domenica 30 settembre 2012

Sahara: Gli animali hanno imparato a non bere.

Sahara: Gli animali hanno imparato a non bere.





Chi fa per sè fa pre tre: senza un raffinato lavoro delle piante non sopravviverebbe la vera meraviglia biologica del Sahara, il pio addax che ha fatto voto di ritirarsi asceticamente nel deserto e non bere mai.
Gli addax sono robuste antilopi alte un metro al garrese, con mantello bianco-grigiastro e corna sottili nere.
procedono a piccoli gruppi di 5 a 15 capi, spostandosi nel deserto in continua ricerca di nuovi pascoli, costituiti dagli scarni ciuffi d'erba e in particolare di portulaca, intraprendendo anche lunghe migrazioni stagionali.
Per procedere abbastanza speditamente nella sabbia senza affondarvi hanno gli zoccoli piatti (simili a quelli delle renne, che hanno analoghi problemi di neve), i due principali di ogni zampa divaricabili e il paio secondario notevolmente sviluppato.
Gli addax sono attivi soprattutto al mattino, alla sera e di notte, evitano cioè se appena possono di muoversi sotto il sole a picco, preferendo nelle ore in cui l'irradiazione solare è più violenta, come pure quando spirano forte venti, scavarsi delle fosse con le zampe anteriori nella sabbia, stendendovi ad aspettare che passi.
Tempo già fu in cui gli addax erano molto più abbondanti nel Sahara: documentatamente nell'antico Egitto, quando erano anche allevati allo stato semidomestico, fino a essere tenuti in stalle e foraggiati.
Ne resta la testimonianza in un'incisione rupestre che proclama come Sabu, sacerdote della VI dinastia ( 2323 a. C.), ne possedesse 1244.




Erano utilizzati come animali da tiro e uccisi prevalentemente in occasione di sacrifici alle divinità.
Il personale ad essi addetto aveva persino messo a punto un sistema per renderne innocue le aguzze corna, piegandogliele man mano con apposite pinze durante la crescita.
Quando smisero, già prima dell'era cristiana, d'essere allevati, gli addax non  smisero però d'essere cacciati, e all'inizio del XX secolo erano completamente scomparsi dall'area egiziana, sterminati come  già era avvenuto in Tunisia, nel 1885, come sarebbe avvenuto nel 1920 in Algeria, e poi in Libia e Senegambia.
Sono sopravvissute unicamente le popolazioni che occupavano i territori meridionali e meno accessibili del Sahara, il Tenerè, i grandi Erg, il Majabat, quelli del nord del Ciad.
Popolazioni che sopravvivono alla caccia anche perchè non cadono nella trappola di esporsi raggiungendo inevitabili punti d'abbeverata.
Questo perchè gli addax (ecco il punto del chi fa da sè fa per tre) possono stare settimane e mesi, e c'è chi dice una vita intera, senza bere, traendo l'acqua esclusivamente dalla spesso arida erba che mangiano.
Primato questo che in effetti gli addax condividono con gli orici dalle corna a sciabola, essi pure ridotti dalla caccia indiscriminata a sparuti drappelli nei lembi più meridionali del Sahara.




Sia chiaro: pure il ratto canguro ed altri roditori sahariani prosperano senza mai, anche quando mangiano cibo esso pure secco: il loro ridotto fabbisogno idrico è coperto sia dalla ridottissima quantità d'acqua contenuta nel loro cibo così com'è, sia  da quella che esso cede ulteriormente per reazione chimica una volta che sia stato ossidato dai processi metabolici dell'organismo.
I roditori poi, sono piccoli e abituati a scavarsi tane profonde, dove le variazioni climatiche superficiali arrivano sì e no molto smorzate.
Ma questa è una possibilità preclusa ai grossi mammiferi, che per mantenere regolata la propria temperatura corporea durante la calura quotidiana debbono necessariamente trasudare sostanziali quantità d'acqua.
Quando la temperatura diurna sotto il sole raggiunge picchi come  gli 84°C misurati a Wadi Halfa, un essere umano nel deserto può perdere oltre dieci litri di acqua in sudore, il che prosciugano anche le riserve contenute nel plasma sanguigno (che per il 90% acqua), il sangue diviene troppo viscoso e non riesce più a circolare ovvero a mantenere la temperatura corporea a livello normale.
Anche le "navi del deserto", i dromedari, hanno gli stessi problemi, che il loro organismo mitiga limitando la traspirazione.
Nei lunghi percorsi, comunque, possono perdere anche un terzo del loro peso disidratandosi senza danno, riuscendo a recuoperare abbastanza in fretta bevendo anche 150 litri d'acqua in una volta.


 

 
C'è inoltre, non secondaria, la componente dell'abbattimento dello stimolo della sete, fin quando all'assurdo narrato da Thèodore Monod, i cui dromedari non bevvero per un mese lungo i 900 kilometri da Ouadane ad Araouane, ma alla fine del viaggio dovettero essere costretti a bere, quasi ne avessero perso l'abitudine come il ciuco della storiellina.
L'addax, allora, come fa a non bere? e come fa al tempo stesso a mantenere la propria temperatura senza perdere acqua? Ancora agli inizi degli anni Sessanta il fatto che addax e orice dalle corne a sciabola potessero stare mesi e mesi, addirittura indefinitamente, senza bere nel clima sahariano era ritenuta una storiella mantenuta in circolazione dalle popolazioni indigene e da cacciatori bianchi spacconi.
Poi nel 1964 le ricerche dirette di Taylor e Lyman della Università di Harvard, con questi risultati.





