiche del Museum of London, ha dichiarato: 

“Una cosa che rende unica Londra è la sua ricca archeologia. L’ambiente fradicio è ideale per conservare oggetti organici, da abiti in pelle a legno e ceramiche, monete e ossa, tutti presenti nel nostro archivio”.





mercoledì 20 febbraio 2013

Proposte editoriali: Cinzia Galletto. "Prospettive di viaggio nella geografia dell'invisibile".




Viaggiare per sognare viaggiando, entrare in punta di piedi nell'universo delle emozioni scoprendo passo dopo passo il proprio mondo interiore.
Senza migrare in terre lontane, basta lasciarsi andare e anche il giro dell'isolato sotto casa può diventare un'esperienza da assaporare attraverso le nostre sensazioni.
Non serve andare lontano per fare un viaggio che sia un'esperienza in grado di arricchirci interiormente.
Il viaggiare è un atteggiamento dell'anima: la voglia di scoprire ed il piacere di lasciarsi stupire anche solo dai dettagli o dalle sfumature più banali che un luogo può offrire.
Pietre silenti, templi dalle atmosfere arcane riprendono vita se, chi li osserva, li sa vedere con occhi che travalicano la dimensione del tempo per approdare nella terra del sempre fatta di geografie invisibili ed energie sottili.
Un viaggio vissuto in questa dimensione ci porta soprattutto ad entrare dentro le nostre emozioni e attraverso le sensazioni date dai luoghi, scoprire angoli di noi prima sconosciuti.
"viaggiando alla scoperta del mondo troverai il continente che è in te stesso".
"Prospettive di viaggio nella geografia dell'invisibile" di Cinzia Galletto è un libro per scoprire, riscoprire o semplicemente rendere consapevole l'azione del mettersi in cammino.
Ricordate che nel passato sin dai primi miti si è affrontato il tema del viaggio in tutte le sue sfaccettature.





Aprire le pagine della storia e verificare che ogni epoca storica, ogni periodo ha prodotto un modo particolare di viaggio.
Indagare nelle filosofie e sulle motivazioni psicologiche che ci aprono al "non conosciuto".
Pagina dopo pagina ci si rende conto di fare un viaggio nel viaggio: nei suoi simboli, attraverso antiche tradizioni e attraverso il pensiero di uomini protagonisti della storia del pensiero.
"Il Grande viaggiatore è colui che sa disgelare l'invisibile dei luoghi, colui che sa vedere la realtà apparente" Leonardo Sciascia.
"La vita è un viaggio, viaggiare è vivere due volte", Oman Khayyam.
"Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi". Marcel Proust.





Cinzia Galletto.
Giornalista di stampa turistica, collabora con riviste di turismo e benessere.
E' autrice di diversi libri editi da Touring Club e Mondadori riguardanti le tematiche turistiche nei diversi aspetti sociologici, antropologici e semiotici.
E' titolare della Blu Communication, la prima società torinese per la comunicazione integrata del turismo termale e del benessere.
Crea nel 2012 www.turismodelbenessere.it portale dedicato alle vacanze e alle destinazioni più esclusive fra Spa, terme e centri Benessere.
Si definisce Giornalista, communicatrice per natura, viaggiatrice e fotografa per passione.


Egitto: Scoperta una necropoli nel tempio di Amenhotep II.




Una missione archeologica italiana ha scoperto una necropoli risalente al 1.075-664 a.C. all’interno della tempio di Amenhotep II della diciottesima dinastia, situato sulla riva occidentale di Luxor.

Lo rende noto il ministro delle antichità egiziano Mohamed Ibrahim, spiegando che la missione guidata da Angelo Sesana ha scoperto nelle tombe resti di bare in legno con decorazioni in rosso e nero e dodici vasi canopi raffiguranti i quattro figli di Horus.


martedì 19 febbraio 2013

Le statue "di Ovidio".





