venerdì 30 novembre 2012

Fotografia Naturalista: Mitsuaki Iwago. (Giappone).





Nato a Tokyo nel 1950, Mitsuaki Iwago è cresciuto in città e si formò guardando documentari in Tv e studiando attentamente libri fotografici e riviste come Life.
Da giovane ebbe la possibilità di lavorare con suo padre, fotografo naturalista lui stesso e, dopo il diploma al college, intraprese la stessa carriera.
Viaggiatore infaticabile, con un repertorio che comprende luoghi assai diversi come le isole Galapagos e la pianura del Serengeti, Iwago ha scattato fotografie premiate in 70 Paesi in trent'anni.
Le sue opere sono apparse i numerose riviste, inclusi il National Geographic, Paris Mach e Life.








"Come fotografo naturalista cerco di essere attento ed efficace nel catturare le immagini", dice, "ma tengo sempre in mente che osservando gli animali è importante non cambiare il loro modo di vita. Ho ripreso i pinguini perché volevo documentare come essi vivono nell'Antartide, deponendo le uova, covandole e crescendo i pulcini.
Ho fotografato canguri perché volevo capire come questo marsupiale si è evoluto in modo così singolare nell'isola-continente dell'Australia.
Fui affascinato dalle balene perché erano così grandi, ma quando le fotografai compresi che che l'Oceano nel quale vivono è molto più grande.
Mi diede il desiderio di esplorare altri mari.









"In tutte queste occasioni ebbi fiducia nelle mie sensazioni.
I cinque sensi dell'uomo hanno drasticamente ridotto la loro efficacia, ma la natura ha il potere di restituirceli.
Quando schiaccio il pulsante dell'otturatore della mia fotocamera, ho completa fiducia nel fatto che questi sensi afferrino immagini di animali selvatici in continuo movimento.
E' questa accresciuta consapevolezza di essere vivi e parte della natura che mi fa continuare a lavorare come fotografo naturalista".








Egitto. Mondo dei morti: Morire per ringiovanire.

"Egli sarà sepolto e si riunirà alla terra; il suo nome però sarà cancellato in terra, ma ci si ricorderà di lui per le sue virtù".
(L'oasita eloquente).




Una delle concezioni più originali elaborate dal pensiero religioso egiziano è certamente quella relativa alla morte.
Essa era percepita come una fondamentale cesura nel corso dell'esistenza, ma non era considerata come un annientamento definitivo e veniva intesa come un mutamento che aveva nel ringiovamento e nella rigenerazione le sue dinamiche fondamentali.
Tanto per le divinità quanto per gli uomini la caducità del creato sottoposto alla progressiva erosione del tempo era eludibile soltanto attraverso un processo costante di morte e rinascita.
Questo fattore implicava una concezione dell'esistenza caratterizzata da un rinnovamento continuo, come mostravano in modo pregnante la natura con i suoi cicli stagionali e il sole con l'alternanza dell'alba e del tramonto.
Il termine egiziano Kheper, traducibile come "divenire" e "trasformazione", indicava sia l'esistenza che la maturazione biologica di un individuo.
Era questo aspetto dinamico l'idea chiave del pensiero egiziano relativo alla morte: un filo rosso che univa la vita e la morte in unico percorso di trasformazione continua che aveva il suo compimento ultimo nell'assunzione dello spirito del defunto nei cicli immutabili della natura, come stella del firmamento o a bordo della barca solare di Ra, nel suo quotidiano viaggio attraverso il cielo.



Tomba di Inherkhau a Dier el Medina. XX dinastia

Il personaggio raffigurato ci avverte la legenda, è il disegnatore (in egiziano sesh kedut) Inherkhau.
E' verosimile che l'uccello Benu rappresenti uno dei principali prototipi del mito della Fenice ed è probabile che proprio l'immagine dell'airone in cima alla Collina Primordiale, chiamata anche "isola della fiamma", abbia fornito il materiale mitico in seguito confluito nelle leggende riguardanti la rinascita della fenice dalle proprie ceneri.
Con la designazione di "uccello Benu" gli egiziani indicavano l'airone azzurro (Ardea Cinerea) che fin dai tempi più antichi popolava le paludi del Delta.
L'immagine dell'animale con le zampe sul pelo dell'acqua deve aver indotto la mitopoietica egiziana a includerlo nel mito della creazione eliopolitana, come manifestazione del sole Ra che emerge dalle acque primordiali.
Durante il Nuovo Regno esso compare dunque all'interno del Libro dei Morti e in particolare nella vignetta relativa alla "formula per trasformarsi nell'uccello Benu, grazie alla quale il defunto sperava di potersi trasformare nell'uccello favoloso per volare nell'aldilà come spirito rinato.



Tomba di Ramesse I nella Valle dei Re, Tebe Ovest, camera funeraria J, parete nord, Atum-Ra trafigge Apopis, XIX dinastia.