L'uovo di Colombo, si direbbe.
Quando la temperatura esterna si alza oltre quella corporea standard, che sarebbe attorno ai 35°C, l'organismo dell'orice e soprattutto quello dell'addax reagiscono prendendo la situazione "in contropiede", ed anzichè spender acqua per mantenere la propria costante, la innalzano anche di 6/7 gradi di botto, portandola al di sopra di quella esterna: con 40°C ambientali l'orice si porta a 41,2° e l'addax a 42,1°.
Ovvero anzichè disperdere acqua per non  ssorbire calore, si mettono in condizione (è legge fisica termodinamica fondamentale) di disperdere calore.
Ma anche gli altri sahariani hanno i loro trucchi: le formiche sono argentee e le talpe sono dorate, così per le fugaci comparse in superficie la loro livrea respinge, riflettendola, una buona dose di radiazione solare: i ragni del deserto introducono il proprio sperma nell'addome della femmina chiuso in capsule, ed altrettanto fanno i scorpioni, perchè l'incapsulatura impedisce che il seme si dissecchi nel passaggio fra i due corpi ed anche dopo: il gerboa, che pure si scava le tane a profondità fresche, dorme arrotolato su se stesso tenendo il naso contro il ventre, in modo che l'aria secca che ispira si mescoli prima all'umidità lasciata un pelo da quella espirata, umidità che viene recuperata.




Uccelli come gli pteroclidi portano l'acqua ai propri nidacei spargendosi le gocciole fra le piume del petto; le lucertole corazzate di squame come i varani assorbono l'umidità dal terreno notturno non attraverso la pelle, così ricoperta, ma per un fenomeno di capillarità lungo i canalini che l'interstizio forma fra squama e squama.
Il Sahara "deserto" per antonomasia, per nulla dunque deserto, anzi brulicante, mano distruttrice dell'uomo (vedasi addax e orici) permettendo.





sabato 29 settembre 2012

Africa: Griot.

Africa: Griot.

"Un mondo senza griot mancherebbe di sapore come il riso senza salza"
(proverbio peul, Mali)



Quelle dei Griot è l'arte di parlare.
La loro presenza alla corte del Mali nel XIV secolo è attestata dal geografo arabo Ibn Battuta.
Questi bardi e cantori africani sono presenti in varie popolazioni dell'Africa occidentale e soprattutto nelle aree mande.

Si tratta di un'attività in cui possono accedere solo i membri di certe famiglie endogamiche.
Come accade per altre professioni, come quella dei fabbri, anche i griot sono sia temuti che disprezzati: il potere della loro parola può fare le fortune di una persona quanto la sua disgrazia, attirando su di lui spiriti malevoli.
Questa marginalità sociale consente ai griot di avere una certa libertà di espressione (similmente ai buffoni nelle corti europee), talora con comportamenti socialmente trasgressivi, come lo spogliarsi  pubblicamente.
I griot possono esercitare autonomamente in villaggi e città oppure offrire i loro servigi ai nobili, di cui cantano le lodi e tramandano la genealogia.




Hanno quindi un importante funzione sociale, educativa e politica nella trasmissione della memoria storica e nel mettere in relazione le diverse parti della comunità.
I profondi cambiamenti sociali dell'epoca coloniale, con il decadere dei mecenati tradizionali, hanno costretto o consentito ai griot di acquistare fonti di reddito, facendone in qualche caso dei musicisti sulla scena internazionale contemporanea.




Presso i Bamana del Mali la forza della parola dei griot poggia sulla sua valenza di tonico: essa rafforza moralmente e fisicamente la persona a cui è indirizzata intensificando il suo nyama, l'energia che è presente, in diverso grado, in tutti gli esseri, organici e inorganici.
Poeti e musicisti, raccontano storie, forniscono consigli, traducono e interpretano i discorsi degli altri, riportano e diffondono le notizie, svolgono funzioni diplomatiche e mediano nei conflitti, incoraggiano i guerrieri e i partecipanti a competizioni sportive ed elettorali.


 

 
La loro musica ha una sonorità particolare in quanto diversamente dalla musica delle popolazioni più vicine che poggia su una scala  pentatonica, utilizza una scala eptatonica, comunque diversa da quella occidentale.
Gli strumenti musicali dei griots sono la Kora, un'arpa a 21 corde diffusa nell'area mande, il belafon (uno xilofono con tasti in legno) e lo ngoni (un piccolo liuto a tre o quattro corde).
Questi strumenti sono esclusivamente maschili , mentre le donne (griotte) suonano invece delle campane (karinya).
I griot suonano anche dei tamburi detti dunun e piccoli tamburi parlanti; non suonano però il dejimbe, il tamburo più diffuso nella regione che è legato alla casa dei fabbri.
 
 
 
 

Personaggi: Kuki Gallmann: Premio Masi.

Personaggi: Kuki Gallmann: Premio Masi.



