mercoledì 31 ottobre 2012

Africa: Potere e società, le società segrete.

"il leone che caccia per uccidere, non ruggisce"
(proverbio toucouleur, Senegal)




Le associazioni segrete sono spesso meno segrete di quanto si creda.
Forse, almeno in certi casi, sarebbe più appropriato parlare di "società chiuse" in quanto, se le possibilità di accedervi sono limitate e fortemente regolate attraverso riti iniziatici, i membri che ne fanno parte sono in realtà conosciuti da tutti.
D'altra parte la loro stessa chiusura è selettiva, volta ad esempio all'interno del gruppo sociale di appartenenza ma non ad altri gruppi con i quali si stabiliscono invece alleanze.
Il segreto riguarda piuttosto ciò che si fa all'interno dei luoghi di riunione e le fonti magico-sacrali del potere dell'associazione.
Tuttavia, anche in questo caso, occorre sottolineare che l'efficacia del segreto come fonte del potere dipende proprio dal fatto che l'atto del nascondimento sia noto.
Spesso in realtà del contenuto del segreto può essere molto banale o consistere semplicemente nel fatto che non esiste nessun segreto.
Sovente la maschera è lo strumento attraverso cui associazioni segrete e iniziatiche esercitano il loro potere, sanzionando le trasgressioni alle regole ed esercitando il controllo sociale.
In particolare è uno dei modi attraverso cui gli uomini esercitano la propria autorità sulle donne e sui ragazzi, dando un fondamento extra-umano al loro potere.
Anche in questo caso tuttavia, tutti in realtà sanno chi si cela sotto la maschera e il "segreto" si basa su di un gioco condiviso dalle parti, dove ciascuno "recita" il ruolo a cui è tenuto.





Maschera Poro, Mano (Costa d'Avorio) collezione privata.

Nell'associazione iniziatica Poro che è diffusa tra diverse popolazioni della Sierra Leone, Guinea, Liberia e della Costa d'Avorio ( Mende, Kpelle, Senufo, Mano e Vai ) le maschere hanno un importante ruolo.
Il Poro è un'istituzione che si fa carico dell'iniziazione e della formazione dei giovani che possano trasformarsi in adulti responsabili e in grado di assolvere ai loro doveri sociali.
Le maschere della società intervengono in tutti i momenti salienti della vita comunitaria e oltre che ai riti di iniziazione presenziano ai funerali, alle celebrazioni per la fine del lutto e ai riti agrari.




Maschera Tsesah, Bamilake ( Camerun ), Zurigo, Rietberg Museum.

In alto: Si tratta di un cimitero portato sul capo, con il volto e il corpo poi nascosti da un costume.
Il centro principale di produzione e forse di origine di queste maschere sembra essere il regno bamikele di Bandjoun.
Qui sono usate dai membri della società segreta Msop come strumenti di controllo sociale.
Si esibiscono molto raramente in situazioni rituali ( intronizzazione e funerali ) legate alla figura del sovrano e degli altri dignitari di corte.
Al centro: gli occhi privi della pupilla, donano alla figura un aspetto spettrale; la sua espressività, il fatto che comunque uno sguardo vi sia, deriva dal minaccioso movimento impresso dalla superficie concava e aggettante della sopracciglia.
Come è frequente nell'arte del Grassland camerunese le guance sono gonfie e prominenti, e la bocca aperta a mostrare una gran fila di denti.
In basso: la maschera rappresenta la testa di un ippopotamo che emerge dalle acque, animale che costituisce il "doppio" di un grande dignitario.
La scultura è articolata in due parti: il piano orizzontale della parte inferiore del volto verticale, dato dalla proiezione delle enormi sopracciglia.
La forza della figura risiede nel gioco ritmico di linee e volumi, che mantengono un'unità d'insieme pur nella scomposizione analitica del volto in forme geometriche.






martedì 30 ottobre 2012

Le grandi scoperte: Mary Leakey e le impronte di Laetoli. 1978.





Nel 1978, la squadra di Mary Leakey, scoprì a Laetoli, nei pressi di Olduvai in Tanzania, tracce parallele di orme fossili di ominidi.