Apopis è raffigurato mentre si avvolge su se stesso a formare 12 spire, le 12 ore notturne superati le quali, Atum-Ra risorge al mattino.
Quella rappresentata è una scena tratta dalla terza divisione del Libro delle Porte, nella quale viene narrata uno dei miti più importanti relativi all'idea egiziana della morte e dello scorrere del tempo: la quotidiana lotta tra Ra e Apopis.
Ciò che distingueva il mondo ordinato dal temutissimo Caos, di cui Apopis era personificazione, consisteva nel processo di continuo rinnovamento che si produceva in tutte le manifestazioni del Creato e che, al contrario, era completamente assente nella massa informe e immobile del Caos.
Il mito dello scontro tra Ra e Apopis adombra anche una contrapposizione tra i due concetti di tempo differenti, rispettivamente dinamico e statico: Ra infatti nasce e invecchia ogni giorno, per poter rinascere il mattino seguente, mentre Apopis viene distrutto tutte le notti da Ra, ma torna ogni volta alla sua forma originaria, perché espressione della durata immobile e immutabile del Caos.
Atum-Ra trafigge Apopis con una lancia.
Questa icona avrà una diffusione grandissima giungendo a essere, attraverso numerose interpolazioni, un prototipo dell'iconografia cristiana di "san Giorgio e il Drago".




Malesia: Borneo, i tatuaggi Dayak.





L'antica tradizione di praticare il tatuaggio su diverse parti del corpo è espressione di una vera e propria forma d'arte ornamentale diffusa presso molte popolazioni indigene del Borneo.
Le figure e i motivi riprodotti erano molto numerosi e variavano notevolmente da un gruppo all'altro.
I disegni erano e sono tuttora associati alle varie parti del corpo: quelle a forma circolare vengono riportati sulle spalle, sul torace e sul lato esterno dei polsi, mentre un disegno più elaborato come un cane, uno scorpione o un drago è riservato alle superfici interne ed esterne della coscia.
Altre figure rappresentavano uccelli, serpenti e motivi di piante.
Gli scopi di questa usanza erano molteplici e misteriosi, in quanto un tatuaggio sulla mano di un uomo dava prova del suo coraggio in guerra o del fatto che avesse tagliato alcune teste ai nemici.
Per le donne i tatuaggi sono simbolo di bellezza; anzi per molte, i disegni più elaborati denotavano un elevato stato sociale all'interno della comunità.
La pratica del tatuaggio come forma d'arte tende a essere tramandata dai genitori ai figli, ma non ha carattere esclusivamente ereditario in quanto qualsiasi membro del villaggio mostri un certo interesse a praticarla è libero di osservare e assistere al procedimento, per intraprendere in futuro egli stesso tale attività.







La tecnica del tatuaggio è effettivamente complessa e richiede molta esperienza e anche in passato aveva più successo se praticata da un artista affermato.
Il disegno è prima intagliato in un blocco di legno e quindi spalmato con dell'inchiostro o un composto di fuliggine.
Esso viene successivamente premuto sulla zona da tatuare e il contorno del disegno viene perforato sulla pelle con una serie di aghi o spine intinti in un pigmento di colore bluastro,
consistente in una miscela di succo di canna da zucchero, acqua e fuliggine di resina bruciacchiata.
Per il tatuaggio vero e proprio si usa una specie di martelletto provvisto di due o tre minuscoli aghi fissati all'estremità e consistente in un cuscinetto di morbida stoffa per non ledere la pelle. Il martello viene appoggiato sulla pelle dopo aver immerso gli aghi nell'inchiostro.







Questi ultimi vengono quindi fatti penetrare nella cute colpendo il martelletto con un bastoncino.
Allo scopo di evitare infezioni, la parte infiammata veniva spalmata con riso.
Tale procedimento è molto doloroso e in molti casi il completamento del disegno richiede fino a quattro anni di tempo per la necessità di sospendere il lavoro a intervalli regolari.
I Kenyak usano meno linee per i loro tatuaggi e all'apparenza questi si presentano più leggeri e armoniosi rispetto ai disegni tradizionali dei Kajan.
Originariamente il tatuaggio era riservato soltanto alle classi sociali superiori, ma in seguito poteva farsi tatuare chiunque avesse la necessaria disponibilità economica.
Anche tra coloro che avevano la possibilità di farsi tatuare vi erano discriminazioni di carattere sociale poiché soltanto le persone del più alto livello potevano avere cinque anelli nella parte inferiore delle gambe mentre a quelle dello strato sociale inferiore era consentito di farsi tatuare soltanto due anelli.







Nei loro disegni i Kenyah facevano più uso di figure rispetto ai Kajan, che lavoravano maggiormente con motivi lineari e geometrici; anche i Kenyah si tatuavano braccia e gambe.
Ai tempi nostri, e soprattutto nel Kalimantan, dove il governo segue una politica di modernizzazione, l'arte del tatuaggio si sta purtroppo estinguendo e con essa scompariranno forse molti dei disegni più belli rimasti.
Tuttavia non è raro imbattersi ancora in molti esponenti dei gruppi più antichi delle regioni interne, che mostrano con orgoglio i loro corpi tatuati.






