domenica 2 dicembre 2012

Le grandi spedizioni: Sylvia Earle, a guardia del pianeta acqua.





Correva l'anno 1970.
L'esplorazione lunare, divenuta un'attività quasi banale, era all'apice: gli astronauti erano gli eroi del momento.
Poi, in un giorno memorabile dello stesso anno, cinque donne percorsero Wall Street e Broadway, ricevendo l'omaggio tipicamente americano di una parata trionfale prima di essere ricevute alla Casa Bianca.
Che cosa avevano fatto per meritarsi gli onori generalmente riservati a personaggi come gli astronauti di ritorno dalla Luna o alle squadre di baseball vincitrici del torneo autunnale?
La risposta potrebbe sorprendere: avevano vissuto per due settimane in un alloggiamento di quattro vani collocato a 15 metri di profondità, a 950 chilometri di distanza dalle coste delle Isole Vergini.
Le componenti di questa missione tutta al femminile, la sesta di undici incluse in un progetto denominato "Tektite II" (dal nome delle tectite, noduli vetrosi di probabile origine meteoritica, reperibili sulla Terra e sui fondali oceanici), mangiavano e dormivano pochissimo, imparando cose che soltando vivendo nel mare si potevano apprendere: le dinamiche delle popolazioni di aragoste, la vulnerabilità dei reef corallini e la comunicazione sonora usata dai pesci.







La loro partecipazione al progetto Tektite, simile per molti aspetti al progetto Conshelf di Cousteau, ma più strettamente legato al programma spaziale degli Stati Uniti, era dovuta alla tenacia e all'entusiasmo della caposquadra, la quale, grazie alle ore trascorse sulla superficie o sul fondo del mare, alla fine era riuscita a meritarsi da parte dei media i titoli di "Sua Profondità" e di "General Storione".
Cresciuta in una fattoria del New Jersey, all'età di dodici anni Sylvia Earle si trasferì con la famiglia a Clearwater, in Florida.
Con il Golfo del Messico come nuovo orizzonte, l'interesse naturalistico di Sylvia si concentrò sul mare.
Appena sedicenne, cominciò a lavorare per lo Stato della Florida.
Con il Golfo del Messico come nuovo orizzonte, l'interesse naturalistico di Sylvia si concentrò sul mare.
Appena sedicenne, cominciò a lavorare per lo Stato della Florida imparò a immergersi e ben presto si specializzò nello studio della flora subacquea.
Il matrimonio e la gravidanza non le impedirono di organizzare spedizioni sottomarine in tutto il mondo, in collaborazione con il fotografo Al Giddings, che riuscì a catturare svariate immagini del suo lavoro pionieristico.











Le settimane trascorse nel Tektite II furono per Sylvia la dimostrazione dei vantaggi che si poteva ottenere rimanendo immersi a una profondità costante, dove era possibile compiere esplorazioni senza la necessità di decompressione.
Sembrava tuttavia assiomatico il fatto che tutti gli esploratori degli abissi desiderino spingersi sempre più in profondità.
La Earle non faceva eccezione, salvo che per il rifiuto di essere una spettatrice all'interno di un veicolo sottomarino.
Entrò allora in scena il Jim suit, la "Tuta di Jim", una sorta di abitacolo di forma vagamente umana e del peso di una cinquantina di chilogrammi, il cui bizzarro appellativo derivava dal nome di Jim Jarrat, un subacqueo che nel 1935 aveva usato una versione primitiva di questa creazione simile appunto a una tuta spaziale.





Piuttosto ingombrante, il Jim suit era dotato di un cavo che lo collegava alla superficie, esattamente come l'obsoleto scafandro con il casco, ma consentiva ai sommozzatori di spingersi più in profondità rispetto a quest'ultimo perché contrastava gli effetti della pressione e garantiva un'atmosfera simile a quella superficie; inoltre era dotato di un respiratore che aggiungeva ossigeno ed eliminava chimicamente il biossido di carbonio.
L'operatore del Jim suit poteva afferrare gli oggetti per mezzo di articolazioni riempite di liquido e di "mani" a forma di pinza.
Questo dispositivo era già stato usato da altri subacquei, principalmente per operazioni di salvataggio o per attività petrolifere in alto mare.
La Earle era ansiosa di condurre personalmente un Jim suit sul fondo del mare per sperimentare l'utilità nella ricerca, ma non voleva essere limitata dalla necessità di un collegamento con la superficie.
Nel 1979, appoggiata tra gli altri dalla Society e dalla Hawaii University, la biologa riuscì a ottenere l'uso di un Jim suit dalla Oceaneering International, mettendo in moto l'avventura scientifica più rischiosa di tutta la sua carriera.
Scelse una base per le operazioni a 10 chilometri dall'isola hawaiiana di Oahu, progettando di scendere legata alla parte anteriore del sottomarino di ricerca Star II, appartenente all'Università delle Hawaii.





A causa di problemi di comunicazione con il sottomarino, i primi due tentativi andarono a vuoto, ma il terzo funzionò.
La Earle potè allontanarsi dal mezzo di immersione rimanendo collegata, invece che a una nave in superficie, al piccolo sottomarino, tramite una cima di nylon lunga cinque metri e mezzo, intorno alla quale era avvolto un cavo di trasmissione.
Con il suo primo passo sul fondo dell'oceano, 380 metri sotto la superficie, Sylvia Earle divenne il primo essere umano ad aver camminato a una tale profondità senza alcun collegamento con l'atmosfera.
Tenendo in mano una bandiera della National Geographic Society identica a quella che era stata portata sulla luna, paragonò il paesaggio che la circondava a quello del nostro satellite, benché l'ambiente marino pullulasse di vita: "Un piccolo cerchio di luce proveniente dallo Star II illuminò per la prima volta una dozzina di granchi con vivaci striature rosse e lunghe zampe, che ondeggiavano sui rami di una gorgonia rosa, un piccolo pesce-lucerna, scuro e lucente, che schizzò subito via atterrito dalla luce, un pesce di un brillante color arancione e molte pennatule leggere come piume attaccate al fondale roccioso, quasi impossibili a vedersi".
In tutta la sua carriera la Earle aveva messo la sua esperienza al servizio della protezione del mondo sommerso.





Come primo scienziato della Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), all'inizio degli anni novanta si occupò di tenere sotto controllo lo "stato di salute" delle acque della nazione.
Ora, a metà del suo incarico quinquennale come esploratrice, si è nuovamente immersa, questa volta nell'ambito del progetto denominato "Sustainable Seas Expeditions", "Spedizioni Marine Possibili", e sponsorizzato dalla Society, dalla Noaa, e dal Richard and Rhoda Goldman Fund.
Il programma unisce la tecnologia sottomarina di avanguardia allo studio degli ecosistemi nelle dodici riserve subacquee americane, che equivalgono a parchi nazionali.
A 64 anni, dopo aver accumulato più di 6000 ore di immersione ed essere stata nominata dal Time's "eroe del pianeta", Sylvia Earle è l'immagine della Rolex e possiede ancora la curiosità e l'entusiasmo che aveva quando, diciottenne, si tuffò per la prima volta nel Golfo del Messico.


Video: Il profilo di Sylvia Earle.




Video: Sylvia Earle per Rolex.