Circa 3,6 milioni di anni fa, almeno due individui si diressero a nord attraverso questo altipiano circondato da vulcani, lasciando le loro impronte nella cenere caduta da poco e resa umida da una leggera pioggia.
Con il tempo la cenere si essiccò e si indurì conservando intatte le tracce; quindi gli strati di cenere prodotti da nuove eruzioni le ricoprirono, contribuendo a conservarle.
Messe a nudo dall'erosione di milioni di anni, le impronte sembravano lasciate il giorno prima.
Era tutto perfettamente visibile: arco del piede, tallone arrotondato, rotondità ben definita, alluce puntato in avanti.
Era anche molto visibile la pressione che indicava un'andatura decisa.
Le impronte di una serie erano più grandi delle altre e appartenevano a un ominide alto forse un metro e quaranta; l'altro ominide, di un metro e venti circa, sembrava avesse camminato qualche passo avanti.
Ce n'era poi almeno un altro che seguiva a qualche metro di distanza.




"Può essere  che il più alto fosse un uomo, e l'altro invece una donna?" , si chiedeva Mary Leakey. "Oppure si trattava di un adulto e di un adolescente?, non credo che riusciremo mai a scoprirlo con certezza".
Ma in uno di questi gesti fossilizzati a Mary sembrava di intravedere un "momento d'incertezza".
A questo punto, infatti, l'ominide più basso doveva essere fermato e girato verso sinistra, "per controllare forse un pericolo in arrivo o un'irregolarità", ipotizzò Mary.
"Questo movimento così pienamente umano va al di là del tempo".
Qualunque cosa noi possiamo immaginare su questi esseri intenti ad attraversare la savana, dalle loro impronte una cosa appariva perfettamente chiara: camminavano eretti e affrontavano il loro mondo stando comodamente su due piedi.
Le impronte misero anche a tacere un futile dibattito che si trascinava oramai dai tempi di Darwin: quale aspetto degli ominidi si sviluppò per primo, il cervello più grosso o la postura eretta? Questi scimpanzé intelligenti che 3,6 milioni di anni fa attraversarono la piana di Laetoli dimostrarono la priorità della postura eretta, la quale probabilmente favorì lo sviluppo del cervello come conseguenza del fatto che a quel punto dell'evoluzione le mani erano libere: ciò è quanto sosteneva una teoria che venne rafforzata da questa scoperta.
Infatti, realizzando strumenti, portando in braccio i bambini e svolgendo altri compiti manuali, gli schemi celebrali ebbero forse modo di affinarsi.




Gli esseri che avevano lasciato le impronte di Laetoli potevano essere simili a Lucy? Hadar e Laetoli sono distanti più di millecinquecento chilometri, e le orme in questione erano più antiche di 400.000 anni rispetto a quelle impresse dagli ominidi di Hadar.
Eppure molte similarità accumunavano i fossili di quest'ultimo sito e gli ominidi di Laetoli che hanno la stessa età delle impronte ritrovate.
Le somiglianze sono tali e tante che nel 1978 Don Johanson e un suo collega, Tim White ( che operava in un sito nella regione di Afar, 70 chilometri a sud di Hadar), battezzarono una nuova specie, l'Australopithecus afarensis, che comprendeva tutti i fossili, sia di Hadar sia di Laetoli.
Secondo quanto comunicarono, si trattava dell'antenato comune dell'Homo e dei più recenti australopitecini come l'Australopithecus africanus e l'Australipithecus boisei.
Sull'albero genealogico la folla delle Lucy occupava tutto il tronco.
Alcuni scienziati dissentivano da questa interpretazione e nessuno più di Mary e Richard Leakey, i quali credevano che alcuni fossili di entrambi i siti appartenessero a forme primitive di Homo.
Altri scienziati si chiedevano, inoltre, il perché delle differenze così marcate riscontrabili nelle dimensioni degli ominidi di Hadar.
Al contrario di quanto avviene nelle favole, però, è probabile che questa ricerca del nostro primo antenato non abbia un finale ben chiaro.