Italia: Un tesoro archeologico sull'isola di Favignana, ritrovate pitture di diecimila anni fa.






Favignana scrigno di meraviglie archeologiche. 
Un complesso pittorico di figure antropomorfe maschili stilizzate e di alcuni animali in perfetto stato di conservazione, nonché altri segni pittorici ancora in fase di studio, sono stati rinvenuti dopo 10 mila anni, nelle grotte egadine dell'Ucciria e delle Stalattiti.
Favignana dovrà diventare un punto di riferimento per il turismo archeologico e storico nel panorama dei beni culturali siciliani». Le pitture che si trovano su due pareti adiacenti della Grotta dell'Ucciria raffigurano 5 figure maschili, monocrome nere di stile schematico, attribuibili all'Eneolitico, e alcune figure animali di non facile interpretazione. 
Dopo 60 anni dalle scoperte fatte nell'Isola di levanzo, Grotta del genovese, di pitture e incisioni  preistoriche, un' altra importantissima scoperta è stata fatta dal Prof. Francesco Torre e da uno studente di Archeologia Navale di Trapani, Francesco Ernandez, durante lo studio della tesi di Laurea, in una grotta di Favignana, la Grotta dell'Ucciria.  
In una seconda visita, e in una grotta adiacente, La Grotta delle stalattiti, la Dr.ssa Simona Torre, Presidente dell'Associazione Lucy,  associazione di Preistoria che gestisce la Mostra Permanente di Preistoria di Paceco, ha rinvenuto altri segni pittorici, anche questi dipinti in nero,  ancora in fase di studio e di interpretazione.
Si tratta di un complesso pittorico di figure antropomorfe maschili stilizzate e di alcuni animali, molto simili a quelle rinvenute nella Grotta del genovese di Levanzo. 
Molto probabilmente furono create quando ancora le due isole erano unite alla terraferma.  Si tratta di 5 figure maschili  monocrome nere di stile schematico, attribuibile all'Eneolitico e di alcune figure di animali di non facile interpretazione.
Alcuni sembrano dei pesci, altri degli animali come caprioli o lepri. 
Lo stile e decisamente naturalistico e rileva negli artisti di Favignana una tecnica pittorica così sicura ed un senso così profondo e vivo della presenza umana da farci ricordare le migliori espressioni di arte franco-cantabrica (Francia e Spagna).





Le figure si trovano parte in una parete e parte in un'altra quasi adiacente. Sono tutte dipinte in nero, forse pitturante con ossidi di manganese oppure dal guano sub fossile di pipistrello, il tutto mescolato ad un lattice di una pianta l'Euphorbia dendroides, di cui le nostre isole sono ricche. Insieme alle pitture sono stati rinvenuti, all'interno della grotta, numerosissime conchiglie, del genere Littorina, che rappresentano resti di pasto degli uomini preistorici. Queste figure vengono alla luce perfettamente conservate dopo 10 mila anni.
Le figure venivano dipinte per motivi magico-religiosi.
Le pitture di Favignana, così come quelle di Levanzo,  portano una nota completamente nuova nel panorama di tutta l'arte rupestre preistorica nazionale. Come sempre affermato dal Prof. Torre, Favignana, con le sue numerose grotte, i rinvenimenti fenicio-punici e medievali degli ipogei a San Nicola, dovrà certamente diventare un punto di riferimento per il turismo archeologico e storico nel panorama dei beni culturali siciliani.
La scoperta è stata regolarmente denunciata alla Soprintendenza di Trapani che esercita la tutela e il dirigente, la dott.ssa Rossella Giglio, ha espresso notevole interesse per l'eccezionale scoperta e sarà effettuato un sopralluogo al più presto.




Luoghi. Costa Rica. Riserva Biologica Bosque Nuboso Monteverde.







Dal 1972 la concessione di terreno per l'agricoltura nella zona di Monteverde si era estesa fino alla circostante foresta pluviale.
Su iniziativa di due biologi americani in visita e di un numero di residenti locali, si diede vita a progetti per creare una Riserva.
Fondi forniti dal WWF consentirono alla comunità di comprare altri 554 ettari, portando a 10.500 ettari la totalità dell'area protetta della Riserva Biologica Bosque Nuboso Monteverde.
Amministrata dall'organizzazione non a scopo di lucro Centro Cientifico Tropical, con sede a San Josè, oggi la Riserva è popolarissima sia tra gli stranieri che tra i costaricani, che arrivano qui a schiere, specialmente durante la settimana di Pasqua e le vacanze scolastiche, per percorrere i sentieri che attraversano l'ultima sacca rilevante di foresta nebbiosa primaria del Centroamerica.