Il cenacolo dei grandi poeti latini d’età augustea, da Ovidio ad Albio Tibullo, riprende vita alle porte di Roma, a Ciampino. Una scoperta che gli archeologi definiscono “eccezionale”.
È la villa romana attribuita a Marco Valerio Messalla Corvino, console insieme a Ottaviano e comandante nella battaglia di Azio del 31 avanti Cristo. Ma soprattutto mecenate di poeti e intellettuali d’età augustea che hanno scritto la storia della letteratura classica.
A restituire la villa, citata dalle fonti e il cui riferimento a “Valerii Messallae” deriva dai bolli sulle tubature, è il quartiere termale, dove gli ambienti sfoggiano frammenti di mosaici. Ma a confermare che si tratta del tesoro di Messalla potrebbe essere un altro ambiente, distante alcune decine di metri: la natatio, la piscina all’aperto lunga oltre venti metri, con le pareti dipinte di azzurro. Dall’interno della vasca sono riaffiorate una serie di sculture straordinarie. Sette statue integre, con alcune mutilazioni ricostruibili, di oltre due metri d’altezza. Un repertorio statuario che illustra il mito di Niobe e dei Niobidi.
“Una di quelle scoperte che capita una sola volta nella vita di un archeologo”, racconta Aurelia Lupi, guida, sotto la direzione scientifica di Alessandro Betori, dell’équipe della Soprintendenza ai beni archeologici del Lazio che tra giugno e luglio scorsi hanno avviato una campagna di sondaggi preventivi su un’area interessata da un progetto di edilizia sulla via dei Laghi all’interno dei cosiddetti Muri dei Francesi, una proprietà privata corrispondente al Barco dei Colonna. L’area è la stessa finita di recente sulle cronache per la triste vicenda del Portale di Girolamo Rainaldi, il maestoso ingresso barocco crollato e lasciato in stato di abbandono.



“Statue di Niobe ne sono state trovate in passato, ma nel caso di Ciampino abbiamo buona parte dell’intero gruppo”, sottolinea la soprintendente Elena Calandra: “Sette statue d’età augustea complete, ma anche una serie di frammenti che possono essere ricomposti”. Capolavori che mettono in scena la tragedia del mito, la punizione della superbia di Niobe. “Queste statue entreranno nei manuali di storia dell’arte classica” aggiunge Calandra.
Le meraviglie del circolo di Messalla dovevano ornare i quattro lati della piscina e un basamento in peperino al centro della vasca. Sono rimaste inviolate sotto terra per secoli, probabilmente dopo che un terremoto nel II secolo le ha fatte precipitare sul fondo della vasca.
“Le sculture ci offrono nuove testimonianze sull’iconografia di Niobe” dice Alessandro Betori, direttore scientifico degli scavi. “Nel gruppo spiccano due figure maschili di giovani colti nell’atto di osservare l’eccidio dei fratelli che appaiono a tutt’oggi inediti. E soprattutto, la villa da cui provengono appartiene a Messalla, protettore di Ovidio. Non è un caso che la descrizione più vivida del mito di Niobe si trovi proprio nel suo capolavoro, le Metamorfosi. Da assiduo frequentatore del circolo, il poeta avrà forse avuto modo di vedere il gruppo dei Niobidi in tutto il suo splendore e di rimanerne ispirato”. Oppure, potrebbero essere stati i versi del poeta a suggerire a Messalla il tema del gruppo scultoreo che doveva impreziosire la piscina della villa.
Dalla scultura alla poesia, insomma. Ora servono risorse per restaurare e valorizzare le opere.




Messico: Un sacrificio di massa nell'antico Messico.





In un antico luogo di culto del Messico centrale, gli archeologi hanno riportato alla luce oltre 150 crani, che testimoniano uno dei più vasti sacrifici umani di massa della Mesoamerica precolombiana. 
I crani, molti dei quali rivolti verso est, giacevano sotto un leggero rilievo di pietre frantumate su quella che un tempo era un’isola artificiale nel mezzo di un vasto lago dalle acque poco profonde, e oggi completamente asciutto. 
“Il sito era una leggera collinetta all’orizzonte nel mezzo del nulla”, racconta l’archeologo Christopher Morehart della Georgia State University. Si tratta di un elemento piuttosto sorprendente, dal momento che finora questo genere di sacrifici sono stati rinvenuti presso maestose piramidi di grandi insediamenti cerimoniali. 

La scoperta suggerisce che il sito, situato nei pressi di Xaltocan (città che prende il nome da un antico lago), ha svolto un ruolo significativo nel periodo di disordini compreso tra gli anni 650 e 800 dopo Cristo. 

La grande città di Teotihuacan, a soli 15 chilometri di distanza dal luogo, aveva improvvisamente cominciato a perdere importanza, e il potere che una volta esercitava sulla regione stava venendo meno. Molti esperti ritengono che questo stato di cose è stato innescato da un grave e prolungato periodo di siccità.