La possibilità che un fossile di ominide possa sopravvivere per milioni di anni è minuscola e, anche nel caso fortunato, è ancora più remota la possibilità che un ricercatore di fossili riesca ad avvistare un reperto del genere.
Nel migliore dei casi il solo assemblaggio dei pezzi della storia è un processo discontinuo, perché ci sono stagioni fruttifere e stagioni magre.
Le carrière molto produttive, come quella di Mary Leakey, rallentano con l'avanzare dell'età, oppure vengono sostituite da altre passioni: nel caso di Richard Leakey, per esempio, dallo studio della condizione della fauna selvatica in Africa.
Negli anni ottanta, la pista degli afarensis si rffreddò, poiché la situazione politica instabile tenne Johanson e gli altri fuori dall'Etiopia, ma saltuariamente alcuni scienziati
 in dissenso hanno provato a rifarsi agli alberi evolutivi teorici quando sono stati rinvenuti nuovi fossili di ominidi.






Perù: La Fiesta de la Virgen del Carmen.




Ogni anno Paucartambo si prepara per sei mesi alla Fiesta de la Virgen del Carmen, una festa che è essenzialmente una celebrazione femminile.
La leggenda narra che una ricca ragazza, in viaggio per Paucartambo per vendere un vassoio d'argento, trovò una bella testa, priva del corpo, e la depose sul vassoio, scoprendo così che dalla testa emanavano raggi di luce.
Da quel momento la testa fu collocata su un corpo di legno appositamente costruito e onorata con preghiere e incenso.
La fiesta, piena di vitalità e in certi momenti ipnotica, solitamente si protae per tre o quattro giorni ( in genere 16-19 luglio ).
Vi partecipano gruppi locali di danzatori e musicisti in costume tradizionale; vicino alle chiese spuntano barcarelle del mercato.







Le strade risuonano del clamore delle esibizioni dei musicisti e dei ballerini che indossano maschere e vestiti elaborati; la maschera più famosa è quella di  Capaq Negro, dal nome di uno schiavo africano che lavorava nelle vicine miniere d'argento.
Di grande impatto è la parodia dei "poteri" dell'uomo bianco, rappresentata da artisti coperti da grottesche maschere con gli occhi azzurri e costumi stranieri.
La malaria è uno dei temi ricorrenti.
Un vecchio sembra sul punto di morire, quand'ecco un medico occidentale che brandisce l'immancabile siringa.
In realtà, se egli riesce a salvare il paziente è solo per il fortuito scambio delle prescrizioni, operato dai suoi assistenti che danzano: la natura fatalista della cultura andina trionfa sulla scienza.
Il sabato pomeriggio si svolge la processione de la Virgen del Carmen, accompagnata dalle lamentose melodie della banda di ottoni, mentre sull'immagine della Vergine ricadono petali di fiori, grida e preghiere.



 

La sacra immagine è il simbolo della devozione cristiana e anche del culto di Pachamama, la Madre Terra.
La celebrazione culmina la domenica pomeriggio con le danze dei "guerrieros", in cui il bene trionfa sul male, allontanandolo per un anno intero.




lunedì 29 ottobre 2012

Il redazionale più bello: Samira Menezes, L'ammazzateci tutti degli Indios brasiliani.


Da "L'altra città": Corriere della Sera.


Per uno straniero, a Milano, è facile trovarsi di fronte alla parola integrazione, in senso metaforico ovviamente. Si notano tante cose, tanti esempi, a volte ben riusciti a volte no, o non ancora. Ma in questi giorni la parola integrazione mi fa pensare al mio Paese, il Brasile, dove sta accandendo un fatto molto grave.
L´8 ottobre, dopo aver ricevuto da un giudice l’ordine di espulsione dalla terra dove vivevano in condizioni estremamente precarie, un gruppo di 170 indigeni Kaiowá/Guarani ha annunciato in una lettera di non voler lasciare quella terra da loro considerata sacra. Si trovano ai margini di un fiume nella città di Iguatemi, nello Stato del Mato Grosso del Sud (centro ovest brasiliano) e nella lettera scrivono:
“Chiediamo al Governo e alla Giustizia Federale di non decretare l’ordine di espulsione, ma decretare la nostra morte colettiva e seppellire tutti noi qui. Chiediamo, una volta per tutte, di decretare la nostra estinzione totale, oltre a enviare diversi trattori per fare un grande buco dove poter seppellire i nostri corpi. Questa è la nostra richiesta ai giudici federali”.
Gli índios aprono così la possibilità a un finale tragico a una storia che da secoli viene scritta in un modo molto triste. Storia che è stata trattata anche dal regista italiano Marco Bechis nel film La terra degli uomini rossi, uscito in Italia nel settembre di 2008. Se da un latto il governo brasiliano, condizionato dafazendeiros interessati a sfruttare la terra con il bestiame, la soia e la legna, ignora alcuni dei diritti più basilari di questi esseri umani, come il diritto a un luogo dove vivere; dall’altro lato, gran parte dell’opinione pubblica resta in silenzio perché la realtà di questi indigeni è molto distante della vita quotidiana di grandi città come San Paolo e Rio de Janeiro.
E mentre per questi índios uscire della propria terra significa migrare nelle città dove probabilmente saranno obligati a mendicare e prostituirsi, restare dove sono nati significa convivere con la paura.
Circondati dai killer assoldati dai fazendeiros per sgomberare le terre, gli índios Kaiowá/Guarani sono vittime di violenza quotidiana. Sembra incredibile, ma la soluzione per molti di loro è il suicidio: dal 1986 a settembre del 1999, 308 indigeni di età fra 12 e 24 anni si sono tolti la vita impiccandosi a un albero o avvelenandosi. E dal 2000 al 2011 più di 500.
La stessa soluzione che ora minacciano questi 50 uomini, 50 donne e i loro 70 bambini che il Brasile del “Carnaval” non permette che si integrino nella propria terra.