Difficile non rimanere colpiti dalla varietà del territorio, che spazia dalla foresta nana nelle zone più esposte al vento, alla vegetazione fitta della foresta pluviale.
Si possono godere alcune viste davvero straordinarie dai vari miradores disponibili.
Descrivere la Riserva nei dettagli rovinerebbe l'effetto della vista.
Basti dire che ci si ritrova davanti a un mondo di un verde denso e ininterrotto, con il rumore del vento, e senza segni di insediamento umano all'orizzonte.
La Riserva di Monteverde contiene sei diversi biotopi, o ecocomunità, che ospitano secondo le stime 2.500 specie di piante, oltre 100 specie di mammiferi, circa 490 specie di farfalle tra cui la morbide blu, e oltre 400 specie di uccelli, tra cui il quetzal, il bizzarro campanaro dai tre bargigli, l'uccello parasole dal collo nudo e circa trenta tipi diversi di colibrì.
Qui sono state identificate oltre 120 specie di rettili e di anfibi, tra cui il rospo dorato di Monteverde (aspo dorado), ufficialmente scoperto nel 1964, considerato endemico della zona e che ora si teme estinto.









E' importante ricordare che la copertura di foresta nebbiosa, fitta, poco illuminata e pesante, rende difficile la vista.
Parecchi visitatori lasciano la Riserva delusi per non aver potuto individuare molti animali.
Comunque Monteverde non è mai deludente, grazie alla quantità di piante che si possono osservare, soprattutto se si segue una visita guidata, che vi aiuterà a identificare muschi, epifite, bromeliadi, felci primitive, formiche tagliafoglie, rane velenose e altri piccoli rappresentanti della fauna e della flora locale, oltre a darvi la possibilità di godere viste fantastiche.
I veri appassionati escursionisti della foresta pluviale dovrebbero pianificare almeno una giornata da trascorrere nella Riserva, anche se molti decidono di fermarsi qui due o tre giorni.
Vestitevi a strati, e assicuratevi di avere un equipaggiamento leggero per la pioggia, specialmente dopo le 10 o le 11.
Dovreste anche portare un binocolo e repellente contro gli insetti.
E' possibile cavarsela senza stivali di gomma nella stagione secca, ma ne avrete assolutamente bisogno in quella umida.
L'ufficio della Riserva e alcuni hotel li noleggiano.






giovedì 29 novembre 2012

Oceania: Ornare il corpo.

"...Indossava una sottile madreperla sul seno / La donna di Kundila, Rangkopa, / Si drappeggiava con lunghe collane di semi, / La donna di Kundila, Rangkopa".
(Ballata della Nuova Guinea).





In Oceania gli ornamenti sono usati quotidianamente da donne e uomini, ma i gioielli e gli accessori più pregevoli e preziosi sono riservati a occasioni o a persone speciali, utilizzati per far risaltare la bellezza dei corpi, a loro volta già decorati con tatuaggi e scarnificazioni o semplicemente pitturati od oliati.
Oltre alla funzione puramente estetica, gli ornamenti esplicitano e dimostrano qualità o attributi delle persone che li indossano.
Fabbricati con i materiali più belli, preziosi e rari, lavorati con maestria, spesso da artigiani specializzati, parlano di ricchezza, sacralità, status e potere.
Nelle società più stratificate gli stessi ornamenti riservati a persone di rango elevato sono permeati di mana: se da un lato quindi fungono da emblemi dei poteri divini della persona che li porta, dall'altro i tabù che li circondano ne ribadiscono e assicurano la separazione dalle persone di rango inferiore.
Sono ereditati dai discendenti e diventano cimeli di famiglia.
Nelle società dove il potere e lo status non sono ereditati ma acquisiti, gli ornamenti che, spesso costituiscono anche i principali beni delle transazioni cerimoniali, testimoniano la ricchezza del portatore, ma anche la sua abilità nel partecipare agli scambi da cui deriva il prestigio.
Ornamenti specifici possono anche essere riservati a individui o categorie di persone durante particolari stadi della vita o indicarne uno stato rituale temporaneo, enfatizzandone la separazione dalla vita sociale ordinaria.
Le vedove indossavano ornamenti distintivi, spesso legati alla persona defunta.
Esistono ornamenti riservati agli iniziati di società o culti esclusivi e altri che, indossati, inducono, per esempio in guerrieri sciamani o danzatori, un particolare stato esistenziale legato all'immanenza dei poteri spirituali degli antenati.
Gli ornamenti dei danzatori malesiani ne rilevano le qualità intrinseche ed enfatizzano i movimenti dei corpi, in un delicato equilibrio tra l'esibizione delle doti personali e l'esaltazione della solidarietà del gruppo.