Ciò che seguì fu un’epoca di “cambiamenti politici, culturali e demografici”, secondo Morehart, un ricercatore di National Geographic. Gli abitanti iniziarono ad abbandonare Teotihuacan per trasferirsi nelle zone circostanti, e i leader delle nuove comunità così formatesi,  cominciarono ad entrare in competizione per il potere. “C’è una buona probabilità che i sacrifici umani siano legati a questa lotta”, ha affermato Morehart.
Gli individui sacrificati potrebbero anche essere prigionieri di guerra, un’eventualità frequente nelle culture mesoamericane. Il sito dei sacrifici, però, non era un campo di battaglia. Più probabilmente era uno spazio sacro appositamente preparato per i rituali.
Chi ha vissuto in questa zona sembra aver eseguito nel sito sacro elaborate coreografie rituali, ma senza effettuare sacrifici umani prima della caduta di Teotihuacan. Il santuario doveva essere il luogo preposto a cerimonie per l’invocazione della pioggia e della fertilità e strettamente correlato alla presenza di sorgenti di acqua dolce nelle vicinanze. I manufatti scoperti sul luogo includono, infatti, immagini di argilla di Tlaloc, il dio della pioggia.
I rituali cominciarono a includere sacrifici con il precipitare delle condizioni ambientali della regione: siccità e lotte di potere. Morehart e i suoi colleghi dell’Università Nazionale del Messico ritengono che una volta uccise le vittime i loro corpi siano stati poi  smembrati. Parti del corpo potrebbero essere state gettate nel lago, mentre le teste sono state disposte con cura e sepolte. Durante questa cerimonia veniva bruciato incenso insieme al legno resinoso dei pini, e si profumavano le esalazioni di fumo anche utilizzando fiori. Come offerte supplementari durante il rito erano bruciati alimenti come il mais.
Nel corso dei secoli seguenti  si assistette all’avvicendamento di nuove popolazioni e cambi al vertice del potere politico, ma nonostante questo la sacralità del sito persisteva. Morehart e il suo team hanno trovato testimonianze  in loco del perdurare dei rituali sia durante il periodo azteco che quello coloniale, e anche offerte più recenti.
“Mentre stavamo scavando abbiamo trovato una busta di plastica nera. Dentro c’erano un uovo sodo, una candela nera, e alcune foto di persone”, ha confermato l’archeologo. “Questo è un esempio affascinante di attività rituale costante in un luogo, nonostante i drammatici cambiamenti in contesti sociali, politici e culturali”.

sabato 16 febbraio 2013

Francia: Raffinati artisti di 30.000 anni fa. Uno studio francese conferma il primato dei pittogrammi della grotta di Chauvet.






Le prime pitture dell'uomo hanno circa 30.000 anni e sono quelle che decorano la grotta di Chauvet, nella Francia meridionale.
Messo in discussione a causa della sofisticata tecnica pittorica, che non ha riscontri in altri reperti coevi, il primato è stato confermato dalla ricostruzione e datazione delle frane che ne hanno bloccato l'accesso per oltre 20.000 anni.
La conferma, indipendente dalla datazione al radiocarbonio, viene da uno studio condotto da ricercatori dell’Università de SavoieCRNS/e dell’Aix-Marseille Universitè  di cui riferisce un articolo pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”. 
Per risolvere la questione i ricercatori, coordinati da Benjamin Sadier, hanno combinato analisi geologiche e datazione basata sul cloro 36 e sono riusciti a dimostrare che le pitture risalgono ad un periodo compreso fra 32.000 e 30.000 anni fa, al periodo Aurignaziano.
E' questa la risposta ad alcune recenti teorie che attribuivano le pitture di Chauvet ad una cultura più recente, come quella del periodo Magdaleniano (fra 17.000 e 12.000 anni fa). Teorie, osservano gli autori dello studio, dettate più da considerazioni legate alla complessità delle pitture rupestri di Chauvet e al loro stile più che a criteri oggettivi di datazione. La scoperta ha importanti implicazioni sull'evoluzione delle capacità cognitive dei nostri antenati.
A dispetto delle polemiche sulla loro datazione, le straordinarie pitture che decorano le pareti della grotta di Chauvet, nella regione francese dell'Ardèche, sono la più antica, e la più raffinata, manifestazione di arte pittorica rupestre conosciuta. 
La grotta di Chauvet è un sito di eccezionale interesse per lo stato di conservazione delle bellissime pitture che ne ornano le pareti, per i temi pittorici raramente presenti in altri siti, come le raffigurazioni di felini e rinoceronti, ma anche per la maestria con cui gli autori hanno padroneggiato una tecnica pittorica che non si riscontra in alcun altro sito di arte rupestre del Paleolitico. 
Difatti, sulla base della sola analisi stilistica, inizialmente le pitture di Chauvet erano state fatte risalire a un periodo relativamente recente, compreso fra il Solutreano, fra i 22.000 e i 17.000 anni fa, e il Magdaleniano, fra i 17.000 e i 10.000 anni fa. In seguito, però, la datazione al radiocarbonio aveva stabilito una collocazione temporale molto anteriore, compresa fra i 32.000 e i 30.000 anni fa.