La redazione di "Scientia Antiquitatis" premia "L'ammazzateci tutti degli Indios brasiliani", di Samira  Menezes, come il più bel redazionale della settimana.
Se il lettori desiderano commentare l'articolo lo possono fare a scientiantiquitatis@gmail.com.
I commenti verranno pubblicati alla fine del post.


Ma è possibile che non si possa fare niente?
Sandra

E lo chiamano paese democratico.
Luigi

La frase storica del Ministro brasiliano Helio Jaquribe del 1993: "Dobbiamo farla finita con gli Indios entro il 2000".
Nel mondo ci sono tante etnie che stanno scomparendo.
Sono favorevole a salvare tutte le specie animali del mondo ma sono anche favorevole a salvare tutte le etnie del mondo.
Cinzia

Ho documentato per lavoro l'etnia Guaranì nel 1997. E già al tempo erano molto in difficoltà.
Adriano

E' tutto molto triste...
Claudia






domenica 28 ottobre 2012

Racconti di viaggio: Nepal, un viaggio in cima al mondo.

Scoscese bianche, rocce brulle e brune, abitazioni in pietra e tradizioni millenarie. Il Nepal, un quadrilatero di circa 140 chilometri quadrati, è terra di miti e di popoli.
A dominare lo scenario ci sono gli oltre 1.300 monti dell'Himalaya, la catena che si estende a braccia aperte nella parte settentrionale del Paese.



 


La magia di cime bianche con ghiacci perenni intrappolate in un paesaggio montuoso di grande impatto.
Il mito dell'Himalaya e il fascino di luoghi remoti e inaccessibili, in cui il progresso sembra storia d'altri tempi.
Il Nepal è un Paese unico, a metà strada tra India e Cina, un sottile rettangolo di terra dominato dalle rocce e grande quasi la metà dell'Italia.
Io ci sono andato.



 


Iniziare a visitare questo Paese vuol dire prima di tutto imparare a conoscere le radici.
Quelle del Nepal sono ben radicate nelle balconate che dominano il Gangapurna; nella vallata, nascosta da montagne che superano i 7.000 metri d'altezza, l'azzurro del lago, formato dal ritiro del ghiacciaio spezza un paesaggio dominato dal calore brullo della roccia.
Un'altalena di scalini tagliano il panorama, nel quale si distinguono le bandiere buddiste di preghiera e una caratteristica tenda di pastori.
Percorrendo le rive di Langtang, ho potuto notare la flora locale.
Il paesaggio cambia repentinamente e quella che era roccia si trasforma nell'ambiente tipico
della foresta pluviale, fatto di muschi, licheni e orchidee selvatiche.
La storia del Nepal è travagliata: l'unità politica della regione fu raggiunta solo nel 1970 quando il Re Gurkha sottomise i regni di Katmandù, Bhadagaon e Patan.
La Gran Bretagna nel 1816 vi istituì un protettorato commerciale fino a quando nel 1846 la famiglia militare dei Rana sostenuta dall'Inghilterra esautorò di fatto il sovrano, assumendo ereditariamente la carica di Primo Ministro.
I Rana detennero il potere anche dopo la proclamazione dell'indipendenza nel 1923, ma vennero rovesciati nel 1951 da un colpo di stato che mirava a introdurre una monarchia costituzionale.
Nei primi anni sessanta furono vietati i partiti politici e fu istituito un regime basato sui consigli notarili.
Il 1972 vede l'ascesa al trono di re Birendra, ma la crisi economica e l'assolutismo di regime avevano generato una situazione di forte tensione sfociata in sanguinose rivolte nel 1985 e nel 1990.
Nel 1991 il Nepal ha visto una cauta riapertura alle regole democratiche con la reintroduzione dei partiti politici e una rilettura della costituzione.