Donna Mekeo. Papua Nuova Guinea

I Mekeo attribuiscono molta importanza alla bellezza personale e dedicano grande attenzione alla cura dell'aspetto.
L'effetto desiderato è quello di meravigliare, presentando esteriormente, sulla pelle, le qualità interiori della persona.
Mentre gli uomini, soprattutto celibi, si adornano tutti i giorni per rendere efficaci le magie del corteggiamento, le donne sono considerate naturalmente attraenti e si limitano a decorarsi in maniera elaborata in occasioni festive.
Pitture e ornamenti sono utilizzati ad arte per far colpo sugli spettatori, un effetto amplificato dall'uso di piante e fiori dal profumo inebriante.
I colori preferiti sono quelli chiari e brillanti, associati alla vitalità.
Ogni elemento decorativo ha un nome specifico e presenta variazioni che permettono di identificare il clan di appartenenza.
Indossando tali ornamenti, la persona dichiara al mondo anche le sue capacità di entrare in relazione con gli altri, da cui li ha ricevuti in dono.



Uomo Iatmul. Papua Nuova Guinea


L'elaborato copricapo incorpora alcuni fra i beni cerimoniali più pregiati nelle culture Sepik.
Testimonia la ricchezza e lo status.
Le piume del cosoario sono spesso associate ad attività maschili quali la caccia e la guerra.
Conchiglie nassaridi, anelli di conchiglia a zanne ricurve di maiale sono beni di scambio utilizzati nei commerci intertribali, nelle transazioni matrimoniali, e nei riti di riconciliazione che sancivano la fine delle ostilità tra clan o gruppi nemici.
Gli stessi elementi possono essere combinati in composizioni ornamentali su supporti diversi, come pettorali o borse di rete.
Spesso sono inseriti anche nelle rappresentazioni scultoree degli antenati del clan.





Viaggi in moto: Perugia-Pechino con uno scooter 50cc. Alessandro Bacci.


I viaggi di Alessandro Bacci





Perugia-Pechino






Perché mettersi in testa di arrivare in Cina in sella ad un cinquantino? Questa domanda diretta da parte di un giornalista mi ha fatto riflettere come non avevo fatto finora, preso dalle mille cose da fare per organizzare un viaggio del genere. 
La risposta è semplice e naturale, a me piace viaggiare, e non occorre per forza una grande moto o attrezzature ed equipaggiamento di prim’ordine, ci vuole voglia di fare nuove esperienze, passione e determinazione. 
Il piacere di partire con un motorino l’ho provato nel precedente viaggio, quando ho raggiunto, insieme ad altri colleghi Vigili del Fuoco, Caponord. 
Con questa premessa vi racconto in queste poche righe l’avventura da me vissuta insieme al compagno di sempre, Emanuele Cruciani, con cui ho girovagato nel mondo in sella alle moto. 
Era il 2004 e appena tornati dalla mitica rupe volevamo fare un altro giretto in motorino, in quei giorni si parlava tanto della Cina, sia come potenza economica, sia come sede delle prossime olimpiadi, in un attimo le idee divennero appunti su di un fogliaccio. Cartina alla mano si può fare. 
In molti presero la cosa come una sfida, noi come un'altra avventura da vivere nel migliore dei modi. 
Andando avanti con l’organizzazione ci scontrammo subito con la burocrazia di questi paesi difficili, ma la tenacia e la furbizia ebbe il sopravvento. Ai cinesi non piace che i turisti scorazzino da soli nel loro territorio, non è facile ottenere il permesso di entrare e guidare un mezzo nella Repubblica Popolare Cinese. Io e Manu abbiamo aggirato l’ostacolo, invece di essere due semplici turisti siamo diventati due Vigili del Fuoco che vanno a trovare i loro colleghi a Pechino, imbastiamo un gemellaggio, quindi attraverso dei documenti ufficiali riusciamo ad ottenere i visti per noi ed i permessi per i mezzi. 
Da cosa nasce cosa e attraverso alcuni sponsor racimoliamo dei fondi da devolvere all’UNICEF, in quanto ambasciatori portiamo con orgoglio sulla nostra divisa il loro logo. Naturalmente i cinesi ci scorteranno dalla frontiera mongola fino alla loro capitale, dove un gruppo di colleghi arriverà in volo, lì giocheremo una partita, abbiamo sfidato i cinesi nello sport che ci riesce meglio, il calcio. 
La parte burocratica fa il suo corso, mentre per quella logistica ci arrangiamo con più facilità. Ritiriamo due fiammanti Piaggio Liberty 50 quattro tempi, con poche modifiche lo adattiamo alle nostre esigenze, sembra di tornare ragazzini a mettere le mani sui motorini. Il tragitto prevede di puntare verso Mosca, poi attraverso la Russia arrivare in Mongolia e scendere in direzione Pechino, sulla carta sembra tutto facile ma… 
Quello che oggigiorno frena i viaggiatori è la burocrazia, i cinesi ci chiedono il libretto di circolazione del mezzo, il motorino però non ne ha uno vero e proprio, non ci sono scritti né proprietario del mezzo nè numero di targa. Gli inviamo il contratto dell’assicurazione, spacciandolo come libretto, ci cascano e risolviamo.