Kuki Gallmann, nata in veneto, ha scelto l'Africa come sua patria.
Dal 1972 vive infatti in Kenya, nella sua tenuta di Ol Ari Nyiro nella regione di Laikipia, al confine con la Great Rift Valley, dove ha aperto due piccoli ed esclusivi lodge e dove  è operativa la Gallmann Memorial Foundation, una fondazione che ha tra i suoi  obiettivi quello della conservazione dell'ambiente naturale e del suo sviluppo in armonia con la presenza umana.
Che cosa fa esattamente la Gallmann? racconta che vuole far conoscere l'Africa delle tradizioni, degli spazi sconfinati, delle radici.
Ospita piccoli gruppi e organizza safari, corsi di botanica e meditazioni indiane, attività didattiche e di studio della natura.





In Italia non ci torna quasi mai. Sono quarant'anni che Kuki Gallmann vive in Kenya e che dall'Africa lotta per il mondo.
Perché la sua battaglia per salvare gli elefanti dall'estinzione, non resti un problema solo di una parte del pianeta. "Se una specie scompare ne siamo tutti influenzati" ha spiegato la signora degli elefanti. Raggiunta al telefono nella sua Regione d'origine dove è arrivata per ritirare il Premio Masi, nato nel 1981 e che il 29 settembre celebra a Verona i cittadini veneti che si sono distinti per le loro storie di ordinaria eccellenza.
Come il direttore d'orchestra Andrea Battistoni, il direttore del centro di ricerche storiche di Rovigno, Giovanni Radossi, e il giornalista Gian Antonio Stella.

 


"Resto poco, devo tornare in Kenya, devo tornare in fretta", ha detto. La sua è una storia che non ha tempo da perdere.
Parla con voce decisa, velocissima, con l'accento italiano distorto dalle diverse lingue con le quali ha parlato negli anni. "Il mondo deve sapere cosa vuol dire salvare gli elefanti e comincia a farlo.


Tranne l'Italia, qui sembra che nessuno si renda conto della gravità della situazione. Il commercio di avorio sta portando all'estinzione di una specie, il compito di tutti è dare eco a un allarme che non va sottovalutato".
E' spazientita.
Kuki Gallmann trasmette una forza più preziosa dell'avorio di cui vuole fermare il commercio.
"E' un allarme vecchio il mio, eppure va rinnovato con più forza. Questo deve  farlo la stampa, come io devo tornare a difendere gli esemplari di elefanti che ancora camminano nella mia riserva.
Lottiamo 24 ore su 24 per impedire ai bracconieri di ucciderli, di prendere le zanne, di guadagnare per vivere", ha continuato la scrittrice, autrice tra vari romanzi, anche di Sognavo l'Africa (ed Mondadori, 1993).
Kuki Gallmann vive insieme alla figlia Sveva, produttrice, a Ol ari Nyiro, che significa il posto della primavera. Gestito dalla Galmann's Memorial Foundation, è un ranch di 100mila acri nella regione di Laikipia nella parte nord del Kenya. Ci passeggiano elefanti e rinoceronti neri. "Il mio Kenya è verde", ha spiegato.
Una foresta protetta, e da proteggere. "L'Africa è povera. I governi sono corrotti, l'avorio è un guadagno sicuro. Alcuni degli ultimi elefanti con grandi zanne vivono nello Tsavo, in Kenya.
Al mercato nero locale, una sola zanna di questa grandezza vale circa 5mila euro, 10 anni di paga per un operaio keniano non qualificato.
Cina e Giappone continuano a importarlo e pagano bene. Il meccanismo è incastrato. Ma è una battaglia che va fatta", ha aggiunto Kuki con parole concise, come se il tempo passato a parlarne possa toglierne a qualche altro animale in pericolo di vita. S
embra avere la testa in due zone diverse. Una parte resta vigile nella sua terra d'adozione, l'Africa. Il tono è quello di chi non sta diffondendo solo un messaggio ambientalista. Ma politico e economico.




Vive in una riserva dove è occupata a cacciare bracconieri anche a costo di essere ferita o di veder feriti quelli che lavorano con lei.

Chi non può coprirle le spalle, e resta lontano dal caldo di un Kenya ora in parte sotto le pioggie, almeno sia determinato nel passare parola. Diffonda l'allarme. "Aiuti", ha chiesto.

"Ci sono documentari, articoli, soprattutto negli Stati Uniti è un tema sentito. Quello che bisogna tentare in Italia è fare in modo che il governo firmi il trattato contro il contrabbando dell'avorio durante il prossimo convegno in Thailandia nel 2013. Io sarò lì. A breve termine spero che il parlamento keniota passi una legge che aumenti le pene per i cacciatori. Perché ora non sono sufficienti. Sarebbe un deterrente. A lungo termine bisogna cercare di ammazzare il mercato. Di stigmatizzarlo, scoperchiarlo, di togliere qualsiasi incentivo", ha continuato Gallmann. Spiegando veloce dati "che bisognerebbe conoscere", ha rimproverato.

Gli elefanti africani vengono massacrati in quasi tutto il continente africano. Uccisi per le zanne, nonostante il bando in vigore dal 1989 sul commercio internazionale dell'avorio. In quell'anno George H.W. Bush ne vietò unilateralmente l'importazione, il Kenya bruciò le sue 12 tonnellate di scorte e la Cites, organizzazione che vigila sul divieto, proclamò il suo bando internazionale, entrato in vigore l'anno dopo. Lo sottoscrissero 176 paesi, ma non il Vaticano. Mentre Zimbabwe, Botswana, Namibia, Zambia e Malawi avanzarono riserve. Nel 2008 il segretariato della Cites ha autorizzato la Cina ad acquistare avorio, con il benestare di Traffic e del Wwf e l'accordo degli Stati membri. Nell'autunno successivo Botswana, Namibia, Sudafrica e Zimbabwe hanno venduto all'asta più di 104 tonnellate d'avorio ai mercanti cinesi e giapponesi.