 


Il mio viaggio comincia sotto i ghiacci, nella regione situata a ridosso della catena dell'Himalaya, una sottile lingua di terra chiamata "Rolwaling" (solco) dagli abitanti del luogo.
Una serie di villaggi popolano l'area che si appoggia dolcemente alle cime più alte del mondo.
Ma quello del Rolwaling e tutt'altro che un passaggio uniforme.
La regione può essere divisa, proprio per le sostanziali differenze territoriali, in un area meridionale, in cui si alternano campi terrazzati e boschi di rododendri giganti ( laliguràs), ed un'area settentrionale, più popolosa e vivace.








Qui, nella terra dominata dalla leggenda dello yeti, è possibile riconoscere numerosi "gampa" (monasteri), con la loro architettura essenziale e semplice.
Per raggiungere le cime più alte dell'Himalaya c'è solo una via: il trekking.
Le vette, consigliate solo agli alpinisti più esperti, per molti tratti sono prive di passaggi delineati.
Ho deciso: io comincio a passeggiare e dove arrivo...arrivo.
Per fortuna mi hanno detto che lungo il cammino potrò approfittare di alcune abitazioni locali, i lodge adibiti a rifugio. E siccome io sono uno che spesso se ne approfitta, dopo due ore di cammino sono già in un lodge.
Il giorno dopo inizia il vero trekking che mi porterà sino alla valle di Gokyo dopo tre giorni di cammino.
Duro, ma il paesaggio è incredibile. Mi sento vicino a Dio.
Raggiunta la valle numerosi sentieri aprono ai miei occhi incredibili vedute dell'Everest che da solo ripagano la fatica.
Arrivato a Mon-La avverto la sensazione che la salita sia finita: sono immerso in un bosco che, disteso sul letto del fiume, mi fa perdere quota sino all'uscita dalla radura per ammirare in tutto il suo splendore la "Dea Turchese"; così i nepalesi chiamano il Cho Oyu, cima di oltre 8.200 metri.





 


Vedo la cima da giù e mi basta. So che con un altro giorno di cammino mi potrò avvicinare sempre di più alla cima, ma quello che vedo in questo momento ha già dell'incredibile, non mi voglio "far male" ulteriormente.
Il Nepal non è solo l'Himalaya, così il mio viaggio prosegue con un taglio diverso.
Mi voglio godere le tre città più grandi del Paese.
Nella valle di Katmandu, apprezzo le linee medioevali di Bhaktapur.
A dominare la cittadina è l'architettura orientale del XVII secolo, portata dalla dinastia dei Malla, che in quel periodo dominavano le terre che attualmente costituiscono il Nepal.
Qui visito: la piazza principale, Durbar Square, nella quale si affacciano una miriade di templi e statue antichi.







 


Poi faccio rotta verso Terai, per gettarmi nella bellezza del Royal Chitwan National Park; il parco naturalistico nepalese, un tempo riserva di caccia della corona inglese, conserva numerose specie in via di estinzione, tra cui elefanti, rinoceronti, tigri e leopardi.
E dopo aver fatto un giro nelle curiose stradine di questa cittadina, mi preparo a fare ingresso a Katmandu; nella capitale, più moderna e sviluppata, si ispira un'atmosfera meno tradizionale di quella che regna invece in tutti gli altri centri nepalesi.
Se passate da queste parti consiglio a tutti i lettori di Scientia Antiquitatis di visitare la zona chiamata Thamel, piena di mercati molto economici.
Dopo aver acquistato dei prodotti locali, ho chiuso gli occhi, sono tornato con la mente al bianco dei ghiacciai, alla maestosità dell'Everest, ai boschi di orchidee, e mi è venuto quasi a pensare che questo Nepal sia più grande di quanto non mostri la cartina geografica.