D’altronde come noi non conosciamo il cinese, loro ignorano l’italiano. 
Ai russi basta il telaio ed il colore del mezzo, i mongoli che sono una delle nazioni più pacifiche che conosco, la gestione dei permessi e delle dogane è tutta al femminile e sono incorruttibili. Riusciamo ad ottenere il permesso, ma lo dobbiamo ritirare di persona, insieme ai mezzi ad Ulaan-Baatar, la capitale, che dista 300 km circa dal confine. Questa sembra una condizione insuperabile, come ci arriviamo? Vagliamo l’ipotesi di partire e una volta arrivati al confine salire gli scooter su di un camion e arrivare alla capitale, oppure consegnare il mezzo a due mongoli, loro non hanno bisogno di permessi, e farceli riconsegnare dopo il confine. 
Tra le due soluzioni scegliamo la terza, ovvero il treno. 
Visto che abbiamo questa esigenza perché non salire sulla mitica Transiberiana, ci pensiamo un po’ perché potrebbe cozzare contro l’idea di un viaggio a due ruote, però non dobbiamo dimostrare niente a nessuno, non siamo in cerca di record, vogliamo un’avventura. 
Quale miglior posto di questo epico treno, le cui carrozze sono frequentate da viaggiatori di tutto il mondo, saccopelisti, ciclisti e anche dalla popolazione locale, dovrebbe essere un bel mix di culture, razze e religioni. 
Non volevamo rinunciare al viaggio per un semplice pezzo di carta, viaggiare significa anche adattarsi, alle leggi, usi e costumi dei luoghi che attraversiamo, quindi cediamo alla variazione volentieri. 
La partenza del nostro viaggio-avventura avviene dalla piazza principale di Perugia, intervengono le massime autorità della regione Umbria, dopo la benedizione da parte del Vescovo sulle nostre teste e soprattutto sui mezzi, carichi come muli, brindiamo con i numerosi colleghi intervenuti insieme al comandante, li salutiamo con la promessa di rivederci a Pechino. 
Finchè siamo in Italia ci appoggiamo nelle caserme che troviamo lungo il percorso per vitto e alloggio, poi una volta varcato il confine improvvisiamo, anche il percorso, avevamo programmato di passare per Bratislava ma ci ritroviamo a Budapest.
 Il tempo a studiare le cartine mi è sembrato perso, non c’è cosa più bella che vivere alla giornata. 
Flagellati dal maltempo, siamo costretti a ricorrere alle buste di plastica come antipioggia, oltretutto i mezzi soffrono del carico e delle altitudini a cui li sottoponiamo, le salite dei Carpazi sembrano non finire mai, in qualche punto temo di dover scendere e spingere il motorino fino al passo. 















Ricorriamo anche all’uso dell’autostrada, non prevista ma ci siamo persi, il casellante ci guarda esterrefatto, non capisce quale mezzo si cela sotto tutte quelle borse. 
Teniamo dei ritmi infernali, la carica accumulata dopo mesi di preparativi non ci fa sentire la fatica, arriviamo a Mosca con due giorni di anticipo e ne approfittiamo per fare i turisti. 






Mosca è una città affascinante, piena di contraddizioni, ricca di storia e nonostante sia una capitale la vita, per noi europei, non è poi così cara. 
Come tutte le avventure che si rispettino arriva il fuori programma, Manu ha qualcosa che non va, tra vomito e diarrea è fuori uso, nei viaggi capitano questi scombussolamenti intestinali, lo sprono a stringere i denti, e le chiappe, fino a che non saliremo sul treno. 









Cominciano i problemi, non possiamo caricare gli scooter sul treno, nonostante abbiamo già pagato il loro biglietto, non attaccano un vagone merci, dalla porta di quello passeggeri non passano. Se fosse per me rinuncerei al treno e mi rimetterei in strada, ma con il mio compagno fuori uso non so come fare. 
Non possiamo neanche fermarci più di tanto, altrimenti ci scade il visto di permanenza in Russia, devo trovare una soluzione da solo, Manu è KO. 
Con un facchino lo carico su di un carrello e lo porto fino al marciapiede da dove partirà il treno tra alcune ore. 
Se prima avevamo possibilità di scelta ora no, devo trovare una soluzione per i mezzi, oppure far finire qui il viaggio. 
Esce fuori un treno merci che parte tra 4 o 5 giorni, però ora invece che bagaglio i motorini devono diventare dei pacchi. 
Con molta fatica, tra le difficoltà linguistiche e le trattative estenuanti, organizzo le casse, speriamo di ritrovarli in Mongolia. 