venerdì 15 febbraio 2013

Luoghi: Utah. Zion National Park.





Profondamente scavato nell'angolo meridionale dell'altopiano di Markagunt, lo Zion Canyon, racchiuso nel più antico parco dello Utah, vanta pareti rocciose a strapiombo tra le più alte d'America, alcune delle quali misurano oltre 600 metri dalla sommità alla base. Sono monumenti naturali di commovente bellezza, che mostrano con orgoglio i toni di rosa, rosso e arancio dell'arenaria Navayo, l'elemento da cui prende vita questo suggestivo scenario.
Lo Zion, oasi di verde in una profonda trincea di arenaria, è oggi quanto resta dell'erosione di un deserto pietrificato.
Anche qui le rocce hanno natali antichissimi.








Milioni e milioni d'anni fa materiali sedimentari, fango e sabbia si depositarono nell'immensa palude che occupava il territorio e furono ricoperti da altra sabbia portata dal vento.
Continuarono poi ad accumularsi strato su strato, mantenendo un'altezza costante, poiché, nello stesso tempo, la massa, per il suo enorme peso, sprofondava nella melma.
In seguito un mare sommerse tutta la zona.
Compressi dall'acqua i materiali depositati nella palude, grazie anche al contributo dei sali e dei minerali in essa disciolti, si saldarono formando la roccia.
Lo Zion è diventato parco nazionale il 19 novembre 1919 per proteggere il Canyon da speculazioni commerciali.
I suoi confini furono allargati nel 1956 con l'annessione del territorio dello Zion National Monument.




Oggi occupa un'area di 586 chilometri quadrati.
Lo Zion è aperto tutto l'anno, ma in estate le temperature sono elevate: di giorno raggiungono i 40°C e di notte si abbassano fino a 21°C.
Inoltre sono molto frequenti i classici temporali pomeridiani, di breve durata, ma di cui bisogna in ogni caso tenere conto nel preparare l'attrezzatura per le escursioni.
I periodi migliori per visitare il parco sono quindi la primavera, caratterizzata da temperature più fresche e l'autunno.
Da aprile a giugno i prati sono coperti da splendidi fiori selvatici, mentre da settembre a ottobre i colori autunnali accendono la valle e i fianchi del Canyon.
Durante l'inverno la neve imbianca le cime del parco e ricopre di un sottile strato il fondo del Canyon.
Quattro sono le strade del parco: la Mt. Carmel Hwy, la Scenic drive, la Kolob Terrace Road e la Kolob Canyons Road.









Sono strade strette. battute dal vento e spesso anche ripide, fatte per poter ammirare il panorama e non per l'alta velocità.
In inverno sono mantenute costantemente pulite dal ghiaccio e dalla neve ad eccezione della Kolob Terrace Road, che viene chiusa al traffico.
Prima di intraprendere qualsiasi itinerario o passeggiata, è importante fare una sosta a uno dei due centri d'informazione: lo Zion Canyon Visitor's Center, sulla Scenic Drive e il Kolob Canyons Visitor's Center sulla Kolob Canyon's Road, aperti tutto l'anno.
In entrambi potete ricevere informazioni, chiedere backcountry permits, comprare libri, mappe, opuscoli illustrativi ed infine conoscere le attività organizzate dai ranger, che in genere includono gite guidate, dibattiti o conferenze su argomenti inerenti al parco.








Allo Zion Canyon Visitor's center, più grande e con un maggior afflusso di turisti, si può inoltre visitare un piccolo museo ed assistere a proiezioni.
Se avete bambini in età compresa tra i 6 e i 12 anni, recatevi allo Zion Nature Center, situato vicino al South Campground, accanto all'entrata sud, dove tra maggio e settembre si organizzano gite guidate, attività e corsi vari dello Junior Ranger Program.