Numeri e date che la signora degli elefanti riassume con severità. Nel 2011 i bracconieri hanno ucciso almeno 25mila elefanti africani. Ma la cifra effettiva potrebbe essere persino doppia, oggi il fenomeno ha raggiunto i livelli più alti degli ultimi 10 anni.
Gli episodi più gravi si sono verificati nell'Africa centrale.
"Tutto fa pensare che in Cina l'industria dell'avorio sia destinata a crescere.
E' la Cina il problema principale.
Ma ora attori, atleti e personaggi pubblici sono venuti in Kenya a lanciare messaggi per scoraggiare il contrabbando", ha spiegato Kuki Gallmann.
In Cina il governo ha autorizzato l'apertura di almeno 35 fabbriche e 130 rivendite d'avorio, e finanzia corsi universitari per intagliatori, per esempio alla Beijing University of Technology.


 


Come l'inchiesta del National Geographic evidenzia nel numero in uscita il 29 settembre firmata dal giornalista investigativo Brian Christy, l'avorio è usato soprattutto per raffigurare immagini sacre.

E' il sentimento religioso, i suoi oggetti, a spingere il traffico illegale. Non solo palle da biliardo, tasti del pianoforte, manici delle spazzole.
Collaborano a questa strage di animali rappresentanti della chiesa cattolica nelle Filippine, ma anche monaci e fedeli buddhisti in Thailandia, oltre che in Cina.
Sull'isola di Cebu, nelle Filippine, il legame tra avorio e religione è così stretto che la parola garing, 'avorio', significa anche 'statua sacra'.
La battaglia di Kuki Gallmann ha avversari potenti. Lei non ha paura.
Ma fretta.
 
 
 

 

Maya e Aztechi: Luna.

Maya e Aztechi: Luna.

"Una luna è nel cielo, nel tuo viso una bocca. Molte stelle nel cielo, nel tuo viso solo due occhi".
( Poesia Azteca ).






In una società maschilista e guerriera come quella mexica, che aveva come Dio etnico il Sole invitto, la luna non poteva essere una dea di grande prestigio, anzi essa sembra esistere più per far risaltare le caratteristiche del Sole che per meriti propri.
Il mito che racconta la sua nascita come astro, infatti, la presenta come una vanitosa pusillanime.
Mentre il Sole era nato dal sacrificio di Nanahuatl, il Dio piccolo, modesto, povero e pustoloso, la Luna era nata dal sacrificio di Tecuciztecatl (abitante della terra degli antenati), un Dio maschile, ricco e vanitoso, che non aveva avuto il coraggio di buttarsi nel fuoco per primo, ma aveva seguito Nanahuatl.
Dalle viscere della terra il Sole e la Luna erano usciti nell'ordine in cui erano entrati nel fuoco e splendevano della stessa luce, ma uno degli Dei, correndo, gettò un coniglio in faccia alla luna e le oscurò il viso, che da allora mostra al centro un coniglio di profilo.
Ma per far muovere il Sole e la Luna fu necessario il sacrificio degli Dei e l'intervento del Dio del Vento ( Quetzalcoatl-Ehacatl).
La Luna tuttavia, era rimasta indietro e da allora, spiega il mito, i due astri erano rimasti sfasati.
Come si è visto, inoltre, nel racconto della nascita di Huitzilopochtli, la Luna è la sorella maggiore e la nemica del Sole invitto, il cui trionfo rappresenta la sconfitta, mai definitiva però, delle forze dell'oscurità e della notte.



Coyolxauqui, la Luna. Periodo Postclassico, Città del Messico. Museo National di Antropologia.
 
Ha sui capelli le palle di piume simbolo del potere di Tenochtitlan e sulle guance porta i campanelli da cui prende il nome.
 
 
La Coyolxauqui del Templo Mayor, cultura mexica, Periodo Postclassico, Città del Messico, Museo del Templo Mayor.
 
La  Coyolxauqui del Templo Mayor era collocata alla base della scalinata del tempio (fase IV B), che portava all'adoratorio di Huitzilopochtli, davanti al quale i prigionieri venivano sacrificati.
Successivamente i loro corpi erano gettati lungo i gradini della scalinata e smembrati proprio su questa pietra.
in questo modo si reiteravano e rivivevano esattamente gli eventi che avevano visto la vittoria del Sole sulla  Notte.
Fu scoperta il 21 febbraio 1978 da alcuni addetti dell'azienda elettrica di Città del Messico, che stavano scavando nel centro storico della città.
Il suo ritrovamento diede avvio alla straordinaria campagna di scavi che ha portato alla luce del Templo Mayor di Tenochtitlan.
 
 
 
 
Il corpo smembrato dalla dea, che probabilmente allude alle fase lunari.
Huitzilopochtli ha fatto a pezzi la sorella usando il serpente di fuoco.
La cinge la vita una cintura di serpenti corallo con un cranio come pendente.
La Dea, oltre ai suoi tipici attributi, le palle di piume sui capelli e i campanelli sulle guance, porta un copricapo semilunato con ciuffo di penne.
Sugli arti smambrati compaiono serpenti corallo e teste si serpente stilizzato.
 
 
 
 
 
 

Musei gratis in Abruzzo il 29 e il 30 settembre.