Con una corsa da collasso e carico come un mulo raggiungo il treno, Manu è sdraiato sulla panchina, non sembra migliorare, anzi… Dentro di me spero che si riprenda, ho con me le medicine, poi con un po’ di riposo e con del riso in bianco, magari del thè, mi vengono in mente tutte quelle soluzioni casalinghe. 
Mentre lui dorme nella sua cuccetta, io vado in esplorazione sul treno, mi bastano un paio d’ore per capire che non dovevamo perderlo. Sembra di essere tornati indietro nel tempo, qui dentro si respira un’aria sovietica, quella vista nei film in bianco e nero. 
Scorrono le ore ed i km nell’immensa Russia, qui si perdono le concezioni di entrambi. Faccio amicizia con il personale del vagone ristorante e la sera bevo vodka e fumo i miei sigari mentre giochiamo con una specie di domino, parlo delle ore con tanta gente sconosciuta di tutte le nazionalità. 
Il mondo alle volte è tanto semplice. 
Manu peggiora, durante una sosta in una stazione, arrivano i dottori allertati via radio dal capotreno, quando li vedo salire con una cassetta degli attrezzi stile idraulico, capisco che Manu è meglio che si riprenda da solo. 
Temono che abbia un infezione, siamo nell’anno in cui si parla della SARS, gli faccio recitare la parte di “Lazzaro” e li convinco a non farlo scendere dal treno. 
Ricevo anche un SMS con cui apprendo che diventerò padre, quindi devo tornare sano, salvo e alla svelta. Il mio stato mentale subisce notevoli pressioni. 
Appena scesi nella capitale mongola lo ricovero in un ospedale, trascorrerà cinque giorni in un letto sudicio al costo di 550$, ma ne esce come nuovo. 
Cosa abbia avuto ancora è un mistero, aveva perso oltre 12kg in brevissimo tempo.
Io mentre lo curavano non potevo fargli compagnia, così sono andato a risolvere la questione dei permessi, riesco a ritirarli, si accontentano della ricevuta di spedizione dei mezzi. 













Nel tempo che mi rimane nei giorni successivi girovago alla scoperta di questo meraviglioso popolo e terra. 
Passo dai monasteri buddisti al palazzetto della lotta, sport nazionale, qui se le danno davvero non come in TV, per finire musei, mercatini e feste in piazza. 
Manu esce dall’ospedale, i motorini arrivano come programmato, il viaggio riprende forti di un’ulteriore esperienza, la strada insegna molte cose. 
La Mongolia è una terra sconfinata, ora ci aspetta la parte più difficile del viaggio, attraversare il deserto del Gobi fino al confine cinese. 
Le strade diventano piste, dapprima in terra battuta poi arriva la temuta sabbia. Incontriamo altri motociclisti loro sono in difficoltà più di noi, hanno il peso da gestire ma di potenza riescono ad uscirne, certo quando si appoggiano per terra la moto è pesante da tirare su. Noi invece quando ruotiamo il gas non succede nulla, cambia a malapena il rumore che esce dallo scarico, adottiamo una tecnica particolare, ci lanciamo sulla sabbia con la massima velocità che riusciamo ad ottenere e poi planiamo più lontano possibile aiutandoci con le gambe. 
Finita la spinta bisogna scendere e continuare accanto al nostro fidato motorino che tossisce, la sabbia non gli piace, poi la benzina di pessima qualità non aiuta i nostri 3,5 cv. 
In queste distese immagino come abbia scorrazzato Gengis Khan il condottiero che creò il più grande impero della storia. 