Scienza-natura: Il delfino beluga che imitava l'uomo.




Gli uccelli non sono i soli animali che imitano la voce umana: anche alcuni mammiferi marini ci riescono. Ascoltare per credere.
Ha vissuto per trent'anni al National Marine Mammal Foundation di San Diego, in California, e si chiamava NOC - ma per i ricercatori è il "cetaceo parlante".
Gli studiosi si sono accorti di questa straordinaria capacità nel lontano 1984, quando udirono delle voci provenire dai pressi della vasca di NOC, anche se attorno non c'era nessuno.
"Si udiva una specie di conversazione, anche se non si riusciva a distinguere si che cosa si stesse parlando", dice Sam Ridgway dello U.S. Navy Marine Mammal Program di San Diego, che ha condotto uno studio sulle vocalizzazioni del cetaceo.
Alla fine, la fonte del chiacchiericcio venne definitivamente confermata quando un sub che si trovava nella vasca del beluga udì distintamente qualcuno ordinargli di uscire da li: era NOC, che ripeteva un suono simile alla parola inglese out - fuori.




"Non avevo mai sentito niente del genere, per me era un'assoluta novità", dice Ridgway.
Il beluga abbassa la voce per sembrare più umano
Negli anni Ottanta, Ridgway ha registrato le vocalizzazioni di NOC, scoprendo che il ritmo e la frequenza si avvicinavano a quelle della voce umana.
"Quei suoni che imitavano il parlato erano alcune ottave più basse rispetto a quelli emessi di solito dai cetacei", racconta Ridgway, il cui studio è stato pubblicato solo ora sulla rivista Current Biology.
Verso la fine degli anni Ottanta, dopo quattro anni, NOC smise le sue "imitazioni": probabilmente, secondo Ridgway, perché aveva raggiunto la maturità sessuale (NOC è poi morto nel 2007).
Anche secondo il biologo marino Peter Tyack della University of St. Andrews in Scozia, che non ha partecipato allo studio, NOC adottava le intonazioni della parlata umana. L'importanza di questa ricerca, afferma Tyack, è che dimostra come un animale possa, semplicemente ascoltando, produrre suoni del tutto estranei al suo repertorio".
Tyack ritiene però che le imitazioni di NOC fossero meno fedeli all'originale di quelle di Hoover, una foca allevata da una famiglia umana del Maine negli anni Settanta, la quale, all'età di cinque anni, iniziò a imitare le parole umane.
"Hoover aveva persino l'accento del Maine", ricorda Tyack, che ebbe modo di conoscerla.
Perché ci imitano?




Non sappiamo ancora perché un mammifero marino decida di imitare l'uomo, benché la capacità di riprodurre la voce umana sia una conseguenza della più ampia tendenza a imitarsi fra di loro, ipotizza Tyack. I delfini ad esempio imitano il richiamo identificativo l'uno dell'altro, mentre le megattere imparano i canti delle loro simili.
È assai improbabile, aggiunge lo studioso, che NOC o Hoover capissero il senso dei suoni che emettevano.
"L'unico caso in cui è dimostrato che l'animale capiva il senso delle parole che imitava è quello di Alex, un pappagallo cenerino", racconta Tyack.
Addestrando NOC a tollerare un piccolo apparecchio situato nel suo canale nasale, Ridgway e il suo team hanno scoperto che il beluga produceva quegli strani suoni riempiendo le sacche aeree a una pressione di gran lunga maggiore rispetto a quella usata per le normali vocalizzazioni.
Ecco perché la testa di NOC si gonfiava visibilmente quando "parlava". "Per un cetaceo sembra che la voce umana sia molto difficile da imitare", dice Ridgway.




Etruschi: Marineria e pirateria

"I popoli dell'Italia chiamarono uno dei due mari Etrusco, l'altro Adriatico da Adria, colonia degli Etruschi; e per la stessa ragione i Greci li chiamarono "Tirreno" e "Adriatico". ( Livio ).



