giovedì 13 dicembre 2012

In viaggio con Roberto Czeppel: Kenya, incontro con i Masai.






Sono un naturalista e mi sarebbe piaciuto saperne un po’ di più del perché i colori della zebra sono così contrastanti. 
Gli etologi dicono che il mantello della zebra serve per confondere i predatori, che essendo daltonici faticano a distinguere il soggetto da catturare a causa della confusione che si verifica durante un inseguimento, se osservate un branco di zebre all’abbeverata ed all’improvviso comparisse un leone provocando lo scompiglio nel gruppo, noterete che si fa fatica a focalizzare la direzione di 2 esemplari che dovessero prendere improvvisamente direzioni diverse. 
Durante un viaggio in Kenya mi sono recato in una tribù Masai dove ho incontrato Munkadi che è lo sciamano ed è il più vecchio di questo villaggio situato nei pressi del parco Amboseli. 
A lui ho rivolto una precisa domanda: perché la zebra è bianca e nera? Stimolato dalla mia curiosità Munkadi apre la sua memoria narrandomi di una antica storia che le madri raccontavano ai bambini per farli addormentare, più o meno come facevano le nostre mamme prima dell’avvento della televisione.







Il vecchio nell’esprimersi usa spesso dei modi di dire farciti con proverbi e strane espressioni non sempre facili da interpretare, un po’ come tra il popolo pelle-rossa, che per rappresentare il vocabolo “bugiardo” si esprimeva con una frase complessa come “tu parli con lingua biforcuta”. 
Questo intricato linguaggio mette a dura prova qualsiasi traduttore, inutile dire che alla fine del racconto un bel mal di testa è di rigore. 
Prima di iniziare la novella il vetusto Masai si accende una piccola pipa, i suoi gesti sono lenti ed antichi come le sue innumerevoli rughe che guizzano e si contraggono come il cuoio di un mantice screpolato. Dopo una lunga aspirata seguita da una pausa, comincia ad uscire dalle sue labbra grinzose un filo di fumo che da origine ad una grossa nuvola azzurrina dietro la quale il volto dell’anziano si mimetizza riapparendo dopo il diradarsi del fumo come una visione magica. 
Comincia dicendo, quello che ti sto raccontando non è pura fantasia ma un tempo le cose erano proprio così come si narra nella antica leggenda della zebra (legend kale pundamilia): c’era un tempo, molte e molte lune fa, nelle zone assolate nel nord dell’altopiano keniano, le zebre, queste vivevano tranquille e numerose, avevano un mantello tutto nero per non essere sensibili ai raggi del sole. 







I leoni che si trovavano in gran numero anche nella parte settentrionale del paese, non cacciavano mai le zebre perché la loro carne era insipida. Con il trascorrere degli anni le zebre scesero sempre più a sud, verso i grandi pascoli dei laghi salati, dove l’erba era molto tenera e ricchissima di sali. Alla sera, dopo avere pascolato per la sterminata savana, le zebre si radunavano in gruppi per riposare.
Il sudore che si era accumulato sulla loro pelle, asciugandosi sopra il lucido mantello nero
gli lasciava delle belle striature di sale bianco, bianco come la neve lucente del
Kilimangiaro. 
I leoni che non avevano mai visto un animale con quella strana livrea bianca e nera, decisero di catturare un esemplare per assaggiarne la carne che trovarono molto gustosa. 
Da allora le zebre durante la sera, quando sono sudate dopo una corsa, si strofinano sul terreno per togliersi di dosso il sale, sperando così di non essere il probabile futuro banchetto del re della foresta. 
Ciò detto l’anziano sciamano mi porge un piccolo pezzo di pelle di zebra dicendomi, assaggia, in effetti la zona bianca era decisamente saporita a differenza della nera. 
Gli stringo la mano ringraziandolo per il tempo che mi aveva dedicato, congedandosi Munkadi si volta verso di me dicendomi, non dimenticare è tutto vero, “parola di Masai”.







Mi dirigo verso la macchina per tornare al camp, appoggiato alla portiera c’è Monga
Ketambe, indossa la classica tunica di tessuto rosso, ha una figura alta e slanciata ed il collo
è adornato da una miriade di collanine, al polso ha un orologio senza lancette, gli chiedo cosa se ne fa se non può controllare l’ora, mi risponde che gli piaceva il cinturino, ogni commento sarebbe stato superfluo.
E’ il maestro, fa da insegnante ad un nugolo di bimbe e bambinetti chiassosi che lo attendono all’interno di un recinto. Mi invita ad assistere ad una lezione, ci dirigiamo in quello che loro considerano la scuola, fatta semplicemente da un perimetro di cespugli di acacia, al centro un grosso albero fa da tetto e ripara dal sole, da un chiodo infisso nel tronco penzola cullata dal vento una vecchia lavagna. 
L’eccitazione degli alunni è visibile, è uno dei momenti più piacevoli della giornata perché tutte le lezioni vengono impartite cantando al ritmo di un batti mano e con l’accompagnamento di rudimentali tamburi ricavati da grosse latte vuote. 
Il maestro scandisce il ritmo con la bacchetta. 
L’inizio è un coro ordinato, poi le voci da sommesse si fanno più esuberanti ed allegre in un andari vieni di acuti. 









Una ritmica cantilena si adatta alla matematica e alla sue semplici tabelline, il piacevole ritmo musicale entra nella mente dei bambini che inconsciamente assimilano la lezione in modo gradevole. Il canto si fa più mesto alla fine della lezione che termina sempre con la canzone del ringraziamento, le cui parole dicono: grazie Mungo (Dio) che mi hai dato le gambe per camminare, grazie per gli occhi con i quali vedo, grazie per le mani e per la buona salute, grazie Mungo per avermi creato e per tutto quello che mi hai dato. 
La lezione è finita e ogni alunno si dirige verso la sua capanna.







La scuola si svuota lentamente e sotto l’enorme acacia la polvere rossastra sollevata dal
vento forma una specie di nebbia che filtrata dai raggi del sole tra le fronde dell’albero
simula le vetrate di un’antica cattedrale gotica. Alunni sperduti in una landa desolata, sopra
di loro il cielo dell’Equatore e sotto i piedi scalzi la terra rossa d’Africa, forse è solo qui, in
questa semplice scuola che si può imparare a cantare l’unico vero libro della vita. 
Confesso che sono emozionato, mentre torno alla mia vettura noto sullo sfondo il Kilimangiaro e gli occhi di fronte a questo spettacolo diventano lucidi e mi ritorna alla mente…ma questa è un’altra storia.