Sono già due giorni che scorrazziamo, seguiamo le tracce, i binari della Transmongolica, così si chiama il troncone di treno che si stacca dalla Transiberiana e procede in direzione della Cina, poi al confine prende il nome di Transmanciuriana e gli vengono cambiate le ruote. Suona strano, ma i vagoni vengo sollevati e cambiata la meccanica, le rotaie cinesi hanno un passo differente, sono più strette. 
Veniamo spesso in contatto con la popolazione, i mongoli sono gentili e curiosi, appena siamo fermi chi passa fa lo stesso e si formano capannelli di gente ovunque. Lungo il percorso non troviamo hotel o ristoranti, non avrebbero senso di esistere visto lo scarso traffico o la mancanza di turisti, alloggiamo e mangiamo dove capita, grazie all’ospitalità. Diamo anche la sensazione di essere fuori dal comune con due piccoli mezzi stracarichi, sudici, sono giorni che non ci laviamo e cambiamo, in sella a delle grandi enduro costose, equipaggiati come dei marziani, non avremmo fatto pena come in queste condizioni. 
Arriviamo al confine cinese sfiniti, abbiamo fatto anche 16 ore di sella con ammortizzatori inesistenti, sono giorni che non abbiamo un vero letto dove far riposare i muscoli intirizziti. Alla dogana ritroviamo l’asfalto, non sapevo se ce l’avremmo fatta ad arrivare fino qui, tanti viaggiatori salgono sul treno in questo pezzo e scendono nella capitale mongola, al contrario di noi. 
Con la differenza che noi abbiamo accorciato il viaggio con le ruote a terra, ma non ci siamo tirati indietro nel pezzo più duro: arrivare ad Ulaan Baatar è facile, a parte qualche buca, il difficile viene dopo. 
Il mezzo si è comportato benissimo, neanche una foratura, saremo stati bravi o fortunati? 
Lasciamo la Mongolia in un attimo, la nostra guida cinese ed i suoi scagnozzi ci prelevano, con una mancia otteniamo la patente, avrebbero voluto che facessimo una specie di esame, ma secondo noi non era necessario: se eravamo arrivati fino a lì, forse eravamo capaci di guidare!
 Il nostro approccio con questo popolo non è facile, un po’ perché siamo sempre osservati ed uno di loro prende appunti in continuazione, oltre alla difficoltà linguistica qui neanche i gesti più semplici ed internazionali aiutano. 
Veniamo sempre guardati esterrefatti e non otteniamo una risposta, neppure quando accavallettiamo il motorino davanti ad un pompa per fare rifornimento, anzi in questo caso siamo addirittura cacciati. Solo osservando gli altri “motorinisti” capiamo il meccanismo, bisogna infilare la pompa in un recipiente, poi andare verso il motorino che viene parcheggiato ai bordi dell’area di servizio, ed versare il contenuto nel serbatoio. 
Tutto questo per motivi di sicurezza, ma vedendo quanta benzina cade dagli imbuti improvvisati, non ne sono convinto. 
Finalmente mangiamo in un vero ristorante cinese, con grande sorpresa scopro che qui gli “involtini primavera” non esistono, sono un'altra invenzione del potente mercato cinese. 
Per arrivare a Pechino bisogna attraversare un passo, pensavamo di fare qualche curva come succede da noi, invece facciamo solo fila, è un ingorgo lungo un centinaio di km. Potremmo anche svicolare con gli scooter ma non possiamo sorpassare la macchina con la nostra guida, quindi loro fanno la fila e noi lo stesso, con la differenza che loro se ne stanno seduti con l’aria condizionata, noi siamo in mezzo al calore dei mezzi, con un tasso di umidità insopportabile e con lo smog che fa bruciare la gola ed gli occhi. 
In mezzo a quest’inferno venditori ambulanti in sella a motorini stracarichi, che fanno sembrare i nostri ridicoli, soddisfano tutte le esigenze dei camionisti, ne approfittiamo anche noi per comprare dei Noodles, dei spaghetti liofilizzati dai gusti variegati. 
Riusciamo a sopravvivere ed usciamo da questa pazzia generata dall’uomo, alcuni di loro staranno fermi per giorni in attesa che il tutto si sblocchi. 
Avevamo concordato un percorso, ma vediamo che non viene rispettato, chiediamo spiegazioni e ci dicono che noi stranieri non possiamo passare per quella strada, anzi siamo anche troppo vicini. 





Non so cosa nascondono ma ci vengono sequestrate le attrezzature video e fotografiche, inoltre gli scooter sono caricati sul furgone di scorta. 
Manu si arrabbia e prende la nostra guida per il collo, noto con piacere che gli sono tornate le forze, lo convinco a lasciare la presa prima che da giallo diventi bluastro. 
Quando riprende il fiato ci spiega che è per la nostra sicurezza, un'altra bugia come tante, in questa repubblica sono troppe le cose che nascondono al mondo. Secondo noi lui non è guida, ma un osservatore del governo, qui tutti sono spiati,  capiamo perché i cinesi incontrati ci guardano senza dire una parola, sono spaventati. 
Riavremo i mezzi dopo alcuni km e proseguiamo come se nulla fosse, finalmente vediamo anche i primi segni distintivi della Cina: risaie a perdita d’occhio. 
Siamo a circa 80km da Pechino, non possiamo imboccare l’autostrada perché vietata alle due ruote, abbiamo capito le loro intenzioni, svicoliamo a lato delle sbarre e ci allontaniamo, almeno un tratto lo vogliamo fare. 
Dopo alcuni chilometri ci raggiungono e siamo costretti nuovamente a caricare i mezzi sul furgone, non ci ha fermato il deserto ma la burocrazia, per non chiamarla in altri modi. 
A Pechino i mezzi vengono di nuovo scesi, dobbiamo fare una specie di parata organizzata dal Ministero del Turismo, entriamo festeggiati dalle autorità locali, i colleghi italiani e cinesi, la stampa e la tv, come se nulla fosse successo. 














La nostra delusione per il trattamento da ostaggi ricevuto passa in secondo piano una volta circondati da i nostri cari, amici e colleghi. 
Ora ci aspetta il gemellaggio ufficiale con i colleghi, la partita a pallone ed una settimana a spasso, come un gruppo di turisti qualsiasi, tra le meraviglie di questa città e loro cultura. Per la cronaca il risultato è stato 7 a 3, noi volevamo fare un amichevole, loro si sono presentati con la squadra militare olimpionica, non gli piace perdere, sono sportivi quanto sono democratici.



Video: Servizio di Rai Sport sul viaggio.







Profili: Alessandro Bacci.