Luoghi di cultura aperti in occasione delle giornate europee del patrimonio.




La Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo, in collaborazione con Enti locali ed associazioni, organizzerà mostre, conferenze, aperture straordinarie e visite guidate.
Ecco i musei da visitare e gli eventi in programma.
A Chieti, sabato 29, alle 10.30, al museo archeologico nazionale Villa Frigerj, si svolgerà la conferenza “Archeologia in Abruzzo. Scavi e ricerche 2012”. Saranno illustrate le principali ricerche archeologiche avvenute nel 2012. I

l museo sarà aperto fino alle 23.30.
Alle 17.30 seguirà l’inaugurazione della mostra “Tesori dalle necropoli dell’Abruzzo antico” che presenterà i primi risultati della ricerca condotta in collaborazione con il Cnr di Roma sui reperti in bronzo e ferro (cinturoni,dischi corazza,pugnali) nell’ambito del progetto “L’arte della metallurgia nel mondo italico” finanziato dalla Confederazione Elvetica.
Domenica 30, alle 17.30, presso la sezione archeologica del Castello Piccolomini di Celano ci sarà l’inaugurazione della mostra “Dall’acqua al sole. Recenti scoperte archeologiche nella Marsica”; verranno esposti i corredi delle sepolture arcaiche trovate ad Ortucchio e Celano.


 


A Campli,nell’area archeologica di Campovalano, sarà possibile seguire sul campo le fasi di restauro dei reperti. Il museo archeologico nazionale di Campli resterà aperto con orario continuato gratuitamente dalle 9.00 alle 24.30.
A Martinsicuro, ci sarà l’apertura dell’Antiquarium Castrum Truentum, in collaborazione con la sede locale dell’Archeoclub d’Italia (le visite sono previste il 29 dalle 11.00 alle 16.00 ed il 30 dalle 16.00 alle 17.30); Crecchio aprirà invece il museo dell’Abruzzo bizantino e altomedievale, in collaborazione con il Comune e la sede locale dell’Archeoclub d’Italia; Avezzano aprirà le porte della villa romana in collaborazione con la cooperativa Limes; a San Vito Chietino ci sarà la visita guidata all’area archeologica Murata Bassa in collaborazione con il Club Nautico Marina di Gualdo; a Vasto sarà possibile visitare l’area archeologica delle terme romane. 




 
 


Visite guidate anche a Pescara in occasione delle giornate. L’assessore alla Cultura, Giovanna Porcaro, ha annunciato il progetto “I luoghi identitari di Pescara” che prevede una serie di visite guidate nei luoghi simbolo della città a partire dal 30 settembre, fino a dicembre.
Si comincerà dall’Aurum, domenica 30 settembre, alle ore 10.00. L’appuntamento è in Largo Gardone Riviera, con una proiezione di immagini presso la Sala Tosti e la visita all’edificio.

Sabato 13 ottobre, alle ore 10.00, ci sarà la visita al rione Pineta con l’architetto Anita Boccuccia, presidente dell’associazione “Ville e Palazzi Dannunziani”.




Domenica 14 ottobre, alle ore 10.00, ci sarà la visita guidata a Villa del Fuoco con lo storico Giovanni Cirillo, dell’associazione “Villa del Fuoco”; il percorso proseguirà con la visita alla chiesa ottocentesca di Madonna del Fuoco, dov’è sepolto il nonno adottivo di Gabriele D’Annunzio, Antonio Francesco D’Annunzio; di qui si partirà in visita alla torretta dannunziana, in via Raiale e per l’occasione sarà disponibile un bus navetta con partenza alle 9.15 da piazza Italia.
Sabato 10 ottobre, invece, ci sarà la visita guidata a Pescara Real Piazza, con il professor Claudio Varagnoli e Licio Di Biase.
Domenica 21 ottobre si potrà ammirare Borgo Marino nord, con il presidente Andrea Iezzi e Alfredo Mantini del comitato abruzzese per il paesaggio. Sabato 17 novembre si visiterà Castellamare Colli con il professor Varagnoli e Licio Di Biase.
Sabato primo dicembre visita a Fontanelle con Licio Di Biase ed Marco Di Giacomo. Infine, domenica 2 dicembre, si terrà una visita a San Silvestro, con l’architetto Alfredo D’Ercole e Enzo D’Ascanio.



venerdì 28 settembre 2012

Racconti di viaggio: Tanzania, Il Kilimangiaro, la casa di Dio.

Racconti di viaggio: Tanzania, Il Kilimangiaro, la casa di Dio.
Dalle imprese di Hans Meyer ai viaggiatori di oggi.




Il Kilimangiaro, un nome che più di ogni altro richiama alla mente l'Africa orientale, sorge tra il  Kenya e la Tanzania.
E ovunque siate, nel parco di Amboseli o nel cratere di Ngorongoro, vedrete la sua vetta stagliarsi maestosa all'orizzonte e in lontananza chiudere la savana, facendo da sfondo alle acacie dalle quali spuntano le teste delle zebre e vegliando sul sonno dei leoni.
E' l'icona dei paesaggi africani, grande come il mondo, immensa, alta e bianchissima, scriveva Ernest Hemingway in uno dei più bei libri dedicati all'Africa, "Le nevi del Kilimangiaro".
Corrono le Range Rover e davanti fuggono all'impazzata gli animali, ma nel cuore di tutti lo stesso folle desiderio: calcare le nevi del Kilimangiaro, il gesto simbolico che conclude degnamente i migliori safari.
Riuscì in questa impresa il tedesco Hans Meyer nel 1889, il primo a calpestare le nevi delle montagne della luna, come le chiamò il geografo greco Claudio Tolomeo che nel secondo secolo della nostra era sfatò le leggende sorte intorno a questo monte fino ad allora avvolto in un alone mistico, e ritenuto inviolabile dalle tribù chagga che ne popolavano le pendici.





Ma mille insidie ostacolano il folle sogno. pur non essendo una cima irrangiungibile, il Kilimangiaro è pur sempre il tetto d'Africa, e dei 120.000 escursionisti che ogni anno intraprendono l'ascensione soltanto 7.000 arrivano alla vetta più alta del Continente Nero, L'Uhuru Peak.
A 5.895 metri di altitudine l'aria è povera di ossigeno e contemplare lo spettacolo grandioso del sole che si leva sopra lo strato di nuvole che ogni giorno, all'alba, si forma ai piedi della montagna, è un privilegio riservato agli scalatori allenati.
Le difficoltà non sono soltanto fisiche ma anche organizzative perchè il Kilimangiaro non è il Monte Bianco, dove basta prendere uno zaino, armarsi di picozza e partire per l'avventura.
Il massiccio si trova entro i confini del parco Nazionale del Kilimangiaro dove per regolamento è fatto obbligo, prima di intraprendere la scalata, versare numerose tasse a una società di trekking debitamente autorizzata.
Una volta assolto questo compito, e dopo aver scelto accuratamente la guida e i portatori, si può dare avvio alla cordata.





I percorsi sono otto e la via più agevole è la Marangu Route che è quella che descriverò.
Il campo base, il villaggio di Marangu, in mezzo a piantagioni di caffè e banani, è una sorta di Katmandù africana, specie per la fauna che vi si aggira, composta da puristi della montagna, scalatori accaniti e perdigiorno affetti dal mal d'Africa.
Qui si può acquistare l'equipaggiamento necessario e si raccolgono per mettersi a vostra disposizione, come altrettanti sherpa, i portatori chagga; il punto d'incontro è all'altezza dell'ufficio postale, in prossimità della fermata del pullman.
Raggiunto il Marangu Gate, a cinque chilometri sopra il villaggio, inizia la prima tappa che porta al rifugio Mandara Hut a 2.750 metri.
Quattro ore di marcia per superare un dislivello di 750 metri, in mezzo a una generosa foresta equatoriale di liane aggrovigliate, di caucciù e alberi giganti, di orchidee e felci, di scimmie blu e uccelli multicolori.
Si accoglie con sollievo la sosta al Mandara Hut perchè il fango e il tasso di umidità hanno smorzato l'entusiasmo iniziale e stremato il corpo.
Che importa se ci si deve accontentare di un dormitorio con i letti a castello; sarete lieti di essere arrivati al rifugio, una dolce locanda dove, venuta la sera, avrete voglia di indugiare accanto al caminetto e restare alzati fino a tardi.
La notte trascorre piacevolmente e assai diversa da quelle che seguiranno.





Al risveglio il programma del giorno annuncia sette ore di marcia, per 14 kilometri e 1.000 metri di dislivello.
Lasciata alle spalle la foresta equatoriale, l'escursionista vede finalmente la cima del kilimangiaro, e, se non è allenato( come il sottoscritto) comincia a dubitare.
A ogni 200 metri di dislivello la temperatura diminuisce di un grado, e a poco a poco l'erba alta lascia il terreno alla brughiera, ai senecioni e alle lobelie;  in cielo si librano le aquile; in lontananza, sulle pendici del Mawenzi, a 3.720 metri, ci aspetta il rifugio Horombo Hut, la meta da raggiungere dopo aver attraversato una moltitudine di coni vulcanici, simili a giganteschi termitai;
Il ritmo cardiaco imbizzarisce, ed ecco allora il consiglio del viaggiatore stanco!!! : riposare per un giorno all'Horombo per acclimatarsi, riprendere fiato e prepararsi alla terza tappa che non è  propriamente una passeggiata in campagna: si superanno altri 1.000 metri di dislivello per raggiungere il Kibo Hut.
Protagonista assoluta della terza giornata è la natura, sovrana e immensa: un paesaggio desertico e lunare plasmato dal fuoco, dal ghiaccio, dal vento, e in basso la distesa verde della savana, una bellezza sontuosa che annuncia quella sublime che il kilimangiaro ha in serbo per i più tenaci.
L'aria  è rarefatta sotto il tetto del Kibo Hut; pochi riescono a dormire a 4.703 metri di altitudine, sicchè all'una del mattino, quando si riprende la marcia, il volto degli escursionisti è segnato da una smorfia di inquietudine.
La temperatura è scesa di venti gradi, il mal di montagna è in agguato; a molti la saggezza consiglia ancora una volta di tornare indietro tanto più che  la legge vieta ai portatori di  accompagnare gli escursionisti nell'ultimo tratto e li costringe ad aspettare il ritorno al Kibo Hut.




Dopo cinque ore di marcia estenuante, nel momento di calcare la cresta del cratere di Gillman's Point, spunta la luce del giorno e il sipario si alza sul paesaggio più sublime del Kilimangiaro: la caldera ricoperta dal ghiacciaio Furtwangler nel cuore del quale si leva fino a 5.895 metri l'Uhuru Peak.
Un'altra ora di salita tra cattedrali di ghiaccio continuamente rimodellate dal vento e dal riscaldamento del terreno, e finalmente il Kilimangiaro è ai miei piedi; all'orrizonte il sole, che sale sopra le nubi e l'Oceano Indiano, illumina il tetto d'Africa.




I grandi archeologi: Ernesto Schiapparelli.

I grandi archeologi: Ernesto Schiapparelli.

"Ernesto Schiapparelli, fin dal 1894, si appresta a colmare le più evidenti lacune documentarie delle collezioni torinesi" (A. Bongioanni, R. Grazzi).




Agli inizi del Novecento, la collezione egizia di Torino era composta da numerosi oggetti di pregio, tutti però risalenti ai periodi tardi della storia egiziana, dal Nuovo regno in poi.
Nel 1894 era diventato direttore del  Museo Ernesto Schiapparelli, biellese d'origine, formatosi in Francia e già direttore della sezione egizia del Museo di Firenze.
Per completare la documentazione del museo torinese, egli commissionò dapprima alcuni acquisti mirati, e dal 1903 si impegnò in scavi archeologici sul territorio egiziano, attraverso la crezione della Missione Archeologica Italiana, patrocinata dall'accademia dei Lincei e sostenuta economicamente dallo Stato.
Il primo sito esplorato fu Eliopoli, da cui provengono un rilievo del faraone Djoser e un tabernacolo di Sethy I; contemporaneamente scavò anche la mastaba di Iteti e la tomba del principe Duaenra a Giza.




Negli stessi anni fu avviata anche l'esplorazione della Valle delle Regine nella necropoli tebana, dove scavò le tombe della principessa Ahmose, dei figli di Ramesse III, Sethherkhepeshef, e della  regina Nefertari, sposa di Ramesse III; nel vicino villaggio operaio di Deir el Medina rivenne la tomba del pittore Maia e quella intatta dell'architetto Kha.
Altri scavi furono aperti anche nel Medio Egitto, ad Assuit e a Qau el kebir, oltre che a Gebelein, presso Tebe; questi  siti restituirono documenti relativi al periodo Predinastico, all'Antico e Medio regno e al I periodo Intermedio.



Tomba di Nefertari nella Valle delle Regine. Tebe Ovest.
 
 
Quando Schiapparelli esplorò la Valle delle Regine, tra il 1903 e il 1906, trovò anche le sepolture della principessa Ahmose, del prefetto Imhotep, del nobile Nebiri, oltre a quella della regina Nefertari e dei figli di Ramesse III.
Nefertari era la "grande sposa reale" di Ramesse II.
Il suo nome significa "la più bella" e oltre che alla sua avvenenza, la regina deve la sua fama anche al suo importante ruolo politico: intratteneva relazioni diplomatiche con la regina degli Hittiti, Puduhepa.
Nelle sale del Museo Egizio di Torino è esposto un modellino della tomba di Nefertari, realizzato in scala 1:10, che ne mostra anche le splendide pitture parietali: restaurate alla fine degli anni '80, sono tornate alla loro vivace policromia.
Nella tomba furono rinvenuti dei frammenti del sarcofago di Nefertari, alcuni ushaby ed elementi di arredo a nome della regina; meno certa è l'attribuzione di altri oggetti, tra cui un paio di ginocchia mummificate, relativi forse a una sepoltura intrusiva di epoca successiva.
 
 
 
 
 
Tomba architetto Kha e Merit. Torino, Fondazione Museo Antichità Egizie.
 
Nel 1903 Schiapparelli intraprese anche lo scavo del villaggio operaio di  Deir el Medina, un'importante fonte di documentazione archeologica relativamente alla vita quotidiana di un abitato egiziano; gli scavi furono ripresi negli anni  '20 dalla spedizione di Bernard Bruyère, che ne curò anche un'accurata pubblicazione.
La  principale scoperta della missione italiana fu la tomba dell'architetto Kha, sepolto con la moglie Merit.
La stele funeraria, proveniente dalla cappella, era già pervenuta a Torino con la collezione Drovetti; la sepoltura si trovava molto distante dal luogo del culto funerario, nascosta da un crollo di detriti.
La tomba si rilevò intatta agli scavatori, ancora sigillata da una porta in legno chiusa da un muro.
All'interno vi furono trovati i corpi dei coniugi, completi dei loro apparati funerari e del mobilio di corredo.
Per la varietà e la qualità degli oggetti, il corredo di Kha è una delle più famose testimonianze della vita privata di una famiglia benestante di circa 3500 anni fa: arredamento, vestiario, cibi e strumenti di lavoro ce ne restituiscono un'immagine vivida e al tempo stesso sorprendentemente moderna.
 
 
 
 
 

Luoghi: Madagascar, Isalo national Park.

Luoghi: Madagascar, Isalo national Park.




Esteso su una superficie di 81.540 ettari, il Parc National de l’Isalo è uno dei parchi nazionali più affascinanti del Madagascar.
La maggior parte del parco copre un enorme massiccio di arenaria di formazione giurassica scavato dall’erosione dei millenni, ma entro i suoi confini gli scenari paesaggistici sono estremamente variabili.
Luoghi di selvaggia bellezza e panorami straordinari si rincorrono per chilometri, esaltando le caratteristiche di centinaia di diverse specie di piante endemiche e di lemuri catta, fulvi e sifaka, che hanno trovato il proprio habitat ideale nell’Isalo National Park.
A ciò si aggiunge la presenza di numerosi siti funebri della tribù dei bara, disseminati a macchia di leopardo un po’ in tutta la riserva.

 


Dal punto di vista geografico, le pianure che ricoprono il parco sono intervallate da grandi pinnacoli scoscesi di roccia rossastra, vallate, cascate e canyon, offrendo prospettive sempre diverse.
A rovinare parzialmente l’atmosfera che avvolge il Parc National de l’Isalo è il numero generalmente elevato di turisti che lo visita ogni giorno; per allontanarvi dalla massa e godere in maniera più tranquilla delle bellezze del luogo dovrete addentrarvi nel parco, dedicando più giorni all’esplorazione del territorio.
In alternativa ci si può muovere in automobile, accorciando notevolmente i tempi degli spostamenti, ricordando che l’accesso al parco costa Ar25.000 per un giorno e Ar.40.000 per tre giorni.




 
Appena fuori dai confini del parco, a sud della città di Ranohira, tra l’Isalo Ranche e Le Relais de la Reine, si trova La Maison d’Isalo, un interessante museo ecologico particolarmente indicato per chi viaggia in compagnia di bambini.
Ad attirare la loro attenzione, infatti, sono le decine di foto, poesie e quadri che illustrano la biodiversità ed il significato culturale della zona, fornendo utili informazioni sulle popolazioni che vivono intorno al parco in diverse lingue tra cui l’inglese e il francese.
Per consentire anche a chi non è in possesso di un proprio mezzo di trasporto di raggiungere l’allestimento, da Ranohira partono frequenti navette.





 


Pur non essendo la sua principale ragione di interesse, la fauna del parco comprende parecchie qualità di lemuri, animali piuttosto rari da incontrare anche in Africa.

Le specie più numerose sono il microcebo murino, il catta, il lemure bruno ed il sifaka di Verreaux, tutte avvistabili presso il cosiddetto Canyon des Makis, il cui nome deriva non a caso dal francese “maki”, termine inerente ad una tipologia di lemure.
Inoltre il Parc National de l’Isalo ospita più di 50 specie di uccelli, tra cui l’endomico tordo pettirosso di Benson, un uccellino grigio di piccole dimensioni facilmente riconoscibile dal petto rossastro.
A livello di flora, ampia parte del parco è ricoperta da distese di erba secca e macchie di bassi arbusti a foglia caduca, mentre vicino ai torrenti e nei lussureggianti tratti di foresta pluviale che corrono nei canyon più profondi crescono palme, pandani e felci.
Una delle essenze vegetali più amate è il fiore giallo del Pachypodium rosulatum, una pianta di forma sferica somigliante ad un baobab in miniatura spesso definita “zampa d’elefante” e particolarmente bella nel periodo tra settembre e ottobre.






Visitando il parco si possono seguire diversi sentieri, quasi tutti con partenza e arrivo a Ranohira.
Tra le mete escursionistiche per eccellenza spicca la Piscine Naturelle, una fantastica piscina naturale alimentata da una cascata, ma sono da ricordare anche il Canyon des Rats, raggiungibile in un paio d’ore di cammino dalla città, ed il Canyon des Makis, ideale per avvistare sifaka e lemuri catta che balzano tra gli alberi.

Partendo dal tranquillo campeggio lungo il corso dell’ormai prosciugato fiume Namaza ci si può incamminare attraverso gole profonde e ricoperte di vegetazione fino a raggiungere la spettacolare Cascade des Nymphes.
Molto bella è anche la Grotta des Portugais, un anfratto lungo più di 30 metri e alto 2 posto all’estremità settentrionale del parco e circondato da scenari incontaminati che per essere raggiunta richiede una discreta preparazione fisica, trovandosi al termine di un tragitto piuttosto complicato.





Se al trekking preferite la più comoda, ma meno gratificante esplorazione in automobile, l’ANGAP (Association Nationale pour la Gestion des Aires Protégées) consiglia un circuito di circa mezza giornata che parte nei dintorni della Maison de l’Isalo e conduce fino ai canyon, passando per molti dei punti più suggestivi del parco. Durante il percorso si ha modo di osservare la vita tradizionale degli allevatori della tribù dei bara, che vive ai confini del parco, senza dimenticare il passaggio per La Reine de l’Isalo, la “regina dell’Isalo”, che si trova 10 chilometri a sud-ovest di Ranohira a circa 4 chilometri da Soarano, il cui nome deriva dalla forma dell’ammasso roccioso che, pare, ricordi la figura di una regina seduta




Altrettanto pittoreschi sono gli scorci che regala La Fenetre de l’Isalo (vedi foto), una “finestra” naturale scavata nella roccia e ricoperta di licheni verdi e arancioni.

Il periodo più indicato per visitare la zona è quello compreso tra aprile e novembre, mentre andrebbero evitati i mesi di gennaio, febbraio e marzo quando le piogge sono intense e frequenti.

Il modo migliore per raggiungere il Parc National de l’Isalo è partendo dalla vicina località di Ranohira, da dove i visitatori possono incamminarsi a piedi o prendere un’auto che li conduca ai diversi punti di partenza degli itinerari escursionistici.
A sua volta la cittadina si trova a circa 230 chilometri e 3 ore di viaggio da Toliara, collegata quotidianamente da voli con la capitale  Antanarivo e  Fort Dauphin.