 


Legata a un'antica vocazione nautica, la talassocrazia ( il dominio sui mari ) viene riconosciuta agli Etruschi sin dall'età del Ferro: lo storico siciliano Eforo informa che pirati tirreni infestavano le acque della Sicilia ancora prima della fondazione delle prime colonie greche.
Ma già nelle intenzioni di Eforo la definizione di "pirati" tradisce la volontà di mettere in cattiva luce la famigerata marineria etrusca anche per un periodo in cui l'attività "di corsa" rientra nei costumi di tutte le società aristocratiche ( quella etrusca come quella omerica ), confondendosi con le sfere dello scambio.
Se a simili scorrerie, più che a guerre organizzate, gli Etruschi devono l'espandersi della propria signora sul mare, l'altra è la situazione in età storica.
La rivalità con i Greci ( soprattutto quelli in Sicilia ) e la propaganda negativa che ne consegue, nascono dal condiviso interesse per un controllo delle rotte che garantisca ( a suon di reciproci attacchi ) migliori approdi e più ricche stazioni di scambio.
Un'aspra lotta che contrappone Etruschi e Greci d'Occidente ( con l'inserimento di Cartagine e Atene ) in scontri che definiscono le sfere di influenza.
Nel lasso di tempo compreso tra la battaglia del Mare Sardo e quella di Cuma, il raggio di navigazione etrusca si riduce nel basso Tirreno, ma si consolida verso nord, tra Populonia, lo scalo di Genova e l'area di Messalia.
La nuova situazione nell'ambito dello spazio mediterraneo conduce anche a spostare il fuoco degli scambi via mare verso l'Adriatico, attivando la nuova realtà politica dell'Etruria padana che prende le redini dei rapporti con Atene.






Aristonoto, cratere con scena di battaglia navale, da Cerveteri, metà VII secolo a.C., Roma, Musei Capitolini.


Il vaso, rinvenuto a Cerveteri, è stato eseguito e firmato da Aristonoto, un artigiano greco che lavora per la committenza cerite.
Le fonti iconografiche permettono di farsi un'idea della forma delle imbarcazioni, in questo momento navigli con scafo rotondo, prua aguzza e poppa alta e curva.
La presenza dello sperone, insidiosamente posto sotto la linea di galleggiamento prevede una tecnica di assalto che mira alla distruzione del nemico, più che alla sua cattura.
La scena del lato sinistro del vaso raffigura una battaglia navale: gli armati sono trasportati da imbarcazioni diverse, quella di sinistra con prua rostrata e rematori, quella di destra più grande e rotonda, forse una nave da carico.



Hydria a figure nere, 520-510 a.C., Toledo, Museum of Art


La pirateria è uno degli strumenti con cui gli Etruschi affermano la propria forte volontà di controllo delle rotte marittime, garantendosi i migliori scali e le stazioni di scambio più vantaggiose.
L'immagine della pirateria etrusca diviene esemplare anche a causa della lettura che ne forniscono le fonti greche, ovvero quella che si potrebbe definire la "propaganda della concorrenza".
In alto al vaso, gli autori classici, soprattutto quelli influenzati dalla storiografia sceliota, tramandano un'immagine dei pirati etruschi che include la crudeltà e il cannibalismo.
Al centro del vaso sotto il tritone che nuota sulla spalla, e richiama l'ambiente marino, la scena principale raffigura il momento della metamorfosi degli uomini delfino che si tuffano in mare.
Il tralcio di vite sulla sinistra allude alla presenza divina di Dionisio.



Elmo con dedica a Zeus dal santuario di Olimpia 474 a.C., Londra British Museum

Rinvenuto nel santuario panellenico di Olimpia, in Grecia, l'elmo reca un'iscrizione che recita: "Ierone figlio di Deinomenes e i Siracusani a Zeus, dal bottino fatto sugli Etruschi a Cuma".
Corsi in aiuto di Cuma, i Siracusani, che secondo lo storico Diodoro "umiliarono i Tirreni e liberarono i Cumani dai loro terrori", infliggono il colpo finale al predominio degli Etruschi sul basso Tirreno.
Il carattere"simbolico" dell'elmo spiega anche perché Ierone, signore di Siracusa, lo scelga come dono e ringraziamento a Zeus per la vittoria ottenuta sulle navi etrusche nella battaglia di Cuma.
Questa tipologia di elmo, estremamente diffusa e utilizzata nel mondo etrusco, giunge ad assumere quasi il carattere di un emblema nazionale, tanto da comparire anche sulle monete di